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Le intercettazioni preventive e processuali: la diversa finalità

2. La nozione di intercettazione

2.1. Le intercettazioni preventive e processuali: la diversa finalità

Le intercettazioni si distinguono, a seconda della loro finalità, in preventive e processuali.

Le prime hanno una funzione di pubblica sicurezza, mirano cioè alla prevenzione del reato; al fine infatti, di prevenire gravi delitti che destano allarme sociale, come quelli di criminalità organizzata, di

Intercettazioni telefoniche (dir. proc. pen.), in Enc. Dir., Agg., VI, 2002, p. 588; C. Marinelli, Intercettazioni processuali e nuovi mezzi di ricerca della prova, 2007, p. 4 ss; E. Marzaduri, Spunti per una riflessione sui presupposti applicativi delle intercettazioni telefoniche a fini probatori, in Cass. pen., 2008, p. 4833.

24 G. Spangher, Trattato di procedura penale, Vol. II, 2008, p. 475 ss.

25 La definizione è tratta dalla sentenza n. 36747 della Cass., Sez. Un., 24 settembre 2003,

terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale, il legislatore, ex art. 226 disp. att. c.p.p., autorizza e consente il compimento d’intercettazioni di comunicazioni o conversazioni che sfuggono per la loro funzione alle finalità del processo penale, mantenendo però sullo svolgimento delle stesse, un controllo ad opera del pubblico ministero in ragione della caratteristica di indipendenza che l’ordinamento costituzionale garantisce a tale organo.

I presupposti generali sono descritti nel sopracitato art. 226, comma 1, disp. att. c.p.p., in base al quale le intercettazioni e i controlli preventivi sulle comunicazioni possono essere disposti quando sia necessario acquisire “notizie concernenti la prevenzione dei delitti” di cui all’art. 407, comma 2, lett. a, n. 4 e all’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., nonché di quelli di cui all’art. 51, comma 3-quater, c.p.p., commessi mediante l’impiego di tecnologiche informatiche o telematiche.

I controlli citati per questi gravissimi reati sono autorizzati dal Procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto in cui si trova il soggetto da sottoporre a controllo o, se non determinabile, del distretto in cui sono emerse le esigenze di prevenzione, su richiesta del ministro dell’interno o, su sua delega, dei responsabili dei servizi centrali di polizia, dei carabinieri, della guardia di finanza e della DIA26; i quali, potranno richiedere l’autorizzazione all’intercettazione di comunicazioni o conversazioni anche per via telematica, nonché tra presenti, anche se queste avvengono nei luoghi di privata dimora indicati dall’art. 614 c.p.

Alcuni presupposti speciali sono poi previsti dall’art. 4. d.l. n. 144 del 2005 per la prevenzione di attività terroristiche o di eversione

dell’ordinamento costituzionale e dall’art 136, comma 3 T.U. stupefacenti (d.p.r. n. 309 del 1990).

In questi casi dunque, pur se la finalità dell’atto è impedire la commissione di un reato, ben potrà accadere che sia invece acquisita la notizia di un reato già avvenuto.

Tuttavia, l’art. 226 disp. att. c.p.p., appare chiaro nell’escludere che l’intercettazione preventiva possa essere di per sé considerata come notizia di reato: quest’ultima dovrà comunque essere reperita in via autonoma, attraverso una diversa fonte d’informazione. Sicchè l’atto preventivo costituirà solo la base della pre-inchiesta, volta a ricercare un ulteriore dato che possa poi essere utilizzato come notizia di reato27. Infatti, nonostante l’art. 226, 4° comma, disp. att. c.p.p., preveda anche la possibilità di autorizzare il “tracciamento” delle comunicazioni telefoniche e telematiche, l’acquisizione dei dati esterni relativi alle stesse e l’acquisizione di “ogni altra informazione utile” in possesso degli operatori di telecomunicazioni; al 5° comma prescrive che i risultati e gli elementi acquisiti attraverso le attività preventive “non possono essere utilizzati nel procedimento penale, fatti salvi i fini investigativi”, ed inoltre, stabilisce che le attività di intercettazione preventiva e le notizie acquisite a seguito delle medesime attività “non possono essere menzionate in atti di indagine né costituire oggetto di deposizione né essere altrimenti divulgate”.

La durata massima di queste operazioni, secondo il 2° comma dell’art. 226 disp. att. cpp., è di quaranta giorni, prorogabile per periodi successivi di venti giorni. Secondo il 3° comma inoltre, delle operazioni svolte e dei contenuti intercettati è redatto verbale

27 Cfr. F. Caprioli, Le disposizioni in materia di intercettazioni e perquisizioni, in AA. VV. Il processo

penale tra politiche della sicurezza e nuovi garantismi, a cura di G. Di Chiara, 2003, p. 25; L.

D’Ambrosio, La pratica di polizia giudiziaria, 2007, p. 418 ss; L. Filippi, Misure urgenti per il

contrasto del terrorismo internazionale. Le disposizioni processuali, in Dir. pen. e processo, 2005, p.

sintetico, depositato presso il procuratore della repubblica che ha autorizzato le attività entro cinque giorni dal termine delle stesse.

Questi elementi non possono quindi costituire base di informativa o denuncia al pubblico ministero, né costituire la notizia di reato appresa dal pubblico ministero di propria iniziativa, né essere menzionati o posti a fondamento di atti di indagine o di provvedimenti dell’autorità giudiziaria, né, ancora, costituire oggetti di deposizione testimoniale o di divulgazione extraprocessuale. Anzi, tali atti devono immediatamente essere distrutti, così che non ne rimanga alcuna traccia28. La disposizione indica ciò che si ritiene debba avvenire in tema di notizie anonime, o provenienti dai confidenti, o dai colloqui investigativi “confidenziali”, o, ancora, dalle informazioni dei servizi d’informazione e sicurezza: deve essere reciso ogni riferimento alla fonte che ha dato l’avvio alla ricerca della notizia di reato; una volta che quest’ultima venga acquisita, la genesi con l’atto preventivo non deve risultare da alcun atto processuale, e quindi, in primo luogo, dalla stessa notizia di reato.

Le intercettazioni preventive sono quindi lo strumento, utilizzato dal legislatore, per permettere agli investigatori di ottenere elementi di conoscenza per prevenire la consumazione di gravi delitti che altrimenti non potrebbero essere rilevati e scongiurati.

In primis però, dubbi di costituzionalità sono stati avanzati

perché la finalità di prevenzione dei reati non otterrebbe riconoscimento costituzionale; in secundis, l’attività di prevenzione del crimine mal si concilierebbe con la riserva di giurisdizione di cui all’art. 15 Cost., poiché si chiederebbe al giudice non di “accertare” un fatto, ma di convalidare l’esistenza di un sospetto avanzato dalla

polizia di sicurezza29, col rischio di trasformare il giudice in poliziotto30.

La Corte costituzionale, tuttavia, nella nota sentenza n. 34 del 1973, ha chiarito che la segretezza delle comunicazioni può essere sacrificata per la necessità di prevenire e reprimere i reati, precisando che il potere di intercettare si ricollega “a quel dovere di prevenzione e scoperta degli illeciti penali che è compito istituzionale degli organi di Polizia Giudiziaria”, attestando, così, non soltanto la compatibilità con l’art. 15 Cost., ma anche riconoscendo un autonomo rilievo, da cui discende un’autonoma disciplina, all’attività di prevenzione dei reati, che troverebbe così fondamento nel principio non scritto di prevenzione e di sicurezza sociale31.

Le intercettazioni processuali hanno, invece, la funzione di consentire la prosecuzione delle indagini (artt. 266-271 c.p.p.) oppure di agevolare le ricerche del latitante (art. 295, commi 3 e 3-bis c.p.p.)32.

Le intercettazioni per la ricerca del latitante si discostano, sul piano funzionale, da quelle dirette all’individuazione di fonti di prova, pur condividendone numerose caratteristiche strutturali33.

Secondo il codice di rito, l’istituto è volto ad agevolare la ricerca di chi si sottrae all’esecuzione di una delle misure cautelari coercitive contemplate dall’art. 296 c.p.p, o ad un ordine di carcerazione. Al fine di agevolare le ricerche del latitante quindi, il Giudice o il Pubblico Ministero, nei limiti e con le modalità previste dagli artt. 266-267 c.p.p., possono disporre l’intercettazione di conversazioni o

29 G. Illuminati, cit., 1983, p. 176; cfr., altresì, G. Riccio, Politica penale dell’emergenza e

Costituzione, 1982, p. 179.

30 F. Bricola, Politica criminale e politica penale dell’ordine pubblico, in Quest. crim., 1975, p. 251. 31 A. Vele, Le intercettazioni nel sistema processuale penale. Tra garanzie e prospettive di riforma, 2011,

p. 43.

32 L. Filippi, Intercettazioni, tabulati e altre limitazioni della segretezza delle comunicazioni, in G.

Spangher, A. Marandola, G. Garuti, L. Kalb, Procedura Penale. Teoria e pratica del processo a cura di G. Spangher, Vol. I, 2015, p. 974.

comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione, applicando “ove possibile” le disposizioni degli artt. 268, 269 e 270 c.p.p. Gli stessi organi, inoltre, secondo il comma 3-bis, possono disporre di più ampi poteri di ricerca qualora il latitante sia indagato o imputato per un delitto di criminalità organizzata, ai sensi dell’art. 51 comma 3-bis c.p.p., o per le fattispecie di cui all’art. 407 comma 2 lett. a) n.4. In tal caso, infatti, sarà possibile procedere all’intercettazione di comunicazioni tra presenti.

Dall’analisi della disciplina codicistica risulta difficile individuare il significato da attribuire a questo strumento intercettativo, dal momento che la norma è interamente costruita sulla tecnica del rinvio. Questa difficoltà però, non trova riscontro nelle intenzioni del legislatore che, inequivocabilmente, aveva indicato come l’art. 295 comma 3 c.p.p. fosse volto a “menzionare espressamente, e disciplinare, le intercettazioni di comunicazioni dirette all’ulteriore ricerca del latitante, anziché all’acquisizione di prove per la decisione finale”34. Finalità, dunque, che potrebbe essere definita soltanto materiale, di agevolazione della cattura di personaggi, soprattutto della criminalità organizzata, che si sottraggono volontariamente alla giustizia.

Su tale questione però, sono stati avanzati dubbi sull’applicabilità dell’istituto nella fase esecutiva, nel momento in cui sussista una sentenza di condanna35. L’art. 267 c.p.p., infatti, menzionando espressamente il Giudice per le indagini preliminari, potrebbe far pensare che questo tipo di intercettazione possa essere

34 Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in Suppl. ord. n.2, Gazz. uff., 24

ottobre 1988, n. 250, p. 75.

35 In senso critico, L. Filippi, L’intercettazione di comunicazioni, 1997, p. 246, ove precisa che

“… l’art. 295 comma 3 c.p.p., nel prevedere l’intercettazione per la ricerca del latitante, intende evidentemente riferirsi alla “persona nei cui confronti la misura cautelare è disposta” di cui al comma 1 della stessa disposizione, con implicita esclusione del condannato. Del resto, il potere di intercettazione non è attribuito dalla legge al giudice dell’esecuzione”. In termini analoghi, A. Camon, cit., 1996, p. 58.

utilizzato soltanto nella fase delle indagini preliminari o al massimo nella fase del dibattimento, ma non nella fase dell’esecuzione. La giurisprudenza, però, ha opportunamente sottolineato il significato unitario del concetto di latitanza, dal quale discende la necessità di un trattamento altrettanto unitario per qualsiasi tipo di latitanza, con la possibilità di effettuare le intercettazioni per agevolare sia la cattura dell’indagato che si sottrae alla custodia cautelare, sia del condannato che si sottrae all’ordine di carcerazione36.

L’aspetto più controverso di tale tipologia di intercettazioni rimane comunque quello relativo alla loro utilizzabilità a fini probatori, perché, quanto più si estende la disciplina delle intercettazioni ex art. 266 c.p.p all’istituto in esame, tanto minori saranno le resistenze ad ammettere un uso probatorio dei dati con esso acquisiti.

Infatti, il rinvio all’art. 266 c.p.p. impone che il latitante sia stato chiamato a rispondere o sia stato condannato per uno dei reati per i quali il codice ammette l’utilizzazione di tale mezzo di ricerca della prova37.

Secondo orientamento giurisprudenziale consolidato ormai, le intercettazioni disposte per la ricerca del latitante valgono come prova per l’accertamento del fatto contenuto nell’imputazione e quindi, sono utilizzabili anche in procedimenti diversi da quello in cui la captazione è stata effettuata; questa idea si basa sull’interpretazione rigorosa del codice e cioè sul richiamo effettuato dall’art. 295 c.p.p. all’art. 270 c.p.p. e sul contestuale omesso richiamo all’art. 271 c.p.p. (divieti di utilizzazione), volendo dimostrare così la volontà del legislatore di consentire l’utilizzo dei risultati di queste intercettazioni

36 Così, Cass. pen., Sez. I, 1° giugno 1998, n. 3209, Bolandin, in Dir. pen. proc., 1999, p.

472.

37 G. Ciani, Sub art. 295, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M.

in altri procedimenti, senza applicare i divieti previsti dall’art. 271 c.p.p.38.

Contrariamente, si è sostenuto che il mancato richiamo dell’art. 295 comma 3 c.p.p., all’art. 271 c.p.p., sia riconducibile ad una diversa valutazione normativa e non alla volontà di consentire l’utilizzo di quel materiale anche in altri procedimenti. Con questo ragionamento quindi, si è voluto dimostrare, che il legislatore non vi ha fatto rinvio perché tale ultima disposizione risulterebbe superflua rispetto ad atti che sarebbero comunque privi di valore probatorio; il rinvio all’art. 270 c.p.p avrebbe perciò soltanto una funzione di garanzia, rendendone operanti, per le intercettazioni ex art. 295 comma 3 c.p.p., i commi 2 e 3, tutte le volte in cui, nel procedimento ad quem, fosse imputato il medesimo soggetto di quello a quo39.

Questa lettura del rapporto tra le due norme non può però essere ritenuta soddisfacente, anche perché mancano riferimenti normativi certi per cui si possa ritenere che il legislatore abbia voluto escludere soltanto l’art. 270 comma 1 c.p.p. Il divieto infatti, ex art. 270 c.p.p., di utilizzare il risultato delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli in cui furono disposte, salvo che abbiano ad oggetto reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, vuole salvaguardare l’imputato dai rischi connessi all’utilizzazione di una prova formata altrove; ma se si afferma che le intercettazioni ex art. 295 c.p.p. non sono comunque utilizzabili ai fini di prova e che il deposito ha solo una funzione di garanzia e di

38 Cfr., Cass. pen., Sez. I, 7 giugno 2007, n. 24178, Cavaliere, in Cass. pen., 2008, p. 2912

con nota di F. Cassibba.

39 L’articolato ragionamento è di G. Illuminati, Intercettazioni per la ricerca del latitante: quali

garanzie?, in Dir. pen. proc., 1996, p. 84. In termini analoghi, C. Marinelli, cit., 2007, p. 56, il

quale ritiene che le conversazioni captate non dovrebbero “… avere ingresso nel quadro decisorio del giudice neppure in un procedimento diverso da quello in atto. La contraria opinione non sembra potersi fondare sul richiamo all’art. 270 c.p.p.: il riferimento alla disposizione è diretto ad estendere le garanzie relative al deposito dei materiali e al loro esame, ma non può essere letto in modo da snaturarne la funzione dell’istituto”.

controllo, quel divieto non ha più senso di esistere40. Quindi, se le intercettazioni ex art. 295 comma 3 c.p.p., non fossero, in ogni caso, utilizzabili come prova, applicare l’art. 270, commi 2 e 3 c.p.p., con il solo intento di rendere operante a favore degli imputati giudicati separatamente il controllo sulla regolarità delle operazioni captative, sarebbe addirittura superfluo per la tutela del diritto di difesa.

In conclusione, è necessario comunque ritenere che i risultati delle intercettazioni per la ricerca del latitante siano utilizzabili ai fini probatori solamente per i fatti di cui all’imputazione nel procedimento di origine, a patto che siano rispettati i limiti indicati dagli artt. 266 e 267 c.p.p. Nel diverso procedimento, invece, il richiamo all’art. 270 c.p.p. e l’omesso richiamo all’art. 271 c.p.p. permettono l’utilizzabilità delle intercettazioni soltanto quando si proceda per quei delitti in cui è obbligatorio l’arresto obbligatorio in flagranza41.

Questa conclusione consente anche di dare significato al rinvio “ove possibile” agli artt. 268, 269, 270 c.p.p., perché ammette l’utilizzabilità probatoria subordinandola alla sussistenza dei presupposti formali e sostanziali richiesti dalle norme invocate, la cui mancanza ne comporta però l’inutilizzabilità.

Questa soluzione è necessaria, in quanto l’unica possibile sulla base del dettato normativo, anche se comunque vi sono delle critiche, visto che contrasta con quella che voleva essere la finalità dell’istituto: agevolare il ritrovamento di chi si sottrae alla giustizia e non quella di provare fatti di reato e individuarne gli autori.

Si deve ammettere, tuttavia, che se dalle captazioni disposte, per quelle “autentiche” finalità, dovessero emergere ulteriori elementi e

40 In tali termini, A. Camon, cit., 1996, p. 56. 41 A. Vele, cit., pag. 51.

spunti investigativi, questi potrebbero essere utilizzati come notizia di reato.

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