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È da premettere che la sentenza della Corte Costituzionale n. 383 del 27 novembre 1998175,

175In Foro it., 1999, I, 32, con osservazioni di R. Romboli e con note di E. Castorina, Diritto allo studio e limiti di accesso all'istruzione universitaria (rileggendo l'art. 33, Cost.), ibid., 2476 ss., e

di A. D'Aloia, Riserva di legge e normativa comunitaria nella regolamentazione degli accessi

limitati agli studi universitari: osservazioni a margine di C. cost. n. 383 del 1998, ibid., 2481 ss.;

in Riv. it. dir. pubbl. comun., 1999, 867, con nota di G. Greco, Riserva relativa di legge e criteri

(impliciti) desunti dalla normativa comunitaria: il caso del numero chiuso alla Facoltà di Medicina; in Giorn. dir. amm., 1999, 221, con nota di A. Mari, Riserva di legge aperta e limitazione delle iscrizioni alle Università; in Giur. cost., 1998, 3316, con note di A. D'Atena, Un'autonomia

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con la quale è stata proclamata la legittimità costituzionale del numero chiuso, è fondata su una complessa “intersecazione” dei principi di diritto interno e di quello comunitario. Innanzitutto la Corte, a giustificazione del fatto che gli ordinamenti autonomi delle università coinvolgono i diritti degli utenti, precisa, in merito ai rapporti tra attività e organizzazione, che «organizzazione e diritti sono aspetti speculari della stessa materia,

l'una e gli altri implicandosi e condizionandosi reciprocamente. Non c'è organizzazione che, direttamente o almeno indirettamente, non sia finalizzata a diritti, così come non c'è diritto a prestazione che non condizioni l'organizzazione».

La possibilità riconosciuta alle università dall’art. 33 ultimo comma di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti da leggi dello Stato, prevede la “necessità di leggi dello Stato,

quali limiti dell'autonomia ordinamentale universitaria, vale pertanto sia per l'aspetto organizzativo, sia, a maggior ragione per l'aspetto funzionale che coinvolge i diritti di accesso alle prestazioni”. Sussiste quindi una riserva relativa di legge, che può essere

definita aperta, dal momento in cui “la legge stessa demandi ad atti subordinati le

valutazioni necessarie per la messa in atto concreta delle scelte qualificanti la materia ch’essa stessa ha operato”176.

L'interpretazione177 dell’art.34 è, del resto, confermata e avvalorata dai “principi generali

informatori dell’ordinamento democratico, secondo i quali ogni specie di limite imposto a diritti dei cittadini abbisogna del consenso dell’organo che trae da costoro la propria

sotto tutela ministeriale: il caso dell'Università, e di R. Niro, Numero chiuso all'Università e potere regolamentare del Ministro: morte della riserva di legge o sua trasfigurazione, id., 1999,

1235 ss.; in Giur. it., 1999, 1719, con nota di G. Senatore, Accesso all'Università e numero chiuso:

una nuova pronuncia «di costituzionalità provvisoria»; in Corr. giur., 1999, 554, con nota di V.

Angiolini, Numero chiuso e autonomia universitaria.

176Cfr. Angelo Mari in Riserva di legge aperta – giornale di Diritto amministrativo. 311399. 177Ibidem.

80 diretta investitura” e dall’esigenza che “la valutazione relativa alla convenienza dell’imposizione di uno o di altro limite sia effettuata avendo presente i1 quadro complessivo degli interventi statali nell’economia inserendolo armonicamente in esso, e pertanto debba competere al Parlamento, quale organo da cui emana l’indirizzo politico generale dello Stato”178.

Per questa ragione risulta evidente che è la legge a dover disciplinare il sistema dell’istruzione, nel rispetto dei principi costituzionali in base ai quali “la scuola è aperta a

tutti” e “i capaci e meritevoli anche se privi di mezzi hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”, limitando in questo senso l'autonomia universitaria.

A questo punto la Corte afferma che la norma oggetto del controllo di costituzionalità non attribuisce, come potrebbe sembrare, al Ministro il potere di limitare l'accesso a qualsiasi corso universitario: “se dalla disposizione censurata dovesse necessariamente trarsi, come

sarebbe se si dovesse seguire l’interpretazione prospettata dai giudici remittenti, la volontà del legislatore di istituire un potere ministeriale, svincolato da adeguati criteri di esercizio, di determinare le scuole e i corsi universitari a iscrizioni limitate la violazione della riserva di legge sarebbe palese”.

Secondo i giudici costituzionali, quindi, l’esercizio del potere del ministro non è limitato soltanto in applicazione della riserva di legge relativa, ma anche rispetto all’ordinamento nel suo insieme.

Questa è la ragione per cui, secondo la Corte devono essere tirate in ballo alcune direttive comunitarie, che prevedono che per alcuni corsi sono previsti standards di formazione

minimi179 “a garanzia che i titoli medesimi attestino il possesso effettivo delle conoscenze

178Cfr. Sentenza della Corte Costituzionale n. 4/1962, relativa a diritti di iniziativa economica. 179Antonio D’Aloia, Riserva di legge e normativa comunitaria nella regolamentazione degli

81 necessarie all’esercizio delle attività professionali corrispondenti”. In particolare, è il

riferimento delle norme comunitarie in oggetto alla necessità di percorsi formativi contrassegnati dalla combinazione tra studi teorici ed esperienze pratiche “acquisite (. . .)

in strutture idonee e dotate delle strumentazioni necessarie, sotto gli opportuni controlli”,

ad indurre il giudice delle leggi a ritenere che ciò “implica e presuppone che tra la

disponibilità di strutture e il numero di studenti vi sia un rapporto di congruità, in relazione alle specifiche modalità di apprendimento”.

Come poc’anzi detto, la conclusione a cui arriva la Corte è abbastanza complessa perché prevede il simultaneo coinvolgimento del diritto nazionale e comunitario.

Infatti, i decreti legislativi 27 gennaio 1992 n. 129 e 2 maggio 1994 n. 353, che recepiscono le sopra citate direttive comunitarie, non fanno il minimo cenno al numero chiuso nelle università, ma richiamano gli obiettivi delle direttive cioè “la formulazione prevista dalla

normativa comunitaria” e “l'insieme delle esigenze minime di formazione”.

A questo va ad aggiungersi il fatto che in virtù dell'art. 189 del trattato Cee, nei confronti dell'amministrazione gli obiettivi posti dalle direttive hanno una forza cogente diretta “comportando che i poteri di cui essa sia dotata nelle materie oggetto di direttive, sono da

esercitare secondo gli obblighi di risultato che la normativa comunitaria impone”. Infatti

“le direttive richiedono attuazione da parte del legislatore e dell'amministrazione, secondo

le regole costituzionali che ne configurano i poteri e disciplinano i rapporti”.

Se vi è dunque una riserva relativa di legge “l’esistenza di direttive comunitarie esecutive

comporta che l'obbligo di predisposizione diretta della normativa sostanziale entro la quale deve ridursi la discrezionalità dell'amministrazione viene alleggerendosi, per così

accessi limitati agli studi universitari: osservazioni a margine di Corte cost. 383/98, nella rivista

82 dire, in consistenza e proporzione alla consistenza delle direttive medesime”.

In conclusione, la Corte sostiene che la norma sottoposta a giudizio di costituzionalità è legittima in quanto non attribuisce all'amministrazione un potere svincolato da limiti sostanziali, in quanto nelle direttive comunitarie si rinviene un preciso obbligo di risultato che gli Stati membri sono chiamati a perseguire. I mezzi per raggiungere detti obiettivi sono a scelta del legislatore nazionale, e tra questi può essere collocate il numero chiuso. Dato atto dei contenuti e delle motivazioni contenute nella sentenza, la Corte ha confermato la legittimità del numero chiuso, sostenendo, tuttavia, che “l’intera materia necessita di

un'organica sistemazione legislativa”.