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I risvolti linguistici delle proteste

2.3 Le proteste libanesi del 2019 e il corpus di analis

2.3.1 Le proteste libanesi in breve

Le proteste libanesi sono iniziate il 17 ottobre 2019 e hanno visto una massiccia mobilitazione popolare non solo nella capitale Beirut, ma in tutte le principali città del Libano, come a Tripoli, Tiro, Sidone, Baalbeck, Nabatiyye, ecc. Le contestazioni si sono configurate dunque come un fenomeno che ha interessato tutto il paese da nord a sud per protestare contro la profonda crisi economica e

40 Ibidem p. 331.

41 Cfr. Bassiouney, R., “Politicizing identity: Code choice and stance-taking during the Egyptian revolution”, in Discourse & Society, 23(2), p. 107.

42 Ibidem p. 122.

43 Cfr. Kasanga, L.A. and Ben Said, S., “The Discourse of Protest: Frames of Identity, Intertextuality and

finanziaria, la mancanza di opportunità lavorative, la disoccupazione dilagante, la corruzione endemica, il clientelismo, l’assenza di servizi pubblici e di beni di prima necessità (come acqua ed elettricità), chiedendo le dimissioni dell’intera classe politica e il totale superamento del sistema confessionale44. Questo tipo di assetto politico viene infatti visto dai manifestanti come ragione

principale dell’acuirsi delle storiche tensioni settarie, sfociate poi nella guerra civile (1975-1990) e oggi come causa di immobilità politica, clientelismo, nepotismo e corruzione, oltre che strumentalizzazione da parte della classe dirigente delle appartenenze religiose degli individui. È importante evidenziare poi che il multiconfessionalismo che caratterizza il paese ha un impatto significativo su numerosi ambiti della vita del cittadino, dall’istruzione all’amministrazione, dalla geografia urbana (come si approfondirà in seguito) alla giurisprudenza. In particolare, in materia di diritto di famiglia, “la frammentazione politica e religiosa del Libano ha fatto sì che non vi sia stata una disciplina unitaria applicabile a tutti i libanesi su base nazionale e non religiosa45”: in questo

ambito pertanto, la Costituzione stessa rimanda ai diversi diritti confessionali. Per questo motivo, un tema particolarmente sensibile, che ha destato l’interesse dei manifestanti in sede di proteste, è stato proprio quello dell’assenza dei matrimoni civili, come verrà discusso nella prima sezione del capitolo successivo46. È però importante sottolineare che le contestazioni, definite dai libanesi come ṯawrat

tišrīn (Rivoluzione di Ottobre), non sono cominciate per motivazioni ideologiche, ma sono iniziate in risposta alla decisione del governo di introdurre l’ennesima tassa, questa volta sulle chiamate vocali di Whatsapp e su tutti i servizi VoIP. Pertanto, ciò che ha spinto i libanesi a scendere in piazza sono state in primis ragioni concrete, legate all’inasprirsi della crisi economica, diventate poi occasione per chiedere di vivere degnamente (bi karāme47) e per protestare contro un sistema politico corrotto

e inefficiente, chiedendo un cambiamento strutturale e profondo a cominciare dall’instaurazione di uno stato laico (dawlah madaniyyah)48. In questo scenario, i libanesi si sono posti come un popolo

unito al di là delle appartenenze religiose, probabilmente perché una buona parte di loro ha preso coscienza del fatto che il confessionalismo sia sempre stata un’arma nelle mani della classe dirigente

44 Il Libano è un paese multiconfessionale: sono infatti ben diciotto le confessioni religiose riconosciute, divise tra le

comunità cristiane e musulmane. I rapporti tra cristiani e musulmani sono regolati dalla Costituzione, ma soprattutto dal cosiddetto Patto nazionale del 1943, un accordo non scritto tra cristiani maroniti e musulmani sunniti che prevede una rigorosa divisione delle cariche pubbliche per quota confessionale. In base a questo patto, infatti, il presidente deve essere cristiano maronita, il primo ministro musulmano sunnita, il presidente del Parlamento musulmano sciita e così via scendendo tutti i gradi dell’amministrazione. Se da un lato il sistema delle quote può sembrare un’affermazione di pluralismo religioso e libertà individuale, non va trascurato l’effetto settario prodotto da questa frammentazione. Cfr. Donini, V. M., & Scolart, D., La sharìʻa e il mondo contemporaneo: Sistemi giuridici dei paesi islamici, 2015, p. 153.

45 Ibidem p.155.

46 Si veda Capitolo 3.1.1, immagini 1.6 e 1.7. 47 Si veda Capitolo 3.1.1, immagini 1.2 e 1.3.

48 Cfr. El-Hage A.M., “On discute ferme, au cœur de Beyrouth, pour bâtir ensemble un État-nation”, in La Révolution en marche, Jeudi 21 Novembre 2019 (L’Orient-Le Jour), p. 19.

per assicurarsi il controllo sui vari segmenti sociali e dividere il popolo, come ha sostenuto Gilbert Achkar, professore di relazioni internazionali all’università SOAS di Londra, il quale ha anche affermato che un movimento di questo tipo è stata una grande novità nella storia libanese49. Egli ha

aggiunto anche che «la division entre “eux” et “nous” n’est plus entre maronites, chiites ou druze, mais entre ceux d’en bas, le peuple, et ceux qui profitent du système50», evidenziando dunque anche

un cambiamento della retorica nelle piazze, che vuole segnare la fine delle divisioni settarie e allo stesso tempo una rottura dal basso con coloro che sono accusati di approfittarsi delle appartenenze religiose per dividere il popolo e controllarlo. All’interno di questo discorso, infatti, i politici sono stati sovente descritti dai manifestanti, oltre che come responsabili della profonda crisi che il Libano si trova ad affrontare, anche come dei criminali di guerra. Un altro elemento interessante, che verrà discusso nel capitolo successivo, è infatti la percezione da parte del popolo in rivolta che questa “rivoluzione”, e in particolare la data del suo inizio cioè il 17 ottobre 2019, abbia segnato la vera fine della guerra civile e la riconciliazione del popolo libanese. A questo proposito, è importante sottolineare il fatto che a organizzare e gestire le proteste sia stata prevalentemente la componente giovane della popolazione, che dunque non ha vissuto la guerra civile: perciò, sembra essere avvenuta una vera e propria rottura generazionale, determinante per un cambiamento della visione del paese, che, secondo alcuni, sta iniziando a gettare le basi per la costruzione di una vera nazione51. È

altrettanto opportuno ricordare che il Libano è un paese con una popolazione giovane: secondo cifre non ufficiali, più del 41% dei cittadini ha meno di ventiquattro anni e, secondo stime della Banca Mondiale, più del 35% dei giovani tra i diciotto e i venticinque anni risulta disoccupato52: questi dati

fanno trapelare quindi quelle che sono le motivazioni pragmatiche che hanno spinto la gioventù libanese a protestare contro un sistema politico corrotto e inefficiente. La stessa gioventù, la sera del 17 ottobre, si è attivata occupando e bloccando le strade principali non solo di Beirut, ma di tutto il paese. Come si approfondirà anche nel Capitolo 3.253, molto significativa è stata l’occupazione degli

spazi pubblici da parte dei manifestanti e, in maniera particolare, la riappropriazione degli edifici abbandonati della Downtown di Beirut, caduti in rovina in seguito al conflitto del 1975, che da simboli di guerra e decadenza, sono divenuti simboli di pace e di rinascita54. Le proteste, inoltre, hanno avuto

49 Cfr. Samrani A. et al, “Plusieurs négations peuvent-elles désormais faire une nation?”, in La Révolution en marche,

Jeudi 21 Novembre 2019 (L’Orient-Le Jour), pp. 30-31.

50 Ibidem

51 Cfr. Sueur E., “Quand l’automne libanais prend un air de printemps”, in La Révolution en marche, Jeudi 21 Novembre

2019 (L’Orient-Le Jour), p.3.

52 Cfr. Hayek C, Mardam Bey S., “Cette jeunesse qui dit non au Liban de papa”, in La Révolution en marche, Jeudi 21

Novembre 2019 (L’Orient-Le Jour), p. 26.

53 Si veda Capitolo 3.2, Foto 1, 2 e 3.

54 Cfr. Hayek C., Kebbi J., “Quand la jeunesse révoltée ressuscite les lieux cultes de Beyrouth” in La Révolution en marche, Jeudi 21 Novembre 2019 (L’Orient-Le Jour), pp. 13-14.

un impatto significativo sulla concezione stessa degli spazi pubblici. Tradizionalmente, infatti, in Libano si tendono a dividere i luoghi a seconda della religione maggioritaria che li occupa: basti pensare alla netta separazione tra East Beirut (cristiana) e West Beirut (musulmana), divise dalla cosiddetta Green Line durante la guerra civile o all’odierna geografia urbana del paese e della stessa capitale, in cui i quartieri sciiti si distinguono da quelli sunniti, cristiani, armeni e così via55, grazie

anche all’uso dei simboli religiosi e allo stesso tempo politici che li caratterizzano. Questa divisione settaria dello spazio, accompagnata da politiche di privatizzazione implementate durante la fase di ricostruzione post-bellica, ha reso di fatto inesistenti, o inaccessibili, gli spazi pubblici e di aggregazione anche nel centro della capitale (Downtown), che prima del conflitto era l’area del sūq ed era quindi considerata la zona della città più neutra. La ṯawrah è quindi riuscita a ridefinire gli spazi e a depoliticizzarli, creando una sfera pubblica dall’identità non settaria. In particolare, la Downtown di Beirut, che, come verrà in seguito messo in luce, è il luogo in cui sono stati reperiti la maggior parte dei materiali oggetto di analisi nel Capitolo 3, ha visto un’interessante suddivisione degli spazi, nei punti centrali delle proteste: nel dettaglio, il Ring Bridge, ponte che si trova appena prima delle piazze principali, veniva sovente occupato dai dimostranti per bloccare il traffico in un punto di snodo strategico della città. È però interessante osservare che il Ring unisce le due zone est e ovest di Beirut e dunque occuparlo era diventato anche un simbolo di unione e forza popolare. Piazza dei Martiri, poi, era il cuore delle proteste, la zona dei grandi assembramenti e di festa e rappresentava dunque il lato ludico delle contestazioni. Il parcheggio del centro Azarieh, antistante alla piazza principale, era invece il luogo degli stand ed era uno spazio di dibattito politico, più serio e strutturato. Infine, Piazza Riad El-Solh era lo spazio di contestazione più forte e accesa.56 In questo

scenario di rivolta, dunque, le piazze sono divenute luoghi d’incontro, di dibattito, di rivendicazione ma anche di festa con lo scopo da parte dei dimostranti di fare pressione sui politici e spingerli alle dimissioni. Il primo risultato concreto, sebbene non pienamente soddisfacente per il popolo, sono state le dimissioni dell’ormai ex Primo Ministro Saad Hariri il 29 ottobre 2019. Sicuramente, uno degli aspetti centrali di queste proteste è stata la massiccia partecipazione di persone di tutte le età, di tutte le confessioni religiose e di tutte le classi sociali, unite, sotto un’unica bandiera, dalla stessa frustrazione per una classe politica al potere da ormai trent’anni e per la corruzione dilagante: « les gens se réapproprient les espaces du pays et se lient à leurs compatriotes de confessions et de classes

55 Cfr. Nagel, C., “Reconstructing space, re-creating memory: sectarian politics and urban development in post-war

Beirut”, in Political geography, 21(5), 2002, p. 721.

56 Queste informazioni provengono da un meeting organizzato sulla piattaforma online “Zoom” il 16/05/2020 alle ore

16.30 (ora di Beirut) dal titolo “Aias Talks X: Archtecture & Mass Media”. La conferenza era tenuta da Chloe Kattar, dottoranda in Storia del Libano all’Università di Cambridge, Antoine Atallah, architetto e Marc El Samrani architetto, scenografo e dottorando con una tesi sul ruolo della mediazione culturale e digitale nello spazio pubblico.

sociales différentes mais aux revendications identiques, portant à bout de bras leur rage contre un système figé qui les prive de leurs droits57 ». Una caratteristica importante delle proteste era dunque

la volontà dei cittadini di identificarsi e di essere identificati come “popolo libanese”, come emergerà anche dall’analisi dei materiali presentati nel Capitolo 3. È stata proprio l’affermazione di un’identità nazionale l’elemento forse più eccezionale delle contestazioni, anche alla luce della storia del Libano e delle divisioni confessionali che lo hanno sempre contraddistinto. In ultima istanza, è interessante osservare che alcuni tratti salienti delle proteste nel Paese dei cedri siano simili alle rivolte del 2011: per esempio, il carattere spontaneo con cui hanno avuto inizio, le ragioni innanzitutto economiche che hanno spinto il popolo a scendere in piazza, il configurarsi delle proteste come fenomeni rivoluzionari, le richieste avanzate dai manifestanti in termini politici (caduta dei regimi dittatoriali durante le Primavere Arabe, dimissioni dell’intera classe politica e superamento del sistema confessionale in Libano), economici (proteste contro la crisi economica, la disoccupazione, la corruzione dilagante e il sistema clientelare) e sociali (vivere degnamente “bi karāmah58”, libertà,

maggiori diritti e tutele, ecc). Questi elementi emergeranno da alcuni degli slogan che saranno presi in esame e approfonditi nel corso del terzo capitolo, che conterrà il corpus di analisi dei materiali relativi alle proteste libanesi del 2019.