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La Legione Cecoslovacca in Italia: aspetti politici e diplomatic

Nel documento La Legione Cecoslovacca in Italia (pagine 104-184)

La questione cecoslovacca trovò l’Italia, in un primo momento, semplicemente indifferente. Per quanto riguarda la popolazione, anche la componente più istruita faceva sovente fatica a distinguere le diverse nazionalità all’interno dell’Impero Austro-Ungarico. Tale incolpevole ignoranza fu senz’altro una delle cause principali della tiepidezza con cui inizialmente vennero accolte le notizie relative alla causa cecoslovacca nonché le prime unità sul campo, sovente scambiate dai residenti locali per truppe di altre nazionalità alleate. La stessa stampa non aveva dapprima né la conoscenza adeguata né tantomeno l’interesse di occuparsi di un argomento ritenuto marginale e non utile più di tanto per la guerra italiana. Pochi intellettuali di stampo per lo più mazziniano avevano al contrario ben presto compreso tanto la potenziale utilità per l’Italia della questione cecoslovacca, quanto la sua potenziale carica esplosiva per la tenuta dell’Impero Asburgico. Questi intellettuali, provenienti soprattutto dalle schiere dell’interventismo democratico, vedevano delinearsi quell’idea mazziniana di Giovine Europa che fino ad allor mai aveva veduto la luce e che ora, ai loro occhi, rendeva concreta la possibilità della creazione di un insieme alleato di paesi democratici, nati sulla base del principio di autodeterminazione dei popoli, guidato da un’Italia finalmente ispiratrice e dispensatrice di autorevolezza democratica. Che il sogno andasse ben oltre la realtà e le reali prospettive è l’opinione di chi scrive, ma sicuramente la fucina ideale che ne era alla base fu foriera di iniziative che, nel tentativo di valorizzare in senso europeista e democratico un ruolo di spicco dell’Italia, contribuirono parimenti a dare risalto e visibilità a quei movimenti indipendentisti, all’interno dell’Impero Austro-Ungarico, che di risalto e visibilità avevano un disperato bisogno per poter concretizzare le proprie aspirazioni.

Accanto agli interventisti democratici, in un secondo momento, quando cioè la questione raggiunse un livello di attenzione e diffusione di un certo rilievo, si inserirono, nel sostegno alle aspirazioni cecoslovacche, anche tutta una schiera di nazionalisti, i quali, in maniera del tutto strumentale, utilizzavano le cosiddette “nazionalità oppresse” in funzione antiaustriaca e a sostegno delle aspirazioni territoriali italiane.

Il mare magnum dell’interventismo democratico, come noto andava dagli irredentisti democratici alla Cesare Battisti che avevano appoggiato la guerra italiana in funzione del

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completamento dell’unità nazionale, ai mazziniani e ai socialisti riformisti alla Bissolati e alla Salvemini, che andavano oltre, vagheggiando il riscatto delle nazionalità oppresse.

Nel marzo del 1915 Gaetano Salvemini dalle colonne del suo settimanale L’Unità, omonimo del più noto e non ancora nato quotidiano comunista, propugnava l’utilità della distruzione dell’Impero Austro-Ungarico, ponendo direttamente la questione e argomentando altresì l’utilità in ambito bellico delle spinte centrifughe che i movimenti nazionali al suo interno avrebbero potuto recare. Lo stesso Salvemini all’inizio del conflitto, nel 1914, non pensava ancora a uno smembramento dell’Impero Austro-Ungarico, come evidente da quanto scriveva nell’agosto di quell’anno sulla sua rivista, rivendicando per l’Italia il Trentino, Trieste, le città italiane dell’Istria ma non la Dalmazia. In quella fase egli riteneva pericolosa l’eliminazione dallo scacchiere internazionale di quello che considerava ancora un fattore di equilibrio per contenere le contrapposte mire della Germania e della Russia.155 Del resto il 28 agosto dello stesso anno egli aveva messo in chiaro in un altro articolo sulla medesima rivista che il suo schierarsi a favore dell’intervento era dovuto sia ai fini nazionali dell’Italia, sia alla possibilità di democratizzazione degli Imperi Centrali156: questo nella chiara ottica di un riassetto democratico dell’Europa, nel quale la Germania e l’Austria, così rinnovate, non avrebbero più costituito un pericolo per la pace europea. Su posizioni affini si trovava Leonida Bissolati, il quale pure, all’inizio, esitò nel dichiararsi palesemente a favore dello smembramento dell’Impero Asburgico, preferendo limitarsi ad un generico appoggio al principio di nazionalità all’interno della compagine austro-ungarica, appoggio che l’Italia, entrando in guerra, avrebbe dovuto fornire con ruolo di guida.157

In ogni caso non molto tempo prima dell’inizio della Prima Guerra Mondiale, nel 1913, Umberto Zanotti Bianco aveva inaugurato la pubblicazione di una collana da lui stesso curata, dal titolo La Giovine Europa: l’evidente eco mazziniana di questa collana rispondeva alla finalità di fornire visibilità e approfondire le questioni nazionali con il chiaro intento di assegnare all’Italia un ruolo guida concreto per un risorgimento europeo delle nazionalità oppresse. Lo stesso Salvemini sostenne e diede un importante contributo alla collana. Quest’ultimo il 12 marzo 1915, nel noto articolo intitolato Finis Austriae158, rompeva gli indugi

155 Salvemini, Gaetano, “Fra la grande Serbia ed una più grande Austria”, in L’Unità, 7 agosto 1914. 156 Salvemini, Gaetano, “La guerra per la pace”, in L’Unità, 28 agosto 1914.

157 Bissolati, Leonida, “L’Italia e i Balcani”, in Il Secolo, 14 novembre 1914. 158 Salvemini Gaetano, “Finis Austriae?”, in L’Unità, 12 marzo 1915.

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e prendeva nettamente posizione in favore della liquidazione dell’Impero Austro-Ungarico, facendo, tra le altre cose, esplicito riferimento ad uno stato indipendente composto da Boemia e Moravia; circa un anno e mezzo dopo, il 16 dicembre 1916, egli giungerà a comprendere nel progetto anche la Slovacchia, fornendo già in quella sede un appoggio concreto alle aspirazioni del movimento cecoslovacco.159 Salvemini, inoltre, dalle colonne de L’Unità pubblicò a più riprese articoli di giornalisti stranieri vicini ai movimenti delle nazionalità, quali ad esempio il britannico Seton-Watson. Celeberrimo in direzione di quella che verrà ben presto definita come la “politica delle nazionalità”, fu il noto “discorso di Cremona” di Leonida Bissolati, pronunciato in occasione della commemorazione di Cesare Battisti, nel quale il soldato-ministro definì testualmente l’Austria-Ungheria come “una compagine mostruosa, la negazione e la compressione di tutte le nazionalità che non siano la tedesca e la magiara”.160

Era stato invero Cesare Battisti tra i primi in assoluto in Italia a propugnare apertamente la necessità della distruzione come entità statale dell’Austria-Ungheria, e ciò era avvenuto dalle colonne dell’Avanti, il 14 settembre 1914, in una lettera al direttore del giornale Mussolini e, più esplicitamente, in un’altra lettera aperta su La Stampa di Torino il 27 settembre, questa volta diretta al segretario del gruppo parlamentare socialista Oddino Morgari.161 Senz’altro influenzati dagli stretti rapporti con Battisti, Salvemini e Bissolati passeranno presto ad appoggiare anch’essi apertamente la dissoluzione dell’Impero.

D’altra parte, come è noto, Bissolati fu il primo membro del governo a pronunciarsi pubblicamente per l’inclusione della dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico tra i fini di guerra dell’Intesa.162 Vero è che Bissolati dall’inizio si pronunciò tanto contro gli aspetti più nazionalisti dei movimenti indipendentisti delle nazionalità oppresse, quanto contro le aspirazioni territoriali italiane che non rispondessero a chiari criteri di nazionalità; ma altrettanto vero è che non si comprende, secondo chi scrive, come mai Bissolati con tanto vigore si oppose al “parecchio” giolittiano, battendosi non senza venature marcatamente nazionaliste per l’intervento dell’Italia, quando il “parecchio” giolittiano somigliava molto da

159Stuparich, Giani, La nazione ceca, Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1922, pp. 111-112.

160Bissolati, Leonida, La politica estera dell'Italia dal 1897 al 1920 - Scritti e discorsi, Milano, Treves,

1923, p. 371.

161 Bittanti Ernesta (a cura di), Scritti politici di Cesare Battisti, Firenze, Le Monnier, 1923, p. 189 sgg.;

citato in Valiani, Leo, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Milano, Il Saggiatore, 1966, p. 169.

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vicino a quanto Bissolati andava rivendicando in maniera progressivamente sempre più chiara; e peraltro, la consapevole crociata mazziniana e il dichiarato anti-nazionalismo del ministro di Cremona andavano a cozzare in maniera irrimediabilmente incoerente con la realtà di una costellazione di movimenti indipendentisti mossi sovente più da aspetti marcatamente nazionalisti che dal rispetto del principio dell’autodeterminazione dei popoli, con il risultato finale della formazione di una serie di stati che tutto erano fuorché fondati su quest’ultimo principio e in linea di massima sprezzanti delle enormi minoranze etniche che venivano a inglobare al loro interno.

In un’intervista al Matin di Parigi, alla fine di settembre del 1916, Bissolati dichiarava di essere entrato nel governo per due ragioni: per un accordo duraturo dell’Italia con la Francia e per l’intesa dell’Italia con gli jugoslavi per la creazione di una sorta di unità morale ed economica dell’Europa del Sud, suscitando le ire di gran parte della stampa.163

Gaetano Salvemini, da par suo, in una lettera del 6 aprile 1916 ad Ugo Ojetti scriveva di ritenere indispensabile la “demolizione, più radicale che sia possibile dell’Austria- Ungheria, come unico mezzo per isolare e rendere innocua la Germania […]. Formazione con i frammenti dell’Austria di stati omogenei e compatti e forti a sud-est della Germania, capaci di frenare, d’accordo con l’Italia e la Russia i nuovi conati tedeschi […]”.164 Sorprende come non fosse evidente a Salvemini l’impossibilità di qualsivoglia compattezza ed omogeneità di tali futuri stati, tutt’altro che forti, alla prova dei fatti, soprattutto per l’intrinseca debolezza dovuta alle contraddizioni interne delle forti minoranze forzatamente incluse entro i loro confini.

Sul fronte nazionalista, nel gennaio 1917 venne creato un Comitato Italiano per l’Indipendenza Czeco-Slovacca, il quale ebbe, tra i suoi membri e animatori di spicco, diversi parlamentari, alti funzionari dello stato e personalità di rilievo della classe dirigente italiana.165 Si trattava di una vera e propria costola nata dalla Società Dante Alighieri ed era altresì vicina ad altre associazioni di stampo nazionalista quali la Pro Dalmazia Italiana o la Trento-Trieste, dalle quali, peraltro, ricevette un rilevante supporto logistico per la creazione

163 Le Matin, 30 settembre 1916, citato in Valiani, op. cit., p. 264. 164 Valiani, op. cit., p. 321.

165 Vi aderirono 57 senatori e 142 deputati. Cfr. Gotti Porcinari, Giulio Cesare, Coi legionari

cecoslovacchi al fronte italiano e in Slovacchia, Roma, Ministero della Guerra, Comando del Corpo di S.M., Ufficio Storico, 1933, p. 32.

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delle numerose sezioni locali del Comitato. I principali promotori di esso furono Pietro Lanza di Scalea, che ne fu presidente, Enrico Scodnik, che materialmente tenne i contatti con il Consiglio Nazionale Cecoslovacco di Parigi e Franco Spada, tutti nazionalisti: quest’ultimo fu particolarmente attivo nella creazione di una rete capillare sul territorio a livello di sezioni. Tra gli altri, membri di rilievo furono Ugo Dadone, Arnaldo Agnelli, e Gino Scarpa, il quale nel 1916 aveva personalmente preso contatti con Beneš in Svizzera abbozzando un dialogo sulle istanze cecoslovacche. Agnelli, radicale, e Scarpa, repubblicano, entrambi interventisti, non erano tecnicamente nazionalisti, ma nei fatti erano a loro piuttosto contigui. Il Manifesto dell’associazione propugnava l’aiuto italiano per l’indipendenza cecoslovacca nonché la creazione di una sua forza armata volontaria.166 Se nei primi tempi l’associazione ebbe ben pochi riscontri a livello di opinione pubblica e di diffusione, con il diffondersi della conoscenza della questione cecoslovacca e con il prendere piede della politica delle nazionalità in ampi settori dell’opinione pubblica e del mondo politico e giornalistico italiano, essa riuscì a raggiungere una considerevole diffusione sul territorio nazionale e costituì uno dei referenti privilegiati di interlocuzione da parte del Consiglio Nazionale. Era del resto evidente come, negli ambienti nazionalisti, ed il Comitato Italiano per l’Indipendenza Czeco- Slovacca non faceva eccezione, l’appoggio ai movimenti indipendentisti all’interno dell’Austria-Ungheria fossero solo uno strumento abilmente utilizzato per il crollo dell’Impero a vantaggio esclusivo degli scopi bellici italiani. A cura del Comitato fu redatto un libello prettamente propagandistico intitolato La Nazione Czecoslovacca nella guerra mondiale, edito nel 1918167 a Roma.

Per quanto riguarda gli ambienti governativi italiani, similmente, non avevano dapprincipio maturato un particolare interesse verso la nascente questione cecoslovacca, pur essendo stata l’Italia il primo paese ad aver dato asilo a Masaryk nel 1914. Il 17 dicembre 1914 infatti Masaryk aveva lasciato Praga per recarsi in visita a Roma (grazie ai buoni rapporti con il governatore della Boemia, principe Thun), dove aveva incontrato esponenti del movimento nazionale croato, tra cui Trumbić. Sembra che furono proprio questi contatti che, scoperti dall’ambasciata austro-ungarica a Roma, impedirono di fatto a Masaryk di rientrare in patria. A Roma Masaryk ebbe modo di incontrare, tra gli altri, il giornalista russo Svatkovskij, al quale dichiarò le sue intenzioni, dopo aver sondato gli

166Spada, Franco, La idea italo-czeca, Spoleto, Premiata Tipografia dell'Umbria, 1920, p.3.

167 Comitato Italiano per l’Indipendenza Czeco-Slovacca (a cura del), La Nazione Czecoslovacca nella guerra mondiale, Roma, Ausonia, 1918.

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esponenti dei principali partiti cechi e alcuni politici slovacchi, di organizzare un comitato nazionale, da attivarsi allorquando le truppe russe si fossero avvicinate a Praga: di ciò egli aveva reso edotto, prima di partire, il suo principale collaboratore, Beneš, mettendolo in contatto con il capo del Sokol, Scheiner, il quale, sia pure moderato, era necessario per qualunque ipotesi di tipo paramilitare, considerata la capillarità e la tipologia dell’organizzazione che guidava.168

La soglia di attenzione e di interesse si alzò allorquando il Consiglio Nazionale Cecoslovacco di Parigi iniziò una interlocuzione sistematica con l’Italia per ottenere appoggio riguardo alle proprie aspirazioni, considerata la assoluta centralità italiana in qualsivoglia questione inerente rivendicazioni rispetto all’Austria-Ungheria, essendo l’Italia l’unico paese, insieme alla Russia e, ancora per poco, alla Serbia, a fronteggiare sul campo l’Impero degli Asburgo. In ambito governativo il Ministro degli Affari Esteri Sidney Sonnino fu colui che stabilì e dettò le condizioni per ogni interlocuzione ed eventuale concessione al Consiglio Nazionale. Sopravvissuto a tre presidenti del Consiglio, Sonnino tenne saldamente in mano le redini della politica estera italiana per l’intera durata del conflitto, agendo da vero fulcro dell’intera azione di governo in guerra e rappresentandone la continuità.

Ogni qual volta si parla della questione cecoslovacca durante la Prima Guerra Mondiale, ricorre con metodica insistenza la vulgata, radicatissima nel dibattito storiografico, sui limiti strategici della visione di Sonnino, anacronisticamente aggrappata a uno status quo ante non più difendibile e che avrebbe avuto l’unico obiettivo di mantenere in vita un’entità statale austro-ungarica, sia pur privata dei territori da assegnare all’Italia, a danno delle aspirazioni dei movimenti indipendentisti. La questione appare in realtà più complessa e alcuni documenti mostrano come la posizione di Sonnino riguardo al mantenimento in vita o meno dell’Impero Austro-Ungarico cambiò nel corso del tempo, anche radicalmente, e andò sempre nel senso di individuare la soluzione e il contesto più congeniali e meno rischiose per la sicurezza e le aspirazioni italiane. In tal senso è da respingere, secondo chi scrive, la definizione di Sonnino come “austriacante”, definizione che pure è stata più volte utilizzata nel dibattito storiografico. Sonnino, semplicemente, era focalizzato sulle rivendicazioni italiane, “astenendosi dall’avanzare ai nuovi alleati dell’Intesa proposte dalla

168 Beneš Edvard, Souvenirs de Guerre et de Révolution (1914-1918). La lutte pour l’indépendence des Peuples, Paris, Ernest Leroux, 1929, T.1, p. 30 e sgg.

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portata complessiva circa i futuri assetti post-bellici e soprattutto senza pretendere di dettare un’agenda relativa all’Impero asburgico”.169 Questa fu la linea di Sonnino per tutta la durata del conflitto: tale linea fu tuttavia sottoposta a “molteplici adattamenti e aggiustamenti sulla base delle esigenze politiche o militari del momento, prendendo talvolta una piega più favorevole all’abbattimento dell’Austria-Ungheria, talvolta un’altra più favorevole al suo mantenimento”170. E ciò esattamente come fecero le altre potenze dell’Intesa e l’associato americano. Esempio calzante di tali aggiustamenti fu la posizione assunta da Sonnino in seguito ai vari tentativi di pace separata tra gli alleati e l’Austria-Ungheria del 1916-1917: in quei frangenti Sonnino, per contrastare tali progetti, che avrebbero inevitabilmente danneggiato le rivendicazioni italiane, si fece momentaneamente paladino della distruzione dell’Impero Austro-Ungarico, come si può evincere da quanto egli avrebbe affermato alla conferenza di S. Jean de Maurienne: “L’Italie […] veut la décomposition de l’Autriche […]. Seulement aprés la defaite totale de l’Autriche er sa décompostion elle aurait pensée à examiner les limites de ses exigeances”.171 Viceversa, come noto, nella primavera del 1918, quando divennero evidenti e più chiari gli intenti disgregatori degli alleati e dell’associato americano, con l’ormai palese favore ai movimenti indipendentisti delle nazionalità oppresse, Sonnino ritenne opportuno frenare tali tendenze, preoccupato per gli interessi italiani nella prospettiva sempre più concreta della creazione di un forte stato jugoslavo.

Rispetto al sostegno alla questione cecoslovacca e alla conseguente formazione in Italia di unità militari cecoslovacche composte da disertori e prigionieri cechi e slovacchi dell’esercito austro-ungarico, Sonnino avanzò fin dall’inizio una serie di obiezioni tecnicamente fondate: anzitutto, la certezza dell’esecuzione capitale per questi uomini, una volta catturati, in quanto disertori passati al nemico; in secondo luogo la concreta possibilità di ritorsioni sui prigionieri italiani in mano agli austriaci, in quanto l’utilizzo di prigionieri disertori contro l’esercito cui appartenevano era ovviamente contrario ai trattati

169 Caccamo, Francesco, “Die italienische Führungsschicht zwischen der Auflösung des

Habsburgerreichs und der Entstehung der österreichischen Republik” [La classe dirigente italiana tra la dissoluzione dell’Impero asburgico e la nascita della Repubblica austriaca], in Di Michele, Andrea – Gottsmann Andreas – Monzali, Luciano – Ruzicic-Kessler, Karlo (a cura di), Die schwierige Versöhnung [La difficile

riconciliazione], Bolzano, Bu, Press, 2020, p. 25. 170 Ibidem.

171 Archivio Sonnino di Montespertoli, bobina 47, Memorandum s.f e s.d. [redatto tuttavia tra la fine del

1917 e l’inizio del 1918], citato in Caccamo, “La classe dirigente italiana tra la dissoluzione dell’Impero asburgico e la nascita della Repubblica austriaca”, in Di Michele, Andrea – Gottsmann Andreas – Monzali, Luciano – Ruzicic-Kessler, Karlo (a cura di), op. cit., p. 26.

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internazionali. Queste obiezioni furono sempre centrali per Sonnino, mai derogandovi nelle proprie argomentazioni a sostegno dei ripetuti dinieghi circa la creazione di unità cecoslovacche che combattessero sul fronte italiano, armate ed equipaggiate dal nostro esercito, contro l’esercito asburgico. Questo, naturalmente, accanto ai timori strategici relativi alla creazione di un forte stato jugoslavo che avrebbe potuto, come avvenne, rivendicare i territori assegnati all’Italia con il Patto di Londra e, più in generale, costituire una minaccia permanente per i patrii confini. Motivo in più, dal suo punto di vista, per soppesare accuratamente ogni appoggio a movimenti indipendentisti tra le nazionalità dell’Impero. Per queste ragioni la posizione di Sonnino, tutt’altro che monolitica, al contrario di come sovente si sostiene, fu costantemente molto accorta nei confronti di quei movimenti indipendentisti, incluso quello cecoslovacco.

Certamente lo strenuo arroccamento sull’osservanza letterale di tutti i contenuti del Patto di Londra rende evidenti alcuni limiti della visione di Sonnino, limiti legati, secondo chi scrive, più a una concezione anacronistica della sicurezza nazionale piuttosto che a una personale tendenza imperialista.172 Questo, peraltro, in un contesto mutato nel quale a fianco dell’Intesa era sceso in campo il decisivo associato statunitense che a quel patto non era vincolato, patto che inoltre anche senza la Dalmazia avrebbe (come di fatto avvenne) garantito moltissimo all’Italia dal punto di vista territoriale, al netto delle tendenziose narrazioni sulla Vittoria Mutilata. D’altra parte appare evidente che con i suoi timori Sonnino fu fin troppo facile profeta, rispetto al futuro della stabilità continentale, in questo caso dimostrando una capacità di lettura, anche in prospettiva, senz’altro più realistica di coloro i quali caldeggiavano la formazione di una serie di stati la cui composizione etnica conteneva in sé una serie di conflitti insanabili che avrebbero contribuito in maniera decisiva allo scoppio del secondo conflitto mondiale.173 Il nuovo assetto dell’Europa centrale infatti era ben lontano dal rispecchiare tanto gli schietti principi mazziniani quanto i più dubbi e contraddittori principi democratici wilsoniani174 di rispetto delle nazionalità e del loro diritto

172 Una frase può in estrema sintesi descrivere le motivazioni di Sonnino alla base delle rivendicazioni

italiane: “Indipendentemente dalle ragioni etniche noi rivendichiamo per ragioni strategiche un confine di sicurezza di frontiera e di difesa della nostra costa adriatica”. In DDI, Quinta Serie, vol. X, T. Gab. Per corriere 406 del 07/03/1918 di Sonnino a Imperiali, Boni e Paulucci, p. 284.

Nel documento La Legione Cecoslovacca in Italia (pagine 104-184)

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