• Non ci sono risultati.

"Reclami fallimentari e appello di diritto comune"

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi ""Reclami fallimentari e appello di diritto comune""

Copied!
354
0
0

Testo completo

(1)

INTRODUZIONE

La disciplina delle impugnative fallimentari, contenuta nel R. d. 16 marzo 1942, n. 267, recante la “Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa”, di recente, attraverso due diversi decreti legislativi, è stata novellata.

Il riferimento, in particolare, è, dapprima, al D. lgs. 09 gennaio 2006, n. 5, e, successivamente, al D. lgs. 12 settembre 2007, n. 169: il primo, contenente disposizioni in materia di “Riforma organica delle procedure concorsuali a norma dell’art. 1, comma cinque, della legge 14 marzo 2005, n. 80, la quale, a sua volta, costituisce la conversione in legge, con modificazioni, del decreto- legge 14 marzo 2005, n. 35, “recante disposizioni urgenti nell’ambito del piano d’azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale, oltre che, deleghe, al Governo, per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato , nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali”; il secondo, invece, contenente “disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 09 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’art. uno, comma cinque, cinque bis e sei, della legge 14 maggio 2005, n. 80”.

Tuttavia, l’oggetto della tesi non è limitato alla ricostruzione normativa dell’istituto delle impugnative fallimentari poiché prende in esame anche le novità legislative che, con la legge 07 agosto 2012, n. 134, di conversione, con modificazioni, del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, recante misure urgenti per la crescita del paese, sono state introdotte all’appello di diritto comune.

La scelta di tale impostazione trova la sua ragion d’essere nel fatto che, attualmente, i rimedi previsti nella legge fallimentare se, da un lato, a

(2)

seguito delle novelle prima citate, sono divenuti dei veri e propri giudizi di natura impugnatoria; dall’altro lato, a causa delle modificazioni che la legge n. 134 del 2012 ha apportato all’istituto dell’appello di diritto comune, essi non possono essere assimilati ad un giudizio di appello.

Al fine di raggiungere tale obbiettivo, ho strutturato il corpo della tesi prevedendo, un primo capitolo, nel quale ho ricostruito la disciplina delle impugnative fallimentari nel regime anteriore alla riforma del 2006; un secondo capitolo, nel quale ho racchiuso le novità che la riforma del 2012 ha apportato all’appello di diritto comune e che si sostanziano nella modificazione degli artt. 342 e 345 c. p. c., nonché nell’introduzione degli artt. 348 bis e ter, al codice di rito, ed, infine, un terzo capitolo nel quale ho analizzato la disciplina, post- riforma, delle impugnative fallimentari che costituisce la normativa attualmente vigente.

Pertanto, se, da un lato, attraverso il primo ed il terzo capitolo ho messo in evidenza il fatto che, le problematiche esistenti nel regime ante- riforma in ordine al difficile inquadramento, da un punto di vista sistematico, di alcuni rimedi fallimentari (in particolare, dell’opposizione alla sentenza dichiarative di fallimento ed al decreto di accertamento dello stato passivo) oggi non hanno più ragione di esistere, in quanto il legislatore è andato a dettare una normativa che consente di riconoscere a tutti i rimedi natura impugnatoria; dall’altro lato, attraverso l’individuazione, nel secondo capitolo, delle molteplici restrizioni che, oggi, sono esistenti nel giudizio di appello e che si concretizzano nella previsione di una sorta di udienza filtro nella quale il giudice è tenuto a prognosticare la ragionevole probabilità di accoglimento del gravame, oltre che ad un’esasperazione dei motivi ed a una restrizione dei nova in appello, ho voluto mettere in rilievo la circostanza che, la nuova disciplina fallimentare, poiché sotto tali profili gode di una propria regolamentazione, ciò non consente, con

(3)

riferimento a tali aspetti, di assimilare le impugnative fallimentari ad un giudizio di appello.

(4)

CAPITOLO 1

Il sistema delle impugnative fallimentari nel regime previgente

SOMMARIO: 1.1. il difficile inquadramento, dal punto di vista sistematico, dell’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento (art.18) e al decreto di accertamento dello stato passivo (art. 98) . 1.2. l’impugnazione dei crediti ammessi (art. 100) e la revocazione (art. 102) . 1.3. il reclamo contro il decreto di rigetto dell’istanza di fallimento. 1.4. le impugnative degli atti degli organi fallimentari. 1.1. il difficile inquadramento, dal punto di vista sistematico, dell’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento (art. 18) e al decreto di accertamento dello stato passivo (art. 98).

La disciplina delle impugnazioni fallimentari, contenuta nel R.D. 16 marzo 1942, n. 2671, ha subito, nel corso del tempo, profonde modifiche.

In particolare, tale processo di riforma ha investito in modo rilevante il reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento (art. 18); l’opposizione, impugnazione o revocazione contro il decreto di accertamento dello stato passivo (art. 99) ed il reclamo contro i decreti del giudice delegato e del tribunale (art.26).

Per quanto riguarda, invece, il gravame contro il decreto di rigetto dell’istanza di fallimento (art.22) nonché il reclamo contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori, (art.36) tale processo di modifica è stato meno incisivo.

Partendo con l’esame dell’art. 182 della legge fallimentare previgente, in origine, contro la sentenza dichiarativa di fallimento, era possibile proporre opposizione.

1 R.D. 16 marzo 1942, n. 267, Disciplina del fallimento, del concordato preventivo,

dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa.

2 Art. 18 legge fallimentare, versione originaria: “Contro la sentenza che dichiara il

fallimento il debitore e qualunque interessato possono fare opposizione nel termine di quindici giorni dall’affissione della sentenza.

(5)

Con essa si veniva ad instaurare un giudizio la cui natura aveva suscitato dibattiti nella dottrina e nella giurisprudenza dell’epoca: taluni3 sostenevano che, l’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, costituiva un mezzo di impugnazione del tutto speciale in quanto, essa, avviava un processo di cognizione di primo grado nel quale, tuttavia, trovavano applicazione le norme relative al processo d’impugnazione contenute nel secondo libro del codice di rito, salvo quanto era espressamente disciplinato dalla legge fallimentare.

Il fondamento giustificativo che i sostenitori di tale impostazione facevano valere risiedeva nel fatto che, il giudizio che con l’opposizione si veniva ad introdurre, aveva ad oggetto le medesime questioni che in camera di consiglio erano già state trattate per la pronuncia di fallimento.

Altri4, invece, ritenevano che l’opposizione non aveva natura di impugnazione. Fra questi vi era chi rintracciava, in essa, le caratteristiche dell’opposizione al decreto ingiuntivo5.

L’opposizione non può essere proposta da chi ha chiesto la dichiarazione di fallimento.

L’opposizione è proposta con atto di citazione da notificarsi al curatore e al creditore richiedente.

L’opposizione non sospende l’esecuzione della sentenza” .

3 Per quanto riguarda la Dottrina, vedi TEDESCHI, Comm. SB, pp.468-469, Fall.

(Apertura), Enc. Treccani, pp.3-4, GIORGI, G.comm., 1985, I, p. 425; per quanto riguarda la Giurisprudenza vedi Trib. Foggia 5 luglio 1986, D. fall., 1986, II, p. 729, Trib. Bari 4 aprile 1977, G. comm., 1978, II, p. 112.

4 Vedi DENTI, Riv. Trim., 1951, pp. 997 ss., PICARDI, La dichiarazione di

fallimento, Milano, 1974, p. 199 ss.

5 Vedi F.FERRARA e A. BORGIOLI, Il fallimento, 5^ ed., Milano, 1995, p. 251;

E.F. RICCI, Lezioni sul fallimento, I, Milano, 1992, p. 187 ss.

Per quanto riguarda le caratteristiche relative all’opposizione al decreto ingiuntivo, il giudizio che con essa si viene ad instaurare non è qualificabile come “processo impugnatorio” in quanto, il legislatore, in tale ambito, ha dato attuazione al principio del “ne bis in idem”, detto anche principio dell’unicità, in ragione del quale, una volta che l’atto viene impugnato, o il processo arriva ad una pronuncia di merito, e allora quest’ultima fornisce la disciplina della situazione sostanziale, o il processo non arriva alla pronuncia di merito, e allora non si può riproporre la domanda, nemmeno se i termini sono ancora aperti.

Nell’art. 647 c. p. c., infatti, si prevede che, se l’opponente, dopo aver proposto opposizione, non si costituisce tempestivamente, il decreto ingiuntivo è dichiarato

(6)

Per quanto riguarda il profilo della legittimazione attiva, l’espressione “qualunque interessato” era stata interpretata nel senso che erano legittimati a proporre opposizione tutti quei soggetti che risultavano essere titolari di situazioni giuridiche che il fallimento pregiudicava o poteva, successivamente, pregiudicare. In particolare, con riferimento alla categoria dei creditori, essi erano autorizzati a proporre opposizione indipendentemente dalla dimostrazione di uno specifico interesse6 ed a prescindere dall’ammissione allo stato passivo7.

Sulla base di tale esegesi, erano considerati legittimati attivi i creditori muniti di pegno o privilegio su mobili, i creditori che, a seguito della dichiarazione di fallimento, si vedevano sospendere il corso dei propri interessi convenzionali o legali, coloro nei confronti dei quali era possibile proporre azioni di recupero ed il contraente che ricopriva una posizione di favore rispetto al ceto dei creditori in ragione di un rapporto giuridico preesistente.

Inoltre, nonostante sul punto vi fosse stata un’iniziale diatriba, era stata riconosciuta la possibilità, al creditore, di proporre opposizione anche nell’ipotesi in cui il fallimento fosse stato dichiarato d’ufficio8 o su ricorso di un altro creditore.9

esecutivo e l’opposizione non può essere riproposta, neppure se è ancora aperto il termine per proporla.

Se, invece, il legislatore non applica tale principio, una volta chiuso il processo impugnatorio per estinzione o altro motivo di rito, se la parte è ancora nei termini può riproporre la domanda. È ciò che ci consente di affermare di essere di fronte ad un processo impugnatorio.

6 Vedi TEDESCHI, op. cit., p.476.

7 Vedi TEDESCHI, op. cit., p. 526; Trib. Milano 6 giugno 1955, D. fall., 1955, II, p.

522 e 727.

8 È opportuno precisare che nel sistema previgente l’art. 6 della legge fallimentare

prevedeva espressamente che l’istanza di fallimento poteva essere richiesta anche d’ufficio.

9 Vedi S. SATTA, Diritto fallimentare, Padova, 1996, p. 79, TEDESCHI, op. cit., p.

(7)

Ancora, anche coloro che erano portatori di un semplice interesse morale avevano la legittimazione attiva10 come del resto l’eventuale rappresentante volontario del fallito, anche se mandatario generale e il conferimento della procura risultava essere avvenuta anteriormente rispetto al fallimento11.

A titolo esemplificativo la giurisprudenza aveva riconosciuto la legittimazione attiva al creditore ipotecario12, all’erede dell’imprenditore defunto13, anche se aveva accettato l’eredità con beneficio d’inventario, in quanto veniva ad essere considerato portatore di un interesse morale ed al cessionario dei beni del fallito14. Ovviamente, come già espressamente prevedeva l’art. 18 della legge fallimentare originaria, la legittimazione all’opposizione era riconosciuta anche al debitore.

Risultava, invece, essere escluso dalla legittimazione attiva colui che aveva proposto l’istanza di fallimento, come espressamente prevedeva il secondo comma della disposizione in esame, il curatore15, il pubblico ministero16, il fallito che aveva fatto acquiescenza alla sentenza dichiarativa del fallimento17, il legale al quale era stata conferita la

10 Vedi U. AZZOLINA, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, II, Torino,

1961, pp. 668-669, R. PROVINCIALI, Trattato di diritto fallimentare, I, Milano, 1974, p. 543, PELLEGRINO, Prassi fallimentare, Padova, 1989, p.127, Trib. Venezia 8 giugno 1984, D. fall., 1985, II, p. 159.

11 Vedi AZZOLINA, op. cit., p. 658-659, App. Milano 10 febbraio 1961, Foro it.,

1961, I, p.687.

12 Vedi Trib. Roma 4 gennaio 1968, D. fall., 1968, II, p. 78.

13 Vedi Trib. Roma 21 giugno 1954, D. fall., 1954, II, p.423 e App. Torino 30

maggio 1975, G. comm., 1977, II, p. 442.

14 Vedi Trib. Roma 11 dicembre 1963, D. fall., 1964, II, p. 144. 15 Vedi G. BONELLI, Del fallimento, I, Milano, p.340ss. 16 Vedi TEDESCHI, op. cit., p.476.

17 Vedi TEDESCHI, Il giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di

(8)

procura semplicemente per la richiesta di fallimento18 ed il mandatario incaricato di sistemare il dissesto senza che gli fosse stato espressamente conferito per iscritto il potere di proporre opposizione19. Continuando con l’esame dell’art. 18, vecchia versione, della legge fallimentare, un altro aspetto che all’epoca aveva suscitato dibattiti, sia in giurisprudenza che in dottrina, era quello relativo al momento a partire dal quale i soggetti legittimati potevano proporre opposizione in quanto, al primo comma, si prevedeva che la relativa azione poteva essere proposta nel termine di quindici giorni dall’affissione della sentenza.

Era evidente che il decorso del termine per proporre opposizione s’identificava con una mera presunzione di conoscenza dell’imprenditore dichiarato fallito.

Sul punto era intervenuta la Corte Costituzionale che, con Sentenza n. 151 del 1980,20 aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 18, ex art. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui prevedeva che il termine di quindici giorni per proporre opposizione decorreva, per il debitore, dall’affissione della sentenza dichiarativa di fallimento, rimettendo al legislatore la determinazione dell’atto a partire dal quale iniziava a decorrere il relativo termine.

18 Vedi TEDESCHI, Comm. SB, p. 532; Trib. Roma 26 gennaio 1968, D. fall., 1968,

II, p.319.

19 Vedi Trib. Roma 27 febbraio 1980, Il fall., 1981, p. 931.

20 Corte Costituzionale 27 novembre 1980, n.151, www.cortecostituzionale.it. Con

tale pronuncia la Consulta ha affermato che “rispetto al debitore fallito non esistono quelle esigenze di difficoltà d’individuazione né di celerità della procedura fallimentare che giustificano, per gli altri interessati, la decorrenza del termine di opposizione alla sentenza di fallimento dall’affissione di quest’ultima atteso che gli effetti del fallimento si producono dal deposito della sentenza in cancelleria e quindi a prescindere dalla sua affissione. È perciò illegittimo costituzionalmente l’art. 18, primo comma, della legge fallimentare, per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Cost., nella parte in cui prevede che il termine di quindici giorni per fare opposizione decorra per il debitore dall’affissione della sentenza che ne dichiara il fallimento”.

(9)

Per i soggetti diversi dal debitore, quindi, il dies a quo continuava a coincidere con l’affissione della sentenza in quanto veniva meno la razio, espressa dalla Corte Costituzionale, che giustificava il diverso regime nei confronti del debitore.

Tuttavia, la Consulta si era pronunciata anche con riguardo agli altri interessati in quanto, con sentenza del 16 luglio 1987, n. 27321, aveva dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge fallimentare, sollevata in riferimento all’art. 24, primo e secondo comma della Cost., “sul riflesso che la presunzione legale di conoscenza promanante dall’affissione della sentenza dichiarativa, pur operando su tutto il territorio nazionale, era ricollegata ad un’attività che si realizzava in un solo luogo”.

L’organo di costituzionalità delle leggi aveva fondato la sua decisione d’infondatezza sulla base del fatto che “l’indeterminatezza degli interessati diversi dal debitore, non impediva di sperimentare l’opposizione se non giovandosi della tecnica dei pubblici reclami, di cui il legislatore ordinario faceva e fa uso ex art. dell’art. 150 codice di procedura civile22, il quale disciplina la notificazione per pubblici reclami e non il processo per pubblici reclami”.

In seguito alla sentenza della Consulta n. 151 del 198023, il legislatore sarebbe dovuto intervenire per individuare il momento a partire dal

21 Corte Costituzionale 16 luglio 1987, n. 273, www.cortecostituzionale.it.

22 Art. 150 codice di procedura civile, primo comma: “Quando la notificazione nei

modi ordinari è sommamente difficile per il rilevante numero dei destinatari o per la difficoltà di identificarli tutti, il capo dell’ufficio giudiziario davanti al quale si procede può autorizzare, su istanza della parte interessata e sentito il pubblico ministero, la notificazione per pubblici reclami.

Copia dell’atto da notificarsi è depositata nella casa comunale del luogo in cui ha sede l’ufficio giudiziario davanti al quale si promuove o si svolge il processo, e un estratto di esso è inserito nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica e nel Foglio degli annunzi legali delle province dove risiedono i destinatari o si presume che risieda la maggior parte di essi.

La notificazione si ha per avvenuta quando, eseguito ciò che è prescritto nel presente articolo, l’ufficiale giudiziario deposita una copia dell’atto, con la relazione e i documenti giustificativi dell’attività svolta, nella cancelleria del giudice davanti al quale si procede”.

(10)

quale decorreva, per il debitore, il termine per impugnare la sentenza. Tuttavia, come spesso accade, il legislatore rimase inerte e questo fece sì che sul punto si venissero a delineare diverse impostazioni: alcuni24 prendevano come riferimento la comunicazione dell’estratto della sentenza di fallimento, ovvero la notificazione del biglietto di cancelleria a mezzo di ufficiale giudiziario ex art. 136, secondo comma del codice di procedura civile,25 precisando che nel caso in cui la sentenza veniva ad essere comunicata prima dell’affissione, anche per il debitore il termine di quindici giorni decorreva dall’affissione medesima, in quanto non sussistevano ragioni per anticiparne la decorrenza. Alla medesima conclusione, sempre per la dottrina in questione26, si doveva giungere anche nel caso di irreperibilità del fallito per cause ad esso addebitabili. Nell’ipotesi, invece, in cui il fallito non aveva residenza, né dimora, né domicilio nella Repubblica, il termine per proporre opposizione decorreva dal momento in cui la notificazione poteva ritenersi eseguita ex dell’art. 143, terzo comma del codice di rito27.

24 Vedi Trib. Roma 25 settembre 1997, Il fallimento, 1998, p. 423, Trib. Bologna 19

marzo 1988, G. comm., 1989, II, p. 608. In dottrina vedi TEDESCHI, Nuove leggi civili commentate, 1981, p. 370-371.

25 Art. 136, secondo comma, vecchia versione: “Il biglietto è consegnato dal

cancelliere al destinatario, che ne rilascia ricevuta, o è notificato dall’ufficiale giudiziario”.

26 TEDESCHI, op. ult. Cit., p. 371-372.

27 Art. 143, terzo comma del codice di procedura civile, versione originaria: “la

notificazione a persona che non abbia residenza, dimora, domicilio o un procuratore ex art. 77 c.p.c. in Italia, si considera eseguita nel ventesimo giorno successivo a quello in cui siano compiute le formalità richieste dall’art. 142 c.p.c., ovvero l’affissione di una copia dell’atto nell’albo dell’ufficiale giudiziario, la spedizione di una seconda copia al destinatario per mezzo di lettera raccomandata, la consegna di una terza copia al pubblico ministero al fine della trasmissione attraverso la via diplomatica o consolare.

Un duro colpo al sistema delle notificazioni all’estero, così come disciplinate nell’originario codice di rito, è stato inflitto dalla Corte Costituzionale con sentenza del 2 febbraio 1978, n. 10, con la quale essa ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 143, 3˚ comma, nella parte in cui non subordinava l’applicazione del regime delle notificazioni all’estero previste nel codice di rito all’accertata impossibilità di eseguire la notificazione nei modi consentiti dalle

(11)

C’era, invece, chi28 riteneva che il momento a partire dal quale decorreva il termine per proporre opposizione s’identificava con la data della notificazione della sentenza.

Tale diatriba era stata risolta dalla Cassazione, a Sezioni Unite, con sentenza 3 giugno 1996, n. 510429. Con tale pronuncia l’organo in questione aveva statuito che, “ai fini della decorrenza del termine breve per la proposizione dell’opposizione, da parte del debitore, non era necessaria la notificazione del testo integrale della sentenza, in quanto, per consentire a quest’ultimo di avere conoscenza dell’avvenuta dichiarazione del proprio fallimento, era sufficiente la comunicazione per estratto ex art. 1730 della legge fallimentare. Con quest’ultima il cancelliere metteva il debitore a conoscenza dell’accertata insolvenza e dell’apertura del fallimento, ponendolo in

convenzioni internazionali. E ciò sulla base del fatto che il rispetto del diritto di difesa del destinatario impone di assegnare la priorità a sistemi di notificazione all’estero che si perfezionano con la consegna, rispetto a quelli che si perfezionano con l’invio dell’atto al destinatario.

È stata proprio questa sentenza della Corte Costituzionale che ha dato l’impulso, nel 1981 con legge del 6 febbraio, n. 42, alla ratifica della Convenzione dell’Aja del 15 novembre del 1965 in quanto essa mira a creare mezzi idonei affinchè gli atti da notificare all’estero siano conosciuti dai destinatari in tempi utili.

Conseguentemente anche l’art. 143, 3˚ comma, del c. p. c., a seguito della legge n. 42 del 1981, nel prevedere che “la notificazione si abbia per eseguita nel ventesimo giorno successivo a quello in cui sono compiute le formalità richieste”, dichiara di applicarsi solo nei casi in cui risulti impossibile eseguire la notificazione in uno dei modi consentiti dalle convenzioni internazionali.

28 In dottrina vedi CARBONI, G. comm., 1982, II, p. 122 ss; in giurisprudenza vedi

Corte di Cassazione 12 novembre 1981, n. 6000, in Giust. Civ. Mass., 1981, fasc. 11. Con tale pronuncia la Corte ha affermato che “per la soluzione del problema di individuazione della disciplina applicabile in materia di decorrenza del dies a quo relativamente al termine previsto dal cit. art. 18 devesi far ricorso ai principi generali previsti dal codice di rito in tema di impugnazione e conseguentemente ritenere che l’unica forma di conoscenza della sentenza, sostitutiva all’affissione, è costituita dalla notificazione della sentenza medesima”, App. Bari 7 novembre 1986, in Il fallimento, 1987, p.654.

29 Corte di Cassazione, Sez. Un., 3 giugno 1996, n. 5104, in Foro it., 1996, I, p. 2361. 30 Art 17, primo comma, versione originaria: “La sentenza che dichiara il fallimento è

comunicata per estratto, a norma dell’art. 136 del codice di procedura civile, al debitore, al curatore e al creditore richiedente, non più tardi del giorno successivo alla sua data. L’estratto deve contenere il nome delle parti, il dispositivo e la data della sentenza”.

(12)

grado di acquisire, presso la cancelleria, ogni altro elemento utile per l’esercizio di difesa”.

Coloro che ritenevano che il termine per proporre opposizione, da parte del debitore, decorreva dalla data della notificazione della sentenza, affermavano che nel caso in cui la notificazione medesima non fosse stata effettuata fosse analogicamente applicabile l’art. 327 del codice di procedura civile.

In particolare la Corte di Cassazione con sentenza del 20 giugno 1991, n. 697931, si era espressa per l’applicabilità analogica del primo e del secondo comma della disposizione in esame “ sul presupposto della natura sostanzialmente impugnativa dell’opposizione a dichiarazione di fallimento ed in considerazione del fatto che il primo ed il secondo comma del predetto articolo del codice di rito sono entrambi espressione del principio del contraddittorio, costituenti fattispecie speculari ed espressione di un’identica ratio. Una volta che all’originaria facoltà del tribunale di ordinare la convocazione dell’imprenditore in camera di consiglio era stato sostituito il relativo obbligo, inteso come necessaria espressione del principio del contraddittorio a tutela del diritto di difesa cui anche procedimenti sommari ed ufficiosi, come quello per la dichiarazione di fallimento, debbono uniformarsi, lo stesso principio non poteva non riflettersi sull’opposizione alla dichiarazione di fallimento, inteso come mezzo d’impugnazione con il quale veniva avviato un procedimento di cognizione di primo grado, cui andavano applicate le norme del secondo libro del codice di rito relative al processo d’impugnazione. In tale ambito, una volta che non era applicabile il termine breve per carenza dell’elemento formale che ne comportava la decorrenza, si

31 Corte di Cassazione 20 giugno 1991, n. 6979, in Giust. Civ. Mass., 1991, fasc. 6.

Nel caso di specie l’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento venne proposta oltre il termine annuale previsto all’art. 327 c. p. c., evidenziandosi da parte dell’opponente, attuale ricorrente, la mancata conoscenza da parte sua della stessa pendenza di un procedimento per la dichiarazione di fallimento, non essendogli mai stata fatta alcuna valida comunicazione per la comparizione in camera di consiglio.

(13)

proponevano due alternative: o la parte soccombente era stata consapevole della pendenza del giudizio che la coinvolgeva, ed allora la legge ipotizza un onere di diligenza della parte stessa di informarsi periodicamente sullo stato della procedura, onere in relazione al quale il termine di un anno dalla pubblicazione della sentenza è ritenuto congruo perché, anche in assenza di notificazione o comunicazione, la sentenza sia normativamente presunta nota; oppure la parte non era legittimamente nella consapevolezza della pendenza di un procedimento a suo carico, ed allora nessun termine può decorrere perché, neppure la violazione di un onere di negligenza può imputarsi alla parte.

Inoltre, in ordine all’applicazione del secondo comma dell’art. 327 del c. p. c., la Corte, nella pronuncia in questione, aveva anche affermato che nemmeno si poteva sostenere che la disposizione in esame, con l’espresso riferimento alla situazione di contumacia e di nullità della citazione o della relativa notifica, poteva trovare applicazione soltanto ai giudizi che inizino con citazione e nei quali una situazione di contumacia sia prevista (i giudizi di cognizione ordinaria), situazioni non rilevabili nel procedimento per la dichiarazione di fallimento. Detti rilievi hanno validità qualora si tratti dell’applicazione diretta della normativa in esame e non nel caso di estensione analogica a situazioni che, per definizione, non hanno una specifica regolamentazione (come nel caso in esame), pur essendo rette dal principio del contraddittorio di cui la disciplina dell’art. 327, 1˚ e 2˚ comma, è espressione e rispetto ai quali è identificabile una eadem ratio giustificativa”.

Tuttavia non tutta la giurisprudenza32 era concorde in riferimento all’applicabilità del secondo comma dell’art. 327 del c. p. c. e, quindi,

32 Vedi Trib. Roma 19 giugno 1985, in Il fall, 1985,II, p.1313.

Con tale pronuncia il Tribunale ha affermato che “ la disposizione contenuta nell’art. 327, secondo comma, del c. p. c., che consente l’impugnazione del contumace anche oltre l’anno dalla pubblicazione della sentenza, quando non abbia avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notifica di essa e per nullità della

(14)

con la possibilità, per il debitore dichiarato fallito di impugnare la sentenza dichiarativa di fallimento oltre l’anno dalla pubblicazione della stessa, nel caso in cui non fosse legittimamente nella consapevolezza della pendenza di un procedimento a suo carico. In seguito alla sentenza della Corte Costituzionale n. 151 del 1980 i termini per l’opposizione del fallito e degli altri interessati potevano avere una diversa decorrenza. Tale circostanza aveva portato taluni33 a ritenere che, poiché le varie opposizioni eventualmente proposte dovevano essere riunite in un unico giudizio, la trattazione di una causa relativa ad un’opposizione proposta da un interessato non poteva aver luogo sino a quando non era scaduto il termine per proporre opposizione per il fallito.

Inoltre il termine quindicinale per proporre opposizione era pacificamente ritenuto perentorio34 e, se la relativa azione veniva ad essere instaurata oltre il termine indicato, doveva essere dichiarata inammissibile35.

Era stato altresì previsto che nel caso in cui fosse scaduto il termine per proporre opposizione alla dichiarazione di fallimento, era comunque ammissibile l’intervento-opposizione incidentale tardiva36 adesiva ex art. 334 c. p. c.37, nel giudizio di opposizione proposto da altro legittimato.

notificazione degli atti di cui all’art. 292 c. p. c., è applicabile soltanto negli ordinari giudizi di cognizione e non anche allo speciale procedimento camerale per la dichiarazione di fallimento, di conseguenza l’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento deve essere, in ogni caso, proposta entro l’anno”.

33 Vedi TEDESCHI, Nuove leggi civili commentate, 1981, p. 372.

34 Vedi TEDESCHI, Comm. SB., p. 480; Trib. Bologna 19 marzo 1988, in Il fall.,

1988, p. 1025.

35 Vedi Trib. Roma 10 luglio 1984, in Dir. Fall., 1985, II, p. 258. Con questa

pronuncia il Tribunale afferma che “deve essere dichiarata inammissibile l’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento proposta da persona diversa dal fallito, oltre il termine di quindici giorni dall’affissione”.

(15)

Infine il termine per proporre opposizione non era sospeso durante il periodo feriale38.

Continuando con l’esame dell’art. 18 della legge fallimentare previgente, il giudizio di opposizione, come espressamente era previsto nella disposizione in esame, doveva introdursi con atto di citazione il quale doveva essere notificato, ai sensi del terzo comma, al curatore e al creditore richiedente.

Per quanto riguarda i caratteri che tale atto doveva avere, il riferimento normativo era agli artt. 163 e 164 del c. p. c., quindi l’atto introduttivo, tra i vari elementi, doveva contenere l’indicazione del petitum, ossia la determinazione della cosa oggetto della domanda, e della causa petendi, ovvero l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda.

Era opinione maggioritaria39 che l’atto di citazione non doveva contenere l’indicazione dei relativi motivi.

37 Art. 334 c. p. c.: “Le parti, contro le quali è stata proposta l’impugnazione e quelle

chiamate ad integrare il contraddittorio a norma dell’art. 331, possono proporre impugnazione incidentale anche quando per esse è decorso il termine o hanno fatto acquiescenza alla sentenza.

In tal caso, se l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile, l’impugnazione incidentale perde ogni efficacia”.

38 Vedi Trib. Roma 10 luglio 1984, in Dir. Fall., 1985, II, p.258.

Il Tribunale con tale pronuncia afferma che “le cause concernenti la dichiarazione di fallimento non sono soggette alla sospensione dei termini per il periodo feriale (1˚ agosto- 15 settembre), ex art. 3 della legge 1969 n. 742 in relazione all’ordinamento giudiziario; Trib. Bologna 19 marzo 1988, in Giur. Comm., 1989, II, p. 608.

Con essa il Tribunale afferma che “i termini alle cause di opposizione alla dichiarazione di fallimento non sono soggetti a sospensione nel c. d. periodo feriale.

39 In dottrina vedi TEDESCHI, Comm. SB, p. 534, F. FERRARA-A. BORGIOLI, Il

fallimento, 5^ed., Milano, 1995, p.253; in giurisprudenza vedi Trib. Roma 06 giugno 1963, in D. fall., 1963, II, p. 777, Trib. Milano 18 aprile 1985, in Il fall., 1985,II, p. 884.

Con quest’ultima pronuncia il Tribunale ha affermato che “non costituisce contenuto essenziale dell’atto di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento la specifica indicazione dei motivi che s’intendono porre a fondamento dell’impugnazione in quanto il carattere officioso di tale procedimento attribuisce al giudice il potere di riesaminare la legittimità della pronunzia senza limiti che derivano dalla rigorosa applicazione delle norme relative al principio della ripartizione dell’onere della prova”.

(16)

La notificazione dell’opposizione al curatore doveva essere eseguita presso la sua abitazione o il suo ufficio40 e nel caso in cui l’atto di citazione era stato notificato, nel termine di quindici giorni, al solo curatore, ciò non creava problematiche a condizione che il giudice ordinasse l’integrazione del contraddittorio nei confronti del creditore istante41.

Il quarto comma della disposizione oggetto di esame già prevedeva che l’opposizione non sospendeva l’esecuzione della sentenza dichiarativa di fallimento. Tuttavia nient’altro aggiungeva la norma. Ecco che di fronte ad un simile scenario normativo c’era già chi42 riteneva che, durante la pendenza del giudizio di opposizione, fosse consentito al curatore e al giudice delegato evitare che fossero compiuti atti irreparabili.

La ratio giustificativa di tale interpretazione risiedeva nel fatto che, il legislatore, mirava a garantire la stabilità della pronuncia sommaria, in quanto l’opposizione non sospendeva l’esecuzione del provvedimento. Quest’ultima poteva essere inficiata solo dal passaggio in giudicato della sentenza di revoca conclusiva del giudizio di opposizione.

A tal riguardo la Corte di Cassazione con sentenza del 18 aprile 1991, n. 418743, aveva affermato che “gli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento possono essere rimossi, sia quanto alla determinazione dello status di fallito, sia quanto agli aspetti conservativi che al medesimo si ricollegano, soltanto col passaggio in giudicato della successiva sentenza di revoca, resa in sede di opposizione, mentre anteriormente a

40 Vedi TEDESCHI, ivi, p. 532.

41 In dottrina vedi R. PROVINCIALI, Trattato di diritto fallimentare,I, Milano, 1974,

pp. 557-558; in giurisprudenza vedi Trib. Venezia 11 marzo 1981, D. fall., 1981, II, p.292. Con tale pronuncia il Tribunale ha affermato che “l’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento notificata soltanto al curatore non è inammissibile; ma il giudice deve ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti del creditore istante”.

42 Vedi TEDESCHI, Comm. SB, p. 527.

(17)

tale momento può provvedersi, in via esclusivamente discrezionale, alla sospensione dell’attività di liquidazione”.

Tale regola costituiva una deroga al principio di diritto comune della prevalenza della cognizione ordinaria su quella sommaria. Il fondamento giustificativo di tale difformità s’identificava nelle esigenze di stabilità imposte dalla procedura concorsuale anche se risultava evidente che una simile impostazione si poneva in netto contrasto con i principi di equità.44

Per quanto riguarda la costituzione in giudizio, nel silenzio della legge, trovavano45 applicazione gli artt. 165 e 166 c. p. c.; per il termine di comparizione, invece, l’art. 163 bis c. p. c.

Una questione sulla quale si dibatteva riguardava il curatore, in particolare se esso, per costituirsi in giudizio, doveva essere o meno autorizzato dal giudice delegato in quanto ce chi risolveva la problematica in senso affermativo46 e chi, invece, in senso contrario47. Inoltre il patrocinio risultava essere necessario48 in quanto l’opponente doveva essere assistito da un difensore fornito di procura rilasciatagli ex art. 83 c. p. c.

Era opinione dominante che, nel giudizio di opposizione, non solo il curatore ma anche tutti i creditori istanti fossero contraddittori necessari49.

44 Basti pensare alle gravi ripercussioni personali e patrimoniali che discendevano

dalla sentenza dichiarativa di fallimento nei confronti del fallito che, oltretutto, erano destinati a perdurare, nonostante la loro ingiustizia, per tre gradi di giudizio. Inoltre, in caso di revoca, gli effetti discendenti dagli atti legalmente compiuti dagli organi del fallimento restavano salvi ex art. 21 della legge fallimentare.

45 Vedi V. ANDRIOLI, voce Fallimento, in Enc. Dir., Milano, 1967, p.358. 46 Vedi TEDESCHI, ibidem.

47 Vedi ZAPPAROLI, Introduzione a uno studio sul contraddittore fallimentare,

Milano, 1962. p. 47.

(18)

La stessa Corte di Cassazione con sentenza 12 settembre del 1992, n. 1043150, aveva affermato che “la domanda di estensione del fallimento a soci illimitatamente e solidalmente responsabili, anche se proposta dal solo curatore, costituisce lo sviluppo dell’iniziativa originariamente assunta dai creditori (iniziativa assunta da quest’ultimi per il fallimento della società): iniziativa da intendersi riferita a tutti coloro che per legge debbono rispondere del dissesto denunciato. Conseguentemente, la partecipazione necessaria al giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, in estensione ad altri soci su istanza del curatore, deve essere considerata attribuita nell’interesse di tutti i creditori istanti, anche per il loro evidente e ragionevole maggior profitto, atteso l’allargamento della garanzia patrimoniale”.

49 Vedi Corte di Cassazione 22 settembre 2000, n. 12448, in Dir. Fall., 2001, ΙΙ, p.

880.

50 Corte di Cassazione 12 settembre 1992, n. 10431, in Giust. Civ. Mass., 1992, fasc.

8-9.

Nel caso di specie, l’errore nel quale sono incorsi i giudici di merito è stato quello di accogliere la pretesa esclusione del litisconsorzio necessario di quei creditori che non avevano chiesto l’estensione della dichiarazione di fallimento nei confronti di altri soci e che, nonostante l’inesattezza di tale pronuncia dei giudici di entrambi i gradi di giudizio, quei creditori sono stati sempre “parti”, anche in appello in virtù della loro “vocatio” da parte del socio illimitatamente e solidamente responsabile.

In senso conforme, vedi anche Corte di Cassazione 27 febbraio 1980, n. 1363, in Giust. Civ. Mass., 1980, fasc. 2.

Già con quest’ultima pronuncia la stessa Corte aveva affermato che “I creditori istanti per la dichiarazione di fallimento sono contraddittori necessari nel giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento e conservano tale qualità anche in sede di opposizione alla sentenza estensiva del fallimento alla società di fatto sottostante all’impresa individuale, poiché la domanda di estensione del fallimento,anche se proposta dal curatore, costituisce lo sviluppo dell’iniziativa che è stata originariamente assunta dai creditori e che deve intendersi implicitamente riferita a tutti coloro che per legge debbono rispondere del dissesto denunziato”. Per giurisprudenza di merito vedi Corte di Appello di Cagliari 2 febbraio 1985, in Dir. Fall., 1986, II, p. 48.

Con tale pronuncia la Corte ha compiuto un’ulteriore precisazione in quanto ha affermato che “poiché i creditori istanti per la dichiarazione di fallimento sono contraddittori necessari nel giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa, devesi ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i creditori anche nel caso di una istanza cumulativa presentata da più creditori con un unico atto”.

In dottrina vedi U. AZZOLINA, Il fallimento e le altre procedure concorsuali,II, Torino, 1961, pp. 655-656, P. PAJARDI, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1993, p.122, R. PROVINCIALI, Trattato di diritto fallimentare, I, Milano, 1974, pp. 546-547.

(19)

In tale prospettiva se l’atto di opposizione al fallimento non risultava notificato, oltre che al curatore, anche ai creditori istanti il giudice istruttore doveva provvedere ad ordinare l’integrazione del contraddittorio ex art. 331 c. p. c.51

Tuttavia una simile impostazione merita una puntualizzazione che la stessa Corte di Cassazione aveva compiuto.

In particolare nella sentenza del 7 luglio del 1992, n. 826852, essa aveva chiarito che “se ogni creditore di un imprenditore insolvente è in astratto legittimato a richiedere il fallimento del proprio debitore, perché in concreto acquisti l’effettiva qualità di creditore istante, occorre che egli proponga ricorso al tribunale ex art. 6 della legge fallimentare, che assuma cioè formalmente e specificamente l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento, ed inoltre che la pronuncia del fallimento derivi effettivamente dalla suddetta iniziativa, sia cioè da porsi in collegamento causale con l’istanza del creditore. Di modo che, come non può ritenersi creditore istante il creditore che si sia limitato a sollecitare i poteri officiosi del tribunale fallimentare o l’iniziativa di altri organi o soggetti legittimati, quali ad esempio il curatore o il pubblico ministero, anche fornendo in proposito elementi in ordine alla sussistenza di presupposti per la dichiarazione di fallimento, così del pari la predetta qualità non può essere riconosciuta nemmeno quando, pur in presenza di un’istanza del creditore, il fallimento sia dichiarato sulla base ed in conseguenza di una diversa iniziativa, ad esempio d’ufficio o su richiesta dello stesso debitore.

51 Vedi Trib. Chieti 8 luglio 1986, in Dir. Fall., 1986, II, p.973.

Con tale pronuncia il Tribunale ha affermato che “qualora nel giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento l’atto introduttivo risulti notificato ad uno o ad alcuni soltanto dei creditori istanti, litisconsorti necessari nel giudizio stesso assieme al curatore, il giudice istruttore è tenuto a disporre, a norma dell’art. 331 c. p. c., l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri in un termine perentorio, da lui fissato, decorso inutilmente il quale l’opposizione deve essere dichiarata inammissibile”.

52 Vedi Corte di Cassazione 7 luglio 1992, n. 8268, in Giust. Civ. Mass., 1992, fasc.

(20)

Al creditore che non possa definirsi istante nei sensi sopra precisati può anche riconoscersi un interesse che lo abiliti ad intervenire nel giudizio di opposizione per sostenere le ragioni di una delle parti principali, ma egli appunto non è contraddittore necessario, e potrebbe spiegare solo intervento adesivo dipendente, con la conseguenza che in tal caso non sarebbe legittimato a proporre impugnazione autonoma contro la sentenza sfavorevole alla parte adiuvata”.

Era questione controversa, in dottrina e giurisprudenza, se fosse53 o meno54 necessaria la presenza del debitore, nel giudizio di opposizione,

53 In senso affermativo, in dottrina, vedi DENTI, in Riv. Trim., 1951, p. 1015; in

giurisprudenza, sempre in senso affermativo, vedi Trib. Milano 19 ottobre 1972, in Giur. It.,, 1973, I, 2, p.753.

Con tale pronuncia il Tribunale ha affermato che “è vero che nell’art. 18, 3˚ comma, della legge fallimentare il fallito non è contemplato tra i necessari soggetti del processo di opposizione e che sia la relazione ministeriale al R. D. 267 del 1942 che la giurisprudenza hanno recisamente negato ogni legittimazione al fallito pur nel dissenso di parte della dottrina. Tuttavia tali proposizioni negative devono essere rivedute criticamente alla luce non solo della lettera ma dei principi contenuti nella sentenza n. 141 del 1970 della Corte Costituzionale. (con quest’ultima la Consulta ha affermato che “allo scopo di assicurare la difesa dell’imprenditore fallito, non costituisce mezzo sufficiente il contraddittorio differito alla fase dell’impugnazione. E ciò in riferimento così alle modalità del particolare procedimento di opposizione fallimentare, come alla disciplina della sentenza dichiarativa di fallimento, cui l’ordinamento attribuisce efficacia immediatamente esecutiva, non suscettibile di sospensione a seguito dell’atto di opposizione, mentre la rimozione degli effetti di essa conseguono soltanto e con inevitabile ritardo, al passaggio in giudicato della pronunzia che accolga l’opposizione. L’art. 15 della legge fallimentare è quindi costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui, con sostanziale pregiudizio del diritto di difesa, non statuisce l’obbligo del tribunale di ordinare la comparizione del debitore. Questa, ovviamente, comportando l’audizione del debitore stesso con la possibilità di sue deduzioni e difese, anche in confronto dei creditori istanti, non senza assistenza tecnica, deve essere inquadrata e contenuta nella vigente normativa circa il procedimento di cognizione sommaria, nell’ambito delle finalità e delle speciali ragioni di urgenza e tempestività, cui è informata la disciplina della dichiarazione di fallimento”). L’affermata inderogabilità della citazione del debitore innanzi al tribunale ex art. 15 della legge fallimentare non ha, in realtà, esclusivi fini e valori di attuazione di un efficace esercizio del diritto di difesa ma di riconduzione della decisione del giudice fallimentare nell’alveo di un processo regolato da principio del contraddittorio, non affievolito, ma armonizzato alle particolari esigenze di speditezza delle quali la procedura fallimentare è improntata. Ricondotto l’iter processuale della dichiarazione di fallimento nei parametri dell’art. 101 c. p. c. ne consegue che il debitore fallendo deve essere considerato destinatario di una situazione che esige una legittima vocatio in ius non solo nella fase camerale, ma anche in tutte le articolate fasi processuali nella quali la statuizione è assoggettata a riesame critico. La posizione di parte del processo non può essere espropriata o comunque tolta al fallito fino a che la statuizione di cui è destinatario non è divenuta irrevocabile col giudicato. Il collegio è convinto che la Corte Costituzionale, con la sentenza prima citata, abbia inciso nel processo fallimentare adeguandolo alla

(21)

qualora la relativa azione fosse stata proposta da un soggetto diverso dal debitore.

Infine, per quanto riguarda, la partecipazione del pubblico ministero nel giudizio di opposizione la Corte di Cassazione, in più sentenze, aveva ribadito che l’intervento di tale soggetto costituiva una facoltà e non un obbligo.

Nella sentenza del 19 settembre 1995, n. 988455, la stessa Corte aveva affermato che “nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento tale intervento non era obbligatorio ( la Corte ricorda altre sentenze passate nelle quali aveva già espresso il medesimo orientamento, ovvero la numero 5854 del 1986 e la numero 1919 del 1973) e si verificava soltanto quando il pubblico ministero ravvisava, nel procedimento, un pubblico interesse e l’opportunità di intervenire per tutelarlo specificatamente. La facoltà di chiedere il fallimento, ex art. 6, non costituiva, infatti, per il p.m., esercizio di un potere d’azione risolvendosi esso in una denuncia al tribunale perché questo provvedesse d’ufficio”.

Con riferimento, invece, alla posizione dei creditori interessati al rigetto dell’opposizione, e più in generale dei terzi interessati a mantenere fermo il fallimento, era opinione prevalente56 quella

struttura generale del processo civile, pur conservandogli i limiti necessari per le particolari esigenze di speditezza. Questo adeguamento rende necessario e consequenziale il riconoscimento della legittimazione passiva del fallito nel processo di opposizione. Diversamente le statuizioni della Corte Costituzionale sarebbero incomplete e prive di rilevante contenuto di attuazione”.

54 In senso negativo, in dottrina, vedi U. AZZOLINA, Il fallimento e le altre

procedure concorsuali, II, Torino, 1961, pp. 652-653; in giurisprudenza, sempre in senso negativo, vedi Trib. Milano 5 luglio 1979, in Il fall., 1981, p. 138.

Il Tribunale con tale pronuncia ha dichiarato che “quando l’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento è stata proposta da qualunque interessato, non sussiste obbligo di integrazione del contraddittorio nei confronti del fallito nei cui confronti pertanto, in difetto di tale notifica, non si pone in essere alcuna lesione dei suoi diritti costituzionalmente garantiti”.

55 Vedi Corte di Cassazione 19 settembre 1995, n. 9884, in Dir. Fall., 1996, II, p.

(22)

seconda la quale tali soggetti potevano intervenire nel relativo giudizio e tale intervento era stato qualificato dalla stessa Corte di Cassazione57 come intervento adesivo dipendente.

In particolare, relativamente a quest’ultimo profilo, la Corte di Cassazione aveva affermato che “era senz’altro da escludere che l’intervento di un creditore nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento del proprio debitore, da questi promosso, potesse assumere carattere principale. Tale è, infatti, l’intervento di chi intenda far valere, nei confronti di tutte le parti, un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo già dedotto nel processo. Ed è agevole comprendere come la struttura stessa del giudizio di opposizione a fallimento non tolleri la possibilità di un intervento di questo tipo, perché l’oggetto di quel giudizio è rigorosamente limitato alla verifica delle condizioni richieste dalla legge per farsi luogo all’indicata procedura concorsuale, e non sarebbe quindi concepibile ospitare nel medesimo processo anche domande di terzi che non fossero unicamente rivolte a sollecitare l’accoglimento o il rigetto dell’opposizione. Era sulla base di tali osservazioni che la stessa Corte aveva ritenuto che l’intervento in causa non poteva che avere carattere adesivo in quanto destinato a sostenere le ragioni di una delle parti originarie del giudizio nei confronti dell’altra. Restava però da stabilire se si trattasse di un intervento adesivo autonomo oppure dipendente. E ciò dipende dalla possibilità d’individuare, in capo al terzo, un diritto proprio, che egli faccia valere intervenendo in giudizio contro una

56 In dottrina vedi S. SATTA, Diritto fallimentare, Padova, 1996, p.79,

U.AZZOLINA, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, II, Torino, 1961, pp. 671-672. In giurisprudenza vedi Corte di Cassazione 10 settembre 1991, n. 9491, in Il fall., 1992, p. 369.

Con tale pronuncia la Corte di Cassazione ha affermato che “nel fallimento dichiarato indipendentemente da un’iniziativa di parte manca il creditore richiedente, quale contraddittore necessario nel giudizio di opposizione, ma nulla vieta che questi vi intervenga, in quanto interessato al rigetto dell’opposizione stessa, diventandone parte processuale con la costituzione in giudizio ed acquisendo il diritto al pagamento delle spese processuali in caso di soccombenza dell’opponente”.

(23)

delle parti ed in appoggio all’altra, o di ravvisare soltanto un suo interesse, benché giuridicamente rilevante, a sostenere le ragioni di quest’ultima parte, che non sarebbe però tale da legittimarlo eventualmente anche ad assumere un’iniziativa autonoma.

La Corte, nella pronuncia in esame, aveva sciolto tale questione prevedendo che le già indicate caratteristiche del giudizio di opposizione a fallimento, ed in specie il suo essere un giudizio ad oggetto limitato, rendono difficile ipotizzare che il terzo possa far valere in giudizio un diritto suo proprio, anche se nei confronti di una sola delle parti in causa a sostegno delle ragioni dell’altra.

Nel caso di specie, il terzo era intervenuto per contrastare la dichiarazione di fallimento in appoggio all’opposizione proposta dal fallito. L’organo di legittimità aveva precisato che anche in tale ipotesi l’intervento del terzo doveva essere qualificato come adesivo dipendente in quanto se da un lato, non vi erano dubbi, che l’art. 18 della legge fallimentare già prevedeva che l’opposizione potesse essere proposta da qualunque interessato e, quindi, in ragione di tale previsione, si poteva individuare un’ autonoma posizione di diritto soggettivo che legittimava il terzo a richiedere in giudizio la revoca di un provvedimento destinato a produrre effetti solo in una sfera giuridica altrui; dall’altro lato una simile obiezione poteva avere fondamento solo a condizione che l’intervento fosse stato spiegato quando ancora il terzo era titolare di un potere di azione suo proprio, ovvero non fosse decorso il termine di quindici giorni dalla pubblicazione della sentenza mediante la sua affissione.

Poiché nel caso in esame il terzo era intervenuto quando ormai il termine per proporre un autonomo atto di opposizione era decorso, a siffatto intervento non poteva che essere attribuito carattere adesivo dipendente”.

(24)

Infine era questione discussa se l’intervento del terzo interessato al rigetto o all’accoglimento dell’opposizione fosse58 o meno59 ammissibile dopo il decorso del termine per proporre opposizione. Un ulteriore aspetto che la giurisprudenza dell’epoca aveva dovuto affrontare era se il giudice competente a decidere sull’opposizione fosse monocratico o collegiale. Essa60 si era espressa nel senso della collegialità del relativo giudice. A tal riguardo è opportuno rilevare, anche se una simile osservazione già veniva ad essere svolta in passato, che il controllo su una decisione collegiale, come è quella con cui viene pronunciato il fallimento, non può che essere attribuito anch’esso ad un organo collegiale.

Di conseguenza, una simile impostazione, poneva un interrogativo, ovvero se si veniva o meno a configurare un’ipotesi di astensione obbligatoria e, quindi, di ricusazione ex art. 51, n. 4, del c. p. c. nel caso in cui il collegio che decideva sull’opposizione era costituito, in tutto o in parte, dagli stessi magistrati che avevano deciso dell’apertura del fallimento.

La questione, quindi, aveva ad oggetto l’art. 51, n. 4, c. p. c. che afferma che “il giudice ha l’obbligo di astenersi nella causa se ne ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo”.

Quindi la problematica ruotava intorno al concetto di “altro grado del processo” poiché, a seconda dell’interpretazione si veniva o meno a configurare l’ipotesi di ricusazione.

La Corte Costituzionale, inizialmente, aveva interpretato in senso restrittivo la nozione di “altro grado del processo” ritenendo che, il principio d’incompatibilità non trovava applicazione quando, il precedente giudizio, era a cognizione sommaria in quanto il giudice,

58 In senso affermativo vedi TEDESCHI, Comm. SB, pp. 507- 508;

Trib. Napoli 17 gennaio 1964, in Giur. It., 1965, I, 2, p. 782.

59 In senso negativo vedi TONNI, in Foro pad., 1960, I, p.499. 60 Vedi Trib. Torino 6 dicembre 1995, in Il fall., 1996, p.297;

(25)

nel successivo, a cognizione piena, poteva seguire un iter logico- argomentativo diverso. Tale orientamento era stato seguito dal giudice delle leggi nella sentenza n. 326 del 199761. Si trattava di un’argomentazione che, nel caso di specie, poteva essere apprezzata in quanto la fase sommaria aveva ad oggetto la concessione di una misura cautelare e, quindi, l’ottica in cui si poneva il giudice era diversa da quella della fase successiva. Di conseguenza quest’ultima, in tale ipotesi, non poteva essere paragonata ad una impugnazione.

Il ragionamento seguito dalla Consulta dava adito a perplessità in tutte quelle ipotesi nelle quali la fase sommaria era idonea al giudicato in quanto l’eventuale fase a cognizione piena, finalizzata, appunto, ad impedire il formarsi del giudicato, ben poteva essere accostata ad un’impugnazione della misura sommaria. Sulla base di ciò non vi era dubbio che l’opposizione verso la sentenza dichiarativa di fallimento doveva essere annoverata tra quei casi che lasciavano spazio ad incertezze in ordine alla possibile configurazione di un’ipotesi di ricusazione.

61 Corte Costituzionale 27 ottobre 1997, n. 326, www.cortecostituzionale.it. Con tale

pronuncia la Consulta ha affermato che “ la concessione ante causam della misura cautelare si fonda solo sui presupposti del pregiudizio grave ed irreparabile e del fumus boni iuris, ovvero su di una valutazione probabilistica circa le buone ragioni dell’attore, le quali vanno preservate dal rischio di restare irreversibilmente compromesse durante il tempo necessario a farle valere in via ordinaria.

Da qui il carattere strumentale assunto dal provvedimento cautelare e la connessa struttura sommaria della cognizione. Quest’ultima è finalizzata alla semplice verifica dei presupposti anzidetti e non può, per definizione, interferire con la cognizione piena al cui esito soltanto matura la decisione di merito. Il materiale probatorio raccolto ante causam non è di per sé destinato, in ragione delle diverse finalità istruttorie, ad assumere una sua evidenza nel giudizio successivo rilevando semmai come mero argomento di prova. Sicchè è la stessa logica secondo la quale il procedimento si struttura a garantire l’imparzialità del giudice, in conseguenza della diversa ottica in cui egli necessariamente si pone. La cognizione che il codice di procedura civile attribuisce al giudice in sede di provvedimenti cautelari ante causam lascia dunque assolutamente irrisolto il quesito circa l’esito del giudizio e non anticipa affatto la decisione del merito, mirando solo a tutelare temporaneamente un preteso diritto onde salvaguardarlo dal pregiudizio grave ed irreparabile, ravvisato sulla base di una valutazione provvisoria e di semplice verosomiglianza. L’ipotizzabile coinvolgimento, in concreto, di quel giudice nel merito della causa rappresenta un’eventualità anormale che può essere effetto soltanto di un marcato allontanamento dalla struttura codicistica del processo cautelare e dalla funzione essenziale di questo”.

(26)

Tale scenario aveva indotto la Corte Costituzionale a non interpretare più in senso restrittivo il concetto di “altro grado di giudizio”: con sentenza del 23 dicembre 2005, n. 460,62 aveva precisato, in motivazione, che “per altro grado del processo ben poteva intendersi anche il procedimento che si era svolto davanti al medesimo ufficio giudiziario quando, per le caratteristiche decisorie e potenzialmente definitive del provvedimento che chiudeva la prima fase e, per la sostanziale identità di valutazioni da compiersi in entrambe le fasi, nel rispetto del principio del contraddittorio, anche se realizzato con modalità de formalizzate, il secondo assumeva il valore di vera e propria impugnazione.

Alla luce di tale considerazione, aggiungeva la Corte, la fase dell’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento assumeva certamente valore impugnativo, con contenuto sostanziale di revisio prioris instantiae, in quanto, non solo era idonea al giudicato, in caso di mancata opposizione, e le condizioni che legittimavano il provvedimento erano oggetto di rivalutazione in sede di opposizione, ma, proprio in ragione della gravità delle conseguenze che derivano dalla dichiarazione di fallimento, rende evidente che la sommarietà della cognizione camerale andava intesa nel senso non già di parzialità o superficialità bensì di de formalizzazione.

Se la dichiarazione di fallimento, rilevava la Consulta, poteva seguire ad una cognizione parziale od incompleta, nella quale gli elementi utilizzabili dal giudice per la decisione non fossero stati assunti nel contraddittorio, sia pur non formalizzato, delle parti, la disciplina

62 Cfr. Corte Costituzionale 23 dicembre 2005, n. 460, in Foro it., 2006, I, 639 con

nota di M. Fabiani che a partire da tale affermazione aveva argomentato che “l’obbligo di astensione ricorre non solo per i processi d’impugnazione in senso stretto, ma anche per quelli in apparenza “ bifasici”, laddove nella prima fase la cognizione sommaria debba essere intesa come de formalizzata e non come provvisoria, insufficiente o approssimativa. In particolare la vocazione alla stabilità della decisione assunta al termine della prima fase, sarebbe emblematicamente dimostrativa della necessità di qualificare in termini di “ impugnazione” il successivo giudizio deputato al controllo”.

(27)

legislativa, che consentiva effetti potenzialmente decisivi, sarebbe stata di dubbia costituzionalità”.

Era sulla base di tali argomentazioni che l’organo di legittimità delle leggi aveva affermato l’applicabilità del principio d’incompatibilità alla disciplina contenuta nell’art. 18, legge fallimentare previgente. Tuttavia la soluzione formulata in tale pronuncia poteva essere applicata solo all’opposizione contro la sentenza dichiarativa di fallimento, quindi, solo rispetto a tale ipotesi trovava applicazione il principio dell’incompatibilità, ovvero il giudice delegato della fase sommaria non poteva partecipare alla fase successiva. E ciò lo aveva affermato la stessa Corte nella pronuncia in questione poiché in tutte le altre ipotesi, per essa, non ricorreva la medesima ratio, ovvero la presenza di un altro grado di giudizio. Di conseguenza, nel caso di opposizione al decreto di accertamento dello stato passivo, non trovava applicazione il principio d’ incompatibilità.

Quest’ultimo aspetto, come successivamente vedremo, non era condiviso dalla dottrina.

Nel regime previgente parte della dottrina riteneva che il giudizio di opposizione fosse governato dal principio dispositivo63; altra, invece, da quello inquisitorio64.

63 Il principio dispositivo è, in realtà, un insieme di principi che vanno considerati

separatamente giacchè la disciplina positiva ben potrebbe conformarsi ad uno e discostarsi dall’altro. Tali principi possono essere così riassunti: è vietato al giudice avviare il processo in assenza di azione della parte; è vietato al giudice fondare la sua decisione su fatti diversi da quelli che le parti hanno allegato; è vietato al giudice pronunciarsi a favore o contro soggetti diversi dalle parti, di accordare o negare cosa diversa da quella domandata dalla parte e di sostituire il fatto costitutivo del diritto fatto valere dalla parte con uno diverso; è vietato al giudice fondare la sua decisione su mezzi di prova diversi da quelli proposti dalle parti.

In tale prospettiva vedi ANDRIOLI, voce Fallimento, in Enc. Dir., Milano, 1967, pp. 352-353; F. FERRARA- A. BORGIOLI, Il fallimento, 5^ ed., Milano, 1995, p. 253; R. PROVINCIALI, Trattato di diritto fallimentare, I, Milano, 1974, p. 563.

64 Il principio inquisitorio, invece, riconosce al giudice un ruolo più attivo.

In questo senso vedi TEDESCHI, Comm. SB, p. 509 ss.; NATOLI, Foro pad., 1951, I, p. 213; DENTI, Giur. It., 1953, I, 2, p. 301.

(28)

La giurisprudenza aveva risolto tale diatriba nel senso dell’applicabilità del principio inquisitorio. Tale orientamento era stato espresso dalla Corte di Cassazione in diverse occasioni; in particolare nella pronuncia del 26 luglio 1994, n. 695365, aveva affermato che “nel giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, il carattere officioso del processo importava che il giudice potesse prendere in esame, ai fini della prova relativa ai presupposti della dichiarazione di fallimento, tutte le risultanze processuali, senza distinzioni tra oneri spettanti all’attore ed oneri spettanti al convenuto”; nella pronuncia del 28 marzo 1990, n. 253966, l’organo in questione aveva affermato che “in sede di opposizione alla dichiarazione di fallimento sussisteva il potere-dovere del giudice di riscontrare, anche d’ufficio, la sussistenza dello stato d’insolvenza e di ogni altro presupposto del fallimento medesimo, potendosi avvalere di tutti gli elementi che aveva acquisito, ivi inclusi quelli relativi alla fase processuale che si era conclusa con detta dichiarazione; l’ufficiosità del processo si proiettava anche nel grado di appello, salvo le preclusioni verificatesi su punti che già erano stati decisi con statuizioni non impugnate”.

Anche la giurisprudenza di merito si era espressa in tale senso: a conferma di ciò la Corte di Appello di Trieste con sentenza del 6 dicembre 198867 aveva affermato che “l’opposizione a sentenza dichiarativa di fallimento è un giudizio avente per oggetto diritti non disponibili in vista delle finalità di pubblico interesse proprie del procedimento concorsuale, di conseguenza il giudice è tenuto a

65 Corte di Cassazione 26 luglio 1994, n. 6953, in Il fall., 1995, p.266.

Nel caso di specie la Corte di Cassazione si era dovuta pronunciare su di una decisione della Corte d’Appello con la quale essa era andata ad accertare e ricostruire quali fossero i reali rapporti tra le parti in quanto l’intento di queste era quello di occultare il rapporto societario.

66 Corte di Cassazione 28 marzo 1990, n. 2539, in Giur. It., 1990, I, 1, p.1727. 67 Corte di Appello di Trieste 6 dicembre 1988, in Il fall., 1989, p. 812.

(29)

verificare, anche d’ufficio, l’esistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi richiesti dalla legge per farsi luogo alla pronuncia predetta”; il Tribunale di Como con sentenza del 27 giugno 198968 aveva sostenuto che “in sede di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, l’indagine relativa allo stato d’insolvenza poteva fondarsi anche su elementi diversi da quelli presi in esame al momento in cui il fallimento era stato dichiarato (tengo a precisare che nel giudizio di opposizione l’accertamento della situazione d’insolvenza va compiuta con riferimento alla data di dichiarazione di fallimento), purchè avessero attinenza con la situazione esistente alla data della dichiarazione di fallimento”.

In tale prospettiva, la giurisprudenza prevalente escludeva l’operatività del principio dell’onere della prova, espresso nell’art. 2697 c.c.69, nel giudizio di opposizione.

A titolo esemplificativo è utile citare la sentenza 2 settembre 2005, n. 1769870, con la quale la Corte di Cassazione aveva affermato che “nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento, in considerazione del suo carattere officioso, il giudice aveva il potere-dovere di accertare l’esistenza dei presupposti richiesti per l’apertura della procedura concorsuale anche in base agli atti del fascicolo fallimentare, le cui acquisizioni conoscitive rientravano nella categoria delle prove atipiche, delle quali il giudice poteva avvalersi per siffatto accertamento, e, quindi, erano suscettibili di essere valutate a detto scopo anche le dichiarazioni rese nella fase prefallimentare dal fallito, oppure da un soggetto privo della capacità a testimoniare, ai sensi

68 Tribunale di Como 27 giugno 1989, in Dir. Fall., 1990, II, p. 566.

69 Art. 2697 c. c.: “ Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che

ne costituiscono il fondamento.

Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”.

70 Corte di Cassazione 2 settembre 2005, n. 17698, in Giust. Civ., Mass., 2005, fasc.

Riferimenti

Documenti correlati

15 Cfr. Nella dottrina più recente non mancano Autori che condividono tale impostazione, G. 17 Un antesignano di tale insegnamento giurisprudenziale fu M. 19 Per un

Quando pronuncia sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all'articolo 375, la Corte, anche d'ufficio, condanna, altresì, la parte soccombente al pagamento, a favore della

Nella medesima prospettiva la Corte di Cassazione ha escluso che detto impegno pattizio al riconoscimento agli effetti civili di una sentenza ecclesiastica di

366, terzo comma, in quanto la modificazione proposta nello schema induce dubbi di compatibilità con gli articoli 24 e 111 della Costituzione e di praticabilità concreta

Presidente aggiunto della Corte di cassazione

L’imputato contumace può, inoltre, subire un pregiudizio a causa di intervenuti accordi svantaggiosi in materia probatoria tra accusa e difesa o ancora in ragione

Intervista ai Presidenti titolari delle Sezioni civili della Corte ed all’Avvocato Generale dirigente del settore civile della Procura Generale della Corte a cura del Prof.

contraente (il lavoratore) ceduto ad opporsi al proprio inserimento all’interno dell’unità trasferita, sostenendone l’irrilevanza dal punto di vista organizzativo o