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Il diritto allo studio e le problematiche connesse all'accesso programmato ai corsi di stuio universitari. Il numero chiuso all'Università di Pisa.

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Corso di laurea magistrale in

Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane (LM-59)

Il diritto allo studio e le problematiche connesse

all’accesso programmato ai corsi di studio universitari.

Il numero chiuso all'Università di Pisa.

Candidato: Luigi Rivetti

RELATORE Prof. Saulle Panizza

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Introduzione... 4

CAPITOLO I ... 6

Evoluzione storica del diritto allo studio... 6

1.1 Le origini della competenza dello Stato sul diritto allo studio ... 6

1.2 Il diritto allo studio durante il ventennio fascista ... 12

CAPITOLO II ... 35

L’evoluzione normativa del diritto allo studio e il passaggio delle funzioni dallo Stato alle Regioni ... 35

2.1 Le politiche statali del diritto allo studio dalla Costituzione fino alla prima metà degli anni settanta ... 35

2.2 Il passaggio delle funzioni dallo Stato alle Regioni ... 48

2. 3 L'autonomia universitaria e gli strumenti attuativi del diritto allo studio ... 63

2.3.1 Le borse di studio: requisiti per l’assegnazione e sistema di finanziamento ... 66

2.3.2 Tassa di iscrizione e contributi universitari ... 68

2.3.3 La Tassa regionale per il diritto allo studio universitario ... 69

2.3.4 Servizi abitativi ... 70

2.3.5 Le collaborazioni degli studenti ad attività connesse ai servizi ... 71

CAPITOLO III ... 73

Il diritto allo studio e la programmazione degli accessi ... 73

3.1 La programmazione degli accessi (c.d. numero chiuso) prima della legge 2 agosto 1999, n. 264 ... 73

3.2 La legittimità del numero chiuso: la sentenza della Corte Costituzionale n. 383/1998 ... 78

3.3 La legge 2 agosto 1999, n. 264 ... 82

3.3.1 Accesso programmato nazionale: le procedure di gestione delle prove ... 84

3.4 I sistemi di selezione adottati nei principali paesi europei ... 85

Germania ... 86

Francia ... 87

Regno Unito ... 89

3.5 La migrazione degli studenti di medicina verso paesi stranieri ... 92

3.6 Ammissione in sovrannumero in applicazione di sentenze dei TAR e del Consiglio di Stato ... 96

CAPITOLO IV... 104

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4.1 La programmazione degli accessi a livello nazionale ... 104

4.2 La programmazione degli accessi a livello locale ... 108

4.3 I test di ammissione ai tempi del COVID – 19 ... 111

Bibliografia ... 114

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4 Introduzione

L’obiettivo della tesi è quello di analizzare il processo evolutivo, sia da un punto di vista storico che normativo, del diritto allo studio universitario, anche in riferimento alla programmazione degli accessi ai corsi di studio (c.d. numero chiuso).

Le motivazioni che mi hanno spinto ad approfondire questa tematica sono prevalentemente di natura professionale, in quanto mi occupo sia delle attività connesse alla regolamentazione della contribuzione studentesca dell’Università di Pisa, sia di quelle inerenti alla gestione delle procedure di ammissione ai corsi ad accesso programmato. Il lavoro si articola in quattro capitoli, di cui due dedicati allo studio delle politiche di assistenza dei servizi e degli interventi attivati a favore degli studenti universitari meno abbienti, e due volti a esaminare la relazione tra il diritto allo studio e il numero chiuso, ponendo in particolare l’accento sulla giurisprudenza e sulla dottrina relative alla legittimità costituzionale della disciplina della programmazione degli accessi.

Nel primo capitolo sarà illustrato il graduale intervento dello Stato in materia di diritto allo studio, partendo dalle realtà universitarie medievali, passando dalle riforme apportate durante il ventennio fascista, al quale sarà dedicato un intero paragrafo, per arrivare agli art. 3 e 34 della Costituzione, che costituiscono l’asse portante del diritto all’istruzione. Il secondo sarà dedicato alle politiche statali del diritto allo studio dalla Costituzione fino ai giorni nostri. In questa sezione, saranno passate in rassegna le normative che si sono susseguite nel tempo, a partire da quelle più significative, adottate subito dopo la nascita della carta costituzionale, che prevedono una riduzione dei contributi per gli studenti con famiglie a basso reddito e per coloro che sostengono un certo numero di esami nel corso dell’anno. Sarà poi posto l’accento sul passaggio delle competenze in materia di diritto allo studio dallo Stato alle Regioni, che, pur rappresentando una svolta epocale sull’argomento

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in questione, non ha determinato l’auspicata omogeneità normativa degli interventi messi in atto dalle regioni stesse.

Il capitolo terzo è dedicato alla complessa tematica dell’accesso programmato ai corsi di studio, ed in particolare all’analisi del rapporto tra i principi fondamentali autonomistici degli atenei, riconosciuti con la legge 168/89, e l’art. 34 della Costituzione.

L’obiettivo è quello di analizzare da un punto di vista giurisprudenziale la perenne diatriba tra atenei e giustizia amministrativa sul problema della legittimità del numero chiuso, che, almeno in teoria, avrebbe dovuto concludersi con la sentenza della Corte costituzionale 383/98 e l’approvazione parlamentare della legge 264/99.

Alla fine del capitolo, farò una breve panoramica sui sistemi utilizzati dai principali paesi europei per l’ammissione ai corsi di studio.

Infine, nel capitolo quarto mi soffermerò sull’evoluzione del numero chiuso all’Università di Pisa, e in particolare al numero programmato a livello locale. Sarà altresì svolto un approfondimento di tipo statistico della popolazione studentesca degli iscritti al corso di laurea in Medicina e chirurgia.

Per concludere, verrà fatto un breve cenno alle problematiche organizzative che gli atenei sono stati chiamati ad affrontare quest’anno a causa dell’emergenza pandemica, per la gestione e la somministrazione dei test di ammissione nel rispetto della normativa “anti-covid” (divieto di spostamenti e di assembramenti, rispetto del distanziamento sociale e delle misure igienico sanitarie).

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6 CAPITOLO I

Evoluzione storica del diritto allo studio

1.1 Le origini della competenza dello Stato sul diritto allo studio

Gli interventi in materia di diritto allo studio a favore degli studenti iscritti alle università italiane da parte dei poteri pubblici devono esser fatti risalire a più di un secolo fa.

Per una corretta e adeguata analisi della normativa nazionaleoccorre approfondire le radici

storiche della competenza dello Stato in questo settore.

Mentre sappiamo che già in epoca medioevale l’Università ha rappresentato il fulcro

centrale della cultura e delle organizzazioni istituzionali1, poco riusciamo a ricavare dai

reperti storici in merito al ruolo che ha avuto il sistema di servizi ad essa connessi messi in atto dalle istituzioni accademiche con il supporto dei vari enti operanti attivamente nella società (ecclesiastiche e civili, pubbliche e private).

Ad ogni buon conto, sebbene non si abbia traccia di una disciplina generale2 e organica in

materia di diritto allo studio, sia nel medioevo che nell’età moderna, spesso si hanno riscontri di iniziative, poste in essere sia da parte degli atenei che delle organizzazioni

1R. Rosboch, Il diritto allo studio universitario dalla Costituzione all’epoca delle autonomie, in E. Genta (a cura di), Il diritto allo studio universitario: radici e prospettive, Savignano, 2001, pp. 81-82 “La grande rinascita giuridica e civile del basso medioevo è in gran parte una «conquista» universitaria ed il poderoso impianto del diritto comune (che caratterizzerà l’unità giuridica europea fino alle soglie del XIX secolo) continua ad alimentarsi, anche nell’epoca successiva a quella medievale, nella cultura giuridica universitaria. Tale alta funzione dell’Università affonda le sue radici nel cuore della storia europea, che deve fin dall’epoca medievale molto del suo sviluppo proprio al contributo offerto alla cultura ed alla civiltà degli studi e degli insegnamenti universitari.”

2Che pure non è assente del tutto, ad iniziare dalla celebre costituzione Habita dell’Imperatore Federico I, che riconosce le prime prerogative delle Università e degli studenti. Cfr. Roberto Rosboch, Il diritto allo studio universitario dalla Costituzione all’epoca delle autonomie, op. cit., p. 82.

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locali, volte alla realizzazione di specifici servizi per il soggiorno di studenti “forestieri”3.

Il ruolo della Chiesa cattolica nelle attività di supporto al diritto allo studio, che di fatto avveniva nell’ambito delle mura dei monasteri, fu oggetto di un lento e progressivo ridimensionamento.

Con l’avvento dello Stato moderno si assiste a un processo di accentramento di vari poteri, fino ad allora nelle mani di più soggetti, tra i quali la Chiesa: questo nuovo orientamento riguardò anche il settore dell’istruzione (così come la sicurezza pubblica e il prelievo fiscale), il quale fu uno dei principali settori in cui lo Stato nazionale assunse competenze

sempre più ampie4.

Fino ad allora l’istruzione, così come l’educazione, rappresentava un settore strategico sia per la Chiesa che per lo Stato, dal momento che lo spirito di entrambi è quello di diffondere i rispettivi valori nonché mettere in atto una sorta di controllo sociale.

In Italia, così come peraltro in tutta Europa, si diffusero i principi giurisdizionalisti, in relazione ai quali l’istruzione entrò sempre più a far parte delle competenze statali soprattutto a partire dal secolo XVIII. Vennero attuate riforme della scuola e dell’università finalizzate alla diffusione e all’accentramento statale dell’istruzione.

Nel Granducato di Toscana e nel Ducato di Parma e Piacenza determinarono la creazione di

3Cfr. R. Rosboch, Il diritto allo studio universitario dalla Costituzione all’epoca delle autonomie, op. cit., p. 82 “Esempi di tali iniziative sono –ad esempio- i celebri collegi universitari pavesi in

tal senso furono le attività dei collegi universitari pavesi, da secoli centri propulsori della vita accademica della città”.

4R. Rosboch, Il diritto allo studio universitario dalla Costituzione all’epoca delle autonomie, op. cit., pp. 82-83 “Con il secolo XVIII si consuma un passaggio essenziale (molto evidente –ad

esempio- in Piemonte, meno avanzato in altri campi, ma assai attivo per quanto riguarda l’istruzione universitaria) per le Università, che vedono mutare il loro assetto tradizionalmente slegato dal controllo statale, nonché l’erosione del potere di organismi tradizionali come i collegi universitari e le istituzioni ecclesiastiche”.

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una scuola pubblica e laica.

Le prime riforme universitarie, seppur basilari, in materie di politiche di diritto allo studio furono attuate nel Regno di Sardegna: le Costituzioni per l’Università di Torino emanate nel 1720 e aggiornate nel 1772 rivisitarono l’ordinamento universitario e, in particolare, introdussero specifiche norme di assistenza e supporto per gli studenti universitari. Il “Reale Collegio delle Province”, la cui realizzazione era stata prevista nelle Costituzioni per l’Università di Torino e fondata con le Costituzioni di Sua Maestà del 20 agosto 1729 aveva la funzione di assicurare a cento “giovani poveri, ma forniti di buon ingegno e propensi allo studio” i mezzi necessari per attendere agli studi di Teologia, Giurisprudenza,

Medicina e Chirurgia, Lettere, Filosofia e “Scienze Positive”5, e l’accesso ai posti gratuiti

era subordinato a un selettivo esame di concorso.

Le politiche riformatrici del Settecento avevano sicuramente come obiettivo quello della diffusione della conoscenza, ma intesa come “promozione, attraverso l’utilizzo di opportunità nuove, della cultura privata del singolo […]. Erano prevalenti, ancora, gli

intenti culturali piuttosto che quelli direttamente politici”.6

Nel XIX secolo il concetto di istruzione viene visto sotto tutt’altra lente: si passò dall’essere un mero valore individuale a diritto sociale concretizzabile soltanto con l’intervento

legislativo dello Stato, sempre più a discapito degli interventi e delle iniziative del clero 7.

5Cfr. P. M. Stabile, L’assistenza agli studi universitari a Torino nella prima metà del secolo XX in Il diritto allo studio universitario: radici e prospettive, op.cit., p. 116.

6E. Genta, Presentazione, in Il diritto allo studio universitario: radici e prospettive, op. cit., p. 6. 7F. Colao, La libertà d’insegnamento e l’autonomia nell’università liberale. Norme e progetti per l’istruzione superiore in Italia (1848-1923), Milano, 1995, pp. 9-12 “La sottrazione

dell’‟istruzione superiore alla Chiesa e l’affermazione decisa del monopolio statuale, erano stati i cardini della trama istituzionale e della prassi amministrativa ereditate dal secolo precedente; ed in quello successivo erano percepiti come i segni individuanti di un modello di Università «moderno» perché statuale, contrapposto all’ormai tramontato ideale «corporativo». Già nel Settecento le sensibilità più avvertire del movimento riformatore alludevano a certi motivi destinati ad essere largamente ripresi dalle politiche universitarie ottocentesche”.

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L’idea di un’“istruzione pubblica, comune a tutti i cittadini, gratuita nelle parti

d’insegnamento indispensabili a tutti gli uomini”8 è da considerarsi uno dei capisaldi della

Costituzione francese del 1791: l’accesso alla conoscenza era un valore di diritto di tutti i cittadini da tutelare attraverso lo Stato.

In Italia è soltanto con i regi decreti del 4 ottobre 1848 n. 818 e 819, firmati dall’allora Ministro dell’Istruzione Pubblica Boncompagni, che inizia a modellarsi il futuro sistema scolastico italiano, che comunque riconosce alle scuole un certo grado di autonomia, anche se nell’ambito del controllo ministeriale.

Il pensiero dominante era che “l’istruzione e l’organizzazione del sistema scolastico fossero un compito della società e che allo Stato competessero soltanto funzioni di regolazione e vigilanza”9.

Lo Stato italiano a seguito dell’unità e dell’indipendenza fu protagonista di una significativa trasformazione politico-sociale, il cui obiettivo era quello di attenuare l’elevata percentuale (75%) di analfabetismo della popolazione e il forte divario culturale che si registrava da regione a regione.

Lo Statuto Albertino non dedicava alcuna norma diretta o specifica sull’istruzione, molto

8E. Genta, Presentazione, in Il diritto allo studio universitario: radici e prospettive, op. cit., pp. 6-7 “[Con la Costituzione Francese del 16-791] risalta l’estremo interesse per l’apprendimento scolastico, a cura dello Stato, considerato senza dubbio anche come un indispensabile strumento per fornire ad ogni cittadino la possibilità di accedere alla conoscenza innanzitutto della Legge. È noto che la Rivoluzione, attuando i programmi dell'illuminismo giuridico, innalzando un modello totalmente legicentrico, finiva per proclamare l’essenzialità dell’azione statuale per la concreta tutela dei diritti del cittadino, diventato ormai pienamente consapevole delle finalità collettive dell’associazione politica di cui era partecipe. Qui stava l’elemento discriminante rispetto alle precedenti riforme settecentesche realizzate, un po’ ovunque in Europa, dai sovrani assoluti. […] Il diritto all’istruzione non è più un valore individuale, ipotizzabile al di fuori della tutela e della autorità dello Stato, ma è diventato possibile solo attraverso la progettazione legislativa statuale, che dovrà essere concretizzata per lo scopo ultimo della conquista di una virtù tutta «giacobina».”. 9P. Nigro, La scuola in Italia dalla Legge Casati all’Autonomia Scolastica, Istituto Regionale di Studi sociali e politici Alcide De Gasperi, Bologna.

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probabilmente perché come sostiene Allegretti10 è evidente la difficoltà di “gestire” la

questione culturale e scolastica nel predominio ecclesiastico nei rapporti Stato/Chiesa. Sono queste le motivazioni che portarono il legislatore, tra il 1861 e il 1923, a normare il sistema scolastico e universitario secondo criteri interventisti e con un’impostazione fortemente centralistica.

È comunque da sottolineare che la spinta riformistica del legislatore riguardò principalmente la scuola elementare, attraverso l’innalzamento dell’obbligatorietà degli anni di istruzione. L’università, invece, era ancora caratterizzata da una veste elitaria che aveva come obiettivo primario quello della formazione della classe dirigente. Inoltre, così come è stato

evidenziato da Rosboch11, l’intero sistema universitario, sebbene fosse stato protagonista

di un passaggio delle principali competenze allo Stato, vide “ridimensionato il suo ruolo rispetto al passato, a beneficio di altre istituzioni maggiormente considerate”.

Le Università vennero inserite e considerate come una delle tante amministrazioni dello Stato centrale e come tali regolate.

Le conseguenze dirette di questo tipo di “amministrazione”, incentrata su una significativa riforma organizzativa, che poco interveniva in merito ai servizi per gli studenti universitari, erano quelle di mantenere in vita quelle iniziative preesistenti di origine caritativa o filantropica finalizzate all’assistenza verso gli studenti.

L’intervento dello Stato, come già sopra detto, si fondava essenzialmente su riforme finalizzate a rivedere l’obbligo e l’organizzazione del sistema scolastico, senza, però, adottare politiche di sostentamento economico delle famiglie disagiate.

10AA. VV., Il diritto allo studio nell’Università che cambia, a cura di L. Violini, Milano, 2001, p. 15.

11Roberto Rosboch, Il diritto allo studio universitario dalla Costituzione all’epoca delle autonomie, op. cit., pp.82-83.

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Al fine di incentivare le iniziative volontarie da parte dei cittadini più abbienti furono attivati, con il regio decreto legge del 16 febbraio 1888, n. 5292 “Regolamento unico per

l’istruzione elementare”, i cosiddetti Patronati scolastici. Con la Legge Credaro12, gli

interventi da parte dei citati Patronati divennero obbligatori.

Le misure e gli interventi dello Stato liberale messi in atto ai fini della tutela del diritto allo studio erano generici e deboli: sia in ambito scolastico che universitario l’assistenza economica alle famiglie e agli studi era molto circoscritta.

La legge 8 luglio 1904, n. 407 “Portante provvedimenti per la scuola e pei maestri elementari” (Legge Orlando) riconobbe ai Comuni la possibilità di destinare apposite

somme per azionare le leve di interventi in materia di diritto allo studio 13.

Anche con la Legge Casati (regio decreto legge del 13 novembre 1859, n. 3725 “Sull’ordinamento della pubblica istruzione” del Regno di Sardegna) le norme dedicate all’assistenza verso gli studenti universitari furono pressoché insignificanti.

Soltanto con l’articolo 123 si introdusse una sorta di esonero della tassa di immatricolazione e della retribuzione dei corsi a coloro che dimostravano che la propria situazione economico-familiare non consentiva loro di pagare le tasse.

È da evidenziare la complessità burocratica del riconoscimento degli esoneri: si rendeva necessaria l’adozione di provvedimento accordato dal Ministero di anno in anno, su proposta del Rettore. La dispensa poteva essere ottenuta solo da quegli studenti che si

fossero segnalati per impegno, diligenza e buona condotta.14

12legge 4 giugno 1911, n. 487 “Riguardante provvedimenti per la istruzione elementare e popolare”.

13AA.VV., Il diritto allo studio: dalla riflessione teorica alle problematiche politiche, Roma, 1985, p. 13.

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Così come afferma Atripaldi15 “nella legislazione post-Casati si assistette ad una conferma

di alcuni principi già identificati nella legge Casati”. Il R.D. 26 ottobre 1890, n. 7337 “Regio decreto che approva il regolamento universitario” stabilì l’esonero delle tasse universitarie per studenti che avessero dato buona prova negli studi e che avessero serbato buona condotta, mentre con la legge 28 maggio 1923, n. 224 fu previsto che ai giovani segnalati per valore negli studi e di disagiate condizioni economiche, poteva essere accordata la dispensa per intero o per metà delle tasse o soprattasse.

Fino all’Unità d’Italia le forme di assistenza economica furono molto limitate. Per il riconoscimento di agevolazioni più importanti verso gli studenti universitari si deve attendere le politiche adottate negli anni 20 e 30.

1.2 Il diritto allo studio durante il ventennio fascista

Nel periodo fascista (tra il 1923 e il 1938) si registrarono vasti programmi di riforma, aventi ad oggetto non solo l’intero sistema scolastico, dalla scuola elementare fino ai corsi post-laurea, ma anche tutti i settori della conoscenza, con l’obiettivo di attuare il progetto

totalitario di “fascistizzazione” del mondo della cultura16.

Il Ministro della pubblica istruzione Giovanni Gentile, con il regio decreto 30 settembre 1923, n. 2102 “Disposizioni sull’ordinamento della istruzione superiore”, pose le basi per una significativa ed organica riforma della formazione superiore, che dette origine a

numerosi e sostanziali cambiamenti dell’intero del sistema universitario17.

15ibidem

16P. M. Stabile, op. cit., pp. 113-114.

17P. M. Stabile, pp. 113-114 “Il progetto di Stato totalitario concepito dal fascismo aveva come presupposti fondamentali la progressiva «fascistizzazione» della cultura e della società italiana nonché la massificazione del sistema educativo attraverso l’incremento delle possibilità di accesso di sempre più vasti settori della popolazione all’istruzione superiore. Tale disegno intendeva da un

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Il progetto, in continuità con la tradizione borghese ed elitaria dell’80018, vedeva

nell’università la “fabbrica” della futura classe dirigente e aveva come finalità quella di mettere in atto politiche a tutela del diritto allo studio, che, come poc’anzi detto, erano

caratterizzate da interventi di natura occasionale e disorganica.19

È comunque da rilevare che i requisiti per l’accesso alle agevolazioni per l’esonero dal pagamento delle tasse universitarie erano molto selettivi. La difficile applicazione era anche legata alle poche e confuse disposizioni statali in merito ai servizi che le Opere avrebbero dovuto garantire e i pochi finanziamenti per il diritto allo studio: le azioni messe in campo dal legislatore erano decisamente insufficienti per quanto fossero buone le intenzioni.

Il regio decreto 2102/1923, emanato a seguito della legge delega 3 dicembre 1922, n.1691, e convertito con modifiche in legge 16 giugno 1932, n.812, fu, invero, la prima norma finalizzata alla realizzazione forme effettive di assistenza. La legge istituì due organismi:

lato abbandonare la tradizione borghese di una scuola elitaria ancora incardinata sulla riforma del 1923 e, dall’altro, assicurare alla dittatura il più ampio consenso delle nuove generazioni.

18P. M. Stabile, L’assistenza agli studenti universitari a Torino nella prima metà del secolo XX, op. cit., pp. 19-120. “La riforma organica dell’università attuata con regio decreto 30 settembre

1923, n.2102 («Disposizioni sull’ordinamento della istruzione superiore») dal ministro della pubblica istruzione Giovanni Gentile rappresenta un «eroico anacronismo» essendo ancora caratterizzata dal predominio del modulo umanistico di ricerca che aveva contraddistinto il sistema universitario italiano precedentemente introdotto dalla legge Casati del 13 novembre 1859. L’opzione qualitativo verticistica della riforma Gentile […] ebbe come effetto principale la distinzione tra «Regie università» considerate centri per la formazione d’eccellenza, da un lato e «Regi istituti superiori» nonché «università e istituti superiori liberi» dall’altro (art.1)”.

19Cfr. A. Poggi, Le autonomie funzionali “tra” sussidiarietà verticale e sussidiarietà orizzontale, Milano, 2001, p. 134 “Si tratta di una legislazione che con tutta evidenza esprime il complesso travaglio scaturente dallo sforzo della dottrina di ricondurre entro schemi già noti e rassicuranti una serie di fenomeni che si rivelano difficilmente riconducibili a quegli schemi. La formulazione testuale […] della riforma Gentile costituiva per un verso il vertice della teorizzazione liberale dell’Università come organo dello Stato e per altro verso, il punto di crisi di quella stessa teorizzazione. […] Nei principi introdotti dalla riforma Gentile si bilanciano ragionevolmente le esigenze di mantenere allo Stato il controllo completo della funzione dell’istruzione superiore con il conferimento di una sfera di governo proprio alle Università”.

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le Opere universitarie e le casse scolastiche, le quali, in alcuni casi si affiancarono e/o sostituirono precedenti istituti assistenziali.

Sebbene si sia assistito a numerose modifiche legislative in materia di diritto allo studio, sia precedenti che successive alla approvazione della Costituzione, le Opere rimasero gli strumenti principali di assistenza economica verso gli studenti fino all’approvazione del D.P.R. 616/1977 che trasferirà funzioni, beni e personale delle Opere alle Regioni.

L’articolo 56 del regio decreto 2102/23 affermava che “presso ogni università e istituto superiore è costituita l’Opera dell’università o istituto” allo scopo di promuovere l’assistenza verso gli studenti nelle sue varie forme. Le Opere erano enti pubblici

economici20, amministrate dal Consiglio di Amministrazione dell’università o dell’istituto

superiore con bilancio e gestione distinti e dotate di un regolamento che avrebbe determinato per ogni università le norme sull’organizzazione interna. Alle Opere, sempre secondo l’articolo 56 erano devoluti i proventi della tassa e delle elargizioni di cui all’articolo 58 del citato regio decreto.

Il sostentamento dell’Opera universitaria era garantito dal “complessivo provento delle tasse pagate dai contribuenti provvisti di titolo accademico conferito dall’università o istituto medesimo”. La tassa, di 20 lire per tutti, era dovuta da tutti i cittadini italiani laureati o diplomati iscritti “negli albi degli esercenti una professione o nelle liste elettorali per le camere di commercio e industria” nonché i dipendenti di società commerciali o industriali

20Osservatorio Regionale per il diritto allo studio universitario della Regione Lombardia, La normativa regionale in materia di diritto allo studio universitario: un’analisi comparativa, 2007,

doc. 2, p. 5. Sulla qualificazione giuridica di tali enti cfr. Cassazione, sez. Unite, sent. N. 2175/1981, ai sensi del quale “le opere universitarie, costituite a norma del R.D. 31 agosto 1933, n. 1592 presso le università e gli istituti di istruzione superiore, hanno qualità di enti pubblici non economici, in quanto, inserite nell’ambito dell’amministrazione statale dell’istruzione pubblica, perseguono finalità di ordine generale nel campo dell’assistenza materiale, morale e scolastica degli studenti”. Cfr. altresì, Cass., sez. Unite, sent. N. 5348/1982 e Cass., sez. Unite, sent. N. 2097/1986.

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o che avevano un impiego alle dipendenze di società commerciali e industriali21.

Oltre alle Opere, fu introdotta, secondo l’articolo 55 del regio decreto, per ogni università e istituto superiore, una “cassa scolastica”, la cui finalità era quella di contribuire al pagamento di tasse, sovrattasse e dei “contributi scolastici” di cui all’articolo 54.

La cassa poteva contare sul “10% delle tasse di immatricolazione e di iscrizione e dei

contributi di qualsiasi natura”22 ed era amministrata da un direttorio ed aveva un bilancio e

gestione distinti da quelli dell’università.

I criteri di merito ai quali i regolamenti speciali per le casse scolastiche si sarebbero dovuti uniformare per l’erogazione dei contributi furono indicati nel regio decreto del 6 aprile 1924, n. 674 “Approvazione del Regolamento Generale Universitario” con annesso il regolamento” e si rivelarono particolarmente rigorosi: per l’accesso all’intero assegno sarebbe stata necessaria la media di 9/10 in tutti gli esami dell’anno di corso precedente e non meno di 8/10 per ciascun esame, per l’assegno parziale non meno di 8/10 in ciascun esame. Per quanto concerne i criteri di reddito e dei livelli essenziali delle prestazioni, il Regolamento Generale riconosceva una buona percentuale di libertà al direttorio della cassa. Infatti, l’articolo 55 comma 4 del regio decreto 2102/23 sanciva che l’attribuzione dell’assegno avvenisse eseguita “su giudizio inappellabile del direttorio” della cassa.

L’ articolo 118 affermava, inoltre, che all’interno del bilancio del ministero della pubblica istruzione avrebbe dovuto essere stanziato un fondo per la concessione a laureati o diplomati di “borse di perfezionamento” per gli studi in università o istituti superiori italiani o stranieri.

La riforma Gentile, entrata in vigore con r.d. 30 settembre 1923, n. 2102 e convertito con

21Art. 58 comma 1, regio decreto 2102/23. 22Art. 55, regio decreto 2012/23.

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modifiche in l. 16 giugno 1932, n. 812, intervenne in maniera significativa nella disciplina relativa al funzionamento delle Opere Universitarie e operò una costante opera di trasformazione e perfezionamento negli interventi di supporto economico agli studenti. Le riforme che seguirono il regio decreto legge 28 agosto 1931, n. 1227 “Disposizioni sull’istruzione superiore”, che rappresenta la prima norma sinonimo di cambiamento, furono caratterizzare da importanti interventi delle attività di assistenza per gli iscritti alle Università.

Le modifiche più rilevanti, che si conclusero con il nuovo Regolamento Generale Universitario (regio decreto 4 giugno 1938 n. 1296), riguardano principalmente il rafforzamento dei poteri di coordinamento statale e la sempre più evidente presenza dei funzionari del Partito Nazionale Fascista all’interno degli organi di direzione più importanti. Con il regio decreto legge 28 agosto 1931, n.1227, convertito con modifiche nella legge 16 giugno 1932, n.812 e il regio decreto 5 giugno 1932, n. 1003 si regolamentarono aspetti giuridici inerenti al diritto allo studio e vennero individuate nuovamente le categorie beneficiarie delle esenzioni dal pagamento delle tasse.

Sebbene i suddetti regi decreti andavano nella direzione di una revisione complessiva della materia e degli interventi a favore degli studenti, le finalità delle Opere – così come era già emerso dal regio decreto 2102/23 - continuarono a essere lacunose per quanto concerne la necessità di una disciplina nazionale chiara e vincolante. Infatti, da un lato si lasciò libertà alle Opere locali di decidere quali servizi articolare, dall’altra vennero fondati organismi di vigilanza nazionale nei quali prevalevano i rappresentanti del Partito Nazionale Fascista e dei suoi organismi collaterali con una più che debole rappresentanza del mondo universitario.

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Con il regio decreto legge 1227/31, alle Opere fu assegnata personalità giuridica, ai sensi dell’articolo 55, e si previde che le stesse fossero amministrate da “un direttorio presieduto

dal rettore o direttore dell’università o istituto superiore”23 e che perseguissero una precisa

finalità: “promuovere, attuare e coordinare le varie forme di assistenza materiale, morale e

scolastica nel modo ritenuto più opportuno”24. L’unica disposizione concreta a proposito

dei servizi da realizzare nei singoli atenei riguardò l’organizzazione dell’“ufficio sanitario” per la verifica dello stato di salute degli studenti e la cura di quelli “in condizione disagiata” (Art. 55 comma secondo).

Sempre il medesimo regio decreto fissò una tassa a favore delle Opere di 250 lire per coloro che conseguivano “l’abilitazione professionale” e di 25 lire per tutti gli studenti all’atto di iscrizione a ciascun corso. Così come previsto dall’articolo 56, il ministero dell’educazione nazionale assunse un ruolo particolare sia da un punto di vista dei poteri nel settore del diritto allo studio universitario che delle attività di vigilanza nei confronti delle Opere. I governi, infatti, aveva la facoltà di riformare gli statuti, i regolamenti e gli atti costitutivi delle Opere e delle fondazioni e di modificarne i fini proclamati negli statuti attraverso “decreto reale, su conforme parere del Consiglio di Stato” (art. 57 comma quarto). Furono ridefiniti i requisiti, molto stringenti, per accedere alle agevolazioni in termini di esenzione dal pagamento delle tasse e delle sopratasse. Infatti, l’esenzione totale era riconosciuta a coloro che si trovassero nelle condizioni previste dalle leggi 14 giugno 1928, n. 1312 e 2 luglio 1929, n. 1182 e che avessero sette ovvero dieci o più figli, viventi e a carico, di

23P. M. Stabile, L’assistenza agli studenti universitari a Torino nella prima metà del secolo XX, op. cit., p. 126 “La legge n.812 di conversione del r.d.l. n. 1227 aveva peraltro disposto che le

norme concernenti la costituzione di tale direttorio e il funzionamento delle Opere dovevano essere stabilite dal regolamento generale universitario.”

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nazionalità italiana e che avessero superato “con una media non inferiore ai 7/10 gli esami che costituiscono titolo per l’ammissione all’università o istituto, ovvero gli esami consigliati dalla facoltà o scuola per l’anno precedente, o un numero corrispondente di esami, qualora abbiano seguito un diverso piano di studi, e non siano stati respinti in alcuna prova”.

Il rafforzamento dei poteri di coordinamento nel settore del diritto allo studio venne definito con il regio decreto 5 giugno 1932, n.1003 che istituì, con l’articolo 1, presso il Ministero dell’educazione nazionale un “Comitato centrale per le Opere universitarie” come “organo propulsore e coordinatore delle attività delle Opere stesse” (articolo 2). A detto Comitato erano affidate compiti di vigilanza e di coordinamento delle attività delle Opere nonché la promozione della istituzione delle Case dello Studente.

È importante osservare che il Comitato Centrale, che era presieduto dal Ministro, era composto dal segretario del Partito Nazionale Fascista), il segretario amministrativo dello stesso, il vice segretario dei Gruppi Universitari Fascisti, un rappresentante della Milizia universitaria fascista, il direttore generale dell’istruzione superiore, un rettore di università e un direttore di un istituto superiore designati dal Ministro, due professori appartenenti ai ruoli delle università e istituti d’istruzione superiore designati dallo stesso ministro, un rappresentante del Ministro delle finanze e uno del Ministro delle corporazioni. Il rappresentante della Milizia universitaria era designato dal Comando generale della Milizia.

Nelle more della definizione del T.U. delle leggi sull’istruzione superiore, “il ministero dell’educazione nazionale con circolare del 16 gennaio 1933, n. 61, stabilì che, non potendo i direttori delle Opere universitarie essere ancora costituiti, le medesime dovevano continuare ad essere amministrate dai precedenti Consigli di amministrazione

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dell’università o istituti presso cui esse erano state istituite”25.

I compiti e gli obblighi a cui le Opere dovevano sottostare furono rivisti mediante l’ordinanza allegata alla circolare 26 aprile 1933, n. 6975, la quale, tra l’altro, prevedeva alcune variazioni nella composizione del direttorio, che così come specificato nell’articolo 2 “aveva il dovere di promuovere qualsiasi forma di interessamento e di contribuzione finanziaria da parte di Enti o di privati a favore dell’Opera dell’Università o Istituto”. La medesima ordinanza prevedeva altresì le tipologie di interventi che le Opere avrebbero dovuto mettere in atto:

- utilizzare propri fondi per la costituzione della Casa dello studente;

- accantonare somme di denaro per eventuali invii di studenti bisognosi in stazioni

idroclimatiche;

- concedere assegni per studenti bisognosi che non avevano beneficiato della cassa

scolastica;

- erogare assegni per il pagamento delle tasse agli studenti italiani residenti all’estero;

- riconoscere premi agli studenti per meriti speciali, istituire borse di studio di

scambio con studenti stranieri;

- istituire uffici di propaganda.

A parte i punti precedenti, le Opere avevano comunque facoltà di attivare ulteriori servizi e benefici agli studenti.

Il T.U. delle leggi sull’istruzione superiore, entrato in vigore con il regio decreto 31 agosto 1933, n. 1592 “Approvazione del testo unico delle leggi sull’istruzione superiore” dette una

25Cfr. Pier Maria Stabile, L’assistenza agli studenti universitari a Torino nella prima metà del secolo XX, op. cit., p. 133.

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struttura organica alla normativa sull’istruzione e sull’assistenza universitaria.

Quest’ultima trova collocazione al capo III, il quale è suddiviso in due paragrafi così intitolati: a) “Assegni e borse di studio”;

b) “opere e fondazioni”.

Lo stesso T.U. sancì la nascita dei “direttori” delle Opere universitarie, i quali, uno per università, assunsero le funzioni precedentemente di competenza dei consigli di amministrazione delle università.

Con legge 13 giugno 1935, n. 110026 si dette origine a una nuova riforma dell’ordinamento

universitario, che fu denominata la Riforma De Vecchi (Ministro dell’Educazione Nazionale), che definiva le “Disposizioni per un organico concentramento delle istituzioni destinate ai fini della istruzione superiore”. La suddetta legge fu successivamente perfezionata dal regio decreto 4 giugno 1938 n. 1269 “Approvazione del regolamento degli studenti, i titoli accademici gli esami di stato e l’assistenza scolastica nelle università e negli istituti superiori”. Si tratta di una legge che non cambiò di molto la disciplina precedente sul diritto allo studio universitario e post-universitario, anche se, occorre sottolineare, che furono introdotte importanti modifiche, soprattutto di carattere politico.

26Senato del Regno e della Camera dei deputati (a cura del), La legislazione fascista nella XXIX legislatura 1924-1934 (VII-XVII), vol. II, Roma, s.d., p. 1212 “La riforma dell’ordinamento

universitario attuata dal ministro De Vecchi trova il suo presupposto fondamentale nella legge 13 giugno 1935, n.1100 con la quale si sarebbe dovuto su proposta del ministro per l’educazione nazionale di concerto con quello delle finanze, la soppressione, l’istituzione o la fusione di Facoltà, Scuole e insegnamenti universitari, nonché l’aggregazione di Regi Istituti superiori alle Regie Università e la revisione dei ruoli organici dei posti di professione di ruolo. Fu una riforma orientata all’accentramento organizzativo che determinò un’ampia riduzione dell’autonomia organizzativa e gestionale degli atenei per via delle attribuzioni riconosciute al Ministero dell’educazione nazionale in merito alla nomina delle autorità accademiche e nei meccanismi di reclutamento del personale docente. Venne alterato “quel meccanismo che Gentile aveva voluto severo, controllato, ma efficace e creativo”; G. Ricuperati, Sulla storia recente dell’università

italiana in Annali di Storia delle Università italiane - Volume 5, Bologna, 2001,

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Per meglio comprendere l’influenza del partito fascista nel campo dell’istruzione, giova mettere in particolare risalto l’articolo 98 del T.U., in base al quale potevano partecipare ai concorsi per il conferimento delle borse di studio solo i cittadini italiani iscritti al Partito Nazionale Fascista. Altro articolo che denotava un forte carattere politico è il 105, che ai fini dell’erogazione di “assegni e sussidi a studenti per il pagamento totale o parziale delle tasse, soprattasse e contributi” privilegiava gli studenti appartenenti a famiglie residenti all’estero e studenti italiani appartenenti a famiglie residenti nella Venezia Giulia o nella “Venezia Tridentina”.

Ancora una volta, la disciplina nazionale metteva in secondo piano il riconoscimento di agevolazioni e benefici agli studenti i cui nuclei familiari si trovavano in una situazione economica disagiata.

La riforma fissò nuovamente i criteri per l’attribuzione degli assegni delle casse scolastiche con modalità molto stringenti simili a quelle previste dal regio decreto 6 aprile 1924, n.

67427. Come già nel T.U. 1592/1933, nell’articolo 110 del regio decreto 1269/1938 si

affermava, che “le altre norme per il funzionamento delle opere e degli uffici annessi” sono “contenute nei rispettivi regolamenti speciali” e che l’Opera doveva avere “gestione e

27 L’articolo 96 del regio decreto 4 giugno 1938, n. 1296 prevedeva che “I regolamenti speciali per le Casse scolastiche, da emanarsi ai sensi dell’art. 185 del Testo Unico delle leggi sull’istruzione superiore, debbono uniformarsi alle seguenti norme: a) l’intero assegno può essere concesso a chi abbia riportato la media di nove decimi, e non meno di otto decimi in ogni prova, in tutti gli esami consigliati dalla facoltà per l’anno precedente, o in un numero corrispondete di esami, se abbia seguito un diverso piano di studi; l’assegno parziale può essere concesso a chi abbia conseguito non meno di otto decimi in ciascun esame. Se nell’anno in corso, o in quelli successivi non siano prescritti esami di profitto, l’assegno può essere conservato in base ai risultati dei colloqui che, secondo gli ordinamenti del proprio corso di studi, lo studenti debba sostenere o in base agli attestati di operosità e diligenza che debbono essere rilasciati a tale effetto, dai professori ai cui corsi egli è iscritto; b) nel primo anno l’assegno totale o parziale può essere concesso in base ai punti conseguiti nell’esame che costituisce titolo per l’ammissione all’università o istituto; o, per i laureati o diplomati che si iscrivano per il conseguimento di una nuova laurea o di un nuovo diploma, nell’esame di laurea o diploma, e negli esami dell’ultimo anno di corso, secondo le disposizioni di cui alla lettera a); […] ”.

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bilancio distinti da quelli dell’università” (articolo 109).

Le Opere e le Fondazioni, avente personalità giuridica propria, dovevano avere, ai sensi dell’articolo 112, un proprio statuto contenente il proprio ordinamento e funzionamento approvato con decreto reale.

I vari regi decreti e leggi che sul diritto allo studio universitario si sono susseguiti dagli anni venti e trenta (in particolare i regi decreti 30 settembre 1923, n. 2102 e il regio decreto legge 28 agosto 1931, n.1227) rappresentano un importante quadro normativo all’interno del quale, per la prima volta, il legislatore si “occupa”, a livello nazionale, di diritto allo studio universitario.

In questo scenario assumono particolare rilevanza le fondazioni e le Opere, che furono gli organismi preposti ad azionare le leve per rendere effettivo esercizio del diritto allo studio universitario fino agli anni Settanta-Ottanta.

Sebbene il legislatore avesse affidato un ruolo da protagonista alle Opere, in realtà, così come sostengono alcuni autori, le stesse hanno dato un contributo modesto in materia di interventi per il perseguimento del diritto allo studio.

Le motivazioni di questi scarsi risultati28 sono da ricercare nelle finalità che il legislatore si

era poste: “la riforma Gentile e la successiva legislazione erano fondate su una concezione aristocratica della cultura e sul principio che la scuola dovesse rispettare la gerarchia tra le classi sociali”29.

Secondo quanto detto da Bertoni Jovine30 “l’università doveva essere indirizzata alla

28Sulla scarsa utilità delle Opere cfr. M. Mayer, Diritto allo studio universitario: momento di analisi e di confronto nelle prospettive di uno sviluppo per gli anni ’80, Regione Toscana, p. 25.

Mayer, a cinquant’anni dalla fondazione delle Opere rilevava come “quest’anno, 1983, ricorre il cinquantenario delle Opere senza particolari ricordi, emozioni o commemorazioni”.

29V. Atripaldi, Diritto allo studio, op. cit., p. 115.

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formazione della classe dirigente del Paese ed ecco un sistema di assistenza impostato a dare provvidenze a quelli che, già selezionati tra le classi agiate dovevano essere chiamati al reggimento dello Stato e del partito”.

L’accesso ai benefici avveniva secondo rigorosi criteri di merito e l’assenza di norme che definissero più dettagliatamente l’attività delle Opere non permisero una notevole diffusione

degli strumenti di assistenza degli studenti universitari31.

A tutto questo va ad aggiungersi il fatto che l’autonomia degli enti preposti ad attivare le iniziative attuative del diritto allo studio era spesso corrosa dalla vigilanza del Comitato centrale che operava per conto del Ministero dell’Educazione.

1.3 Il diritto all’istruzione e il diritto allo studio nell’art. 34 della Costituzione

Con l’introduzione dell’art. 34 della Costituzione, emerge in maniera significativa la volontà del legislatore di rendere effettive le agevolazioni e gli interventi in materia di diritto allo studio. Si passa dal concetto di uguaglianza formale (semplice proclama) a quello di uguaglianza sostanziale. Prende avvio l’impegno da parte dello Stato ad attuare una politica livellatrice, finalizzata alla rimozione delle disuguaglianze sociali, anche attraverso l’istruzione, il progresso sociale ed economico e la valorizzazione delle capacità di individuali di ciascun cittadino. Questo nuovo quadro all’interno del quale lo Stato agisce è sancito dall’art.3, che così recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali

davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni

31R. Bin, F. Benelli, Il diritto allo studio universitario: prima e dopo la riforma costituzionale, op. cit., pp. 86-88 “Da un punto di vista sostanziale, i compiti affidati alle Opere universitarie erano

individuati attraverso la specificazione del fine perseguito (promuovere, attuare, ecc. l’assistenza scolastica universitaria), con il solo vincolo dell’istituzione del servizio sanitario ai sensi del terzo comma, del R.D. 1592/1933”.

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24 politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” 32.

32 Cfr. C. Giorgi L’uguaglianza tra diritto e storia italiana. Momenti e figure di un principio costituzionale. L’art. 3 rappresenta la norma costituzionale nella quale si realizzano i presupposti

del costituzionalismo democratico.

Quest’ultimo, infatti, può essere definito come il traguardo finale, ideale e normativo, della lotta per i diritti messa in atto da principi quali l’uguaglianza e la libertà.

Si assiste quindi a un percorso storico che identifica nella Costituzione uno strumento fondamentale che va nella direzione di un cambiamento dei rapporti di base tra la società e lo Stato.

Si fa riferimento a un’evoluzione storica perché ci troviamo di fronte a vere e proprie battaglie che vedono protagonisti soggetti reali e relazioni sociali e politiche, finalizzate all’affermazione dell’“ugual libertà”.

Non a caso, in sede di assemblea costituente emergono in maniera marcata i principi e gli ideali a cui si è ispirata la “Resistenza”.

L’obiettivo dell’articolo è quello di congiungere democrazia formale e democrazia sostanziale (1° e 2° comma).

Così come ebbe modo di sostenere il costituente Lelio Basso, l’art. in questione non soltanto doveva essere «un comando per il legislatore futuro, che» avrebbe dovuto «fare le leggi per rendere effettiva l’uguaglianza» ma, molto di più, doveva introdurre nel cuore dell’ordinamento costituzionale una contraddizione la cui dinamica era destinata a trasformare le strutture della costituzione in senso materiale.

Il principio dell’uguaglianza sostanziale doveva pertanto rappresentare «il tentativo di superare il momento formale e far poggiare il diritto sulla realtà sociale», portando la norma giuridica a contatto con la realtà effettiva.

“L’apporto più cospicuo all’elaborazione del principio costituzionale di uguaglianza proviene comunque dalla componente socialista più avanzata. Sono infatti Basso e Giannini a formulare l’attuale articolo 3, soprattutto in relazione alle novità sostanziali contenute nel secondo comma. Una norma – come affermato da Giannini – che nella sua seconda parte era di carattere programmatico, attestante lo sforzo di porre alla base della nuova Costituzione principi di democrazia sostanziale; norma anticipatrice di un tipo di intervento pubblico allora ancora inesistente; norma che «non c’era in nessuna carta costituzionale, neppure di Stati collettivisti». L’intento è prevalentemente di «affermare un principio di dinamica dell’azione dei poteri pubblici per una società più giusta»19.

Come sostenuto da Basso nella sua Relazione sulle libertà civili presentata in prima sottocommissione nell’estate del ’46, «una norma-principio», chiave di tutte quelle altre norme, contenute nel testo costituzionale (dal lavoro, all’impresa, alla proprietà, ai servizi pubblici)20, la quale infatti sarà loro fondamento, promuovendo l’intervento della Repubblica (Stato e società insieme) nei rapporti economici, in numerose misure correttive delle sperequazioni sociali e realizzatrici dei diritti sociali.”

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Attraverso la carta costituzionale, la Repubblica si assume, quindi, l’onere di erogare ai cittadini gli strumenti per consentire loro, a prescindere dalle proprie possibilità economiche, la piena affermazione della persona.

L’art. 34 della Costituzione afferma che “la scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.

La nozione di “diritto allo studio” non trova un’espressa menzione nella carta

costituzionale33, ma sia nella dottrina che nel linguaggio comune ha assunto un significato

specifico e particolare che la distingue dal più generale diritto all’istruzione.

Quanto enunciato dal secondo e terzo comma dell’art. 34 rappresenta le fondamenta sulle quali poggia il diritto allo studio. Si fa riferimento al superamento degli ostacoli, soprattutto di natura economica, che impediscono agli studenti capaci e meritevoli l’accesso, la prosecuzione e la conclusione degli studi superiori che vanno oltre la scuola dell’obbligo. Per dirla con le parole di Bin e Benelli “l’approvazione di una norma di rango costituzionale in materia di diritto allo studio ha rappresentato una novità importante nella

legislazione italiana, perché [gli] ha riconosciuto piena e primaria importanza34”.

L’articolo va letto in stretta connessione con i principi di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost.,

33V. Atripaldi, Diritto allo studio, op. cit., p. 13. “La formula diritto allo studio, come è noto, non appare nel testo della nostra Costituzione”.

34R. Bin e F. Benelli, Il governo del diritto allo studio universitario nel nuovo ordinamento regionale, op. cit., p. 88 “Tuttavia, così come era facile prevedere, la costituzionalizzazione del

diritto allo studio non ha garantito la sua piena e immediata effettività. Almeno fino al trasferimento delle relative funzioni a favore delle Regioni avvenuto negli anni ‟70, la previsione costituzionale non ha trovato significativo seguito normativo eccezion fatta che per l’istituzione dell’assegno di studio, avvenuta nel 1963”.

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e di uguaglianza formale e sostanziale, di cui all’art. 3 Cost. Questo combinato disposto, ci consente di poter affermare che il diritto allo studio costituisce un vero e proprio diritto sociale35.

Esso può essere considerato come un diritto sociale costituzionalmente garantito36, un

diritto soggettivo37 rivolto solo ad una determinata categoria di persone e una

manifestazione del principio di eguaglianza38 di cui all’art. 3., secondo il quale è “compito

della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

Il diritto allo studio è quindi strettamente connesso ai principi di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., in quanto strumento per garantire i diritti inviolabili dell’uomo “nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (art. 2), e di sviluppo individuale, che si può pienamente raggiungere solo attraverso la rimozione dei disagi e delle difficoltà economico-familiari degli studenti. Esso rappresenta un preciso dovere della comunità: garantire a tutti i capaci e meritevoli uguali punti di partenza.

35V., per tutti, A. BALDASSARRE, Diritti sociali, in Enc. giur., Roma, XII, 1989, 24-25.

36Cfr. F. Paolozzi, Il diritto allo studio universitario e il riparto costituzionale delle competenze in Le Istituzioni del Federalismo, Santarcangelo di Romagna, supplemento al n. 3, 2007; R. Bin e F. Benelli, Il governo del diritto allo studio universitario, op. cit., pp. 85-88; M. Rosboch, Il diritto allo studio universitario dalla Costituzione all’epoca delle autonomie, op. cit., p. 80.

37Cfr. F. Paolozzi, Il diritto allo studio universitario e il riparto costituzionale delle competenze, op. cit., pp. 7-9; P. Barile, E. Chieli, S. Grassi, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1998, p. 699 contestano che, in riferimento allo studio si possa parlare di vero e proprio diritto, rilevando che “si tratta di un’espressione impropria, perché la limitazione di fatto è tale che queste provvidenze non possono essere destinate altro che a una parte degli interessati”. Di parere opposto R. Bin, F. Benelli, Il governo del diritto allo studio universitario, op. cit., p. 85 che sostengono che “non sembra che la critica possa essere condivisa, perché si fonda sull’equivoco di sovrapporre la qualificazione giuridica di una determinata pretesa e l’effettività degli strumenti apprestati per soddisfarla”.

38Cfr. R. Bin, F. Benelli, Il governo del diritto allo studio universitario nel nuovo ordinamento regionale, op. cit, pp. 85-88; V. Atripaldi, Diritto allo studio, op. cit., pp. 50-55.

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Ma non solo, è infatti evidente anche la correlazione con:

- l’art. 9 Cost., che prevede l’“impegno” da parte della Repubblica di promuovere lo

sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica;

- l’art. 33, comma secondo, Cost., che prevede che la Repubblica istituisca istituire

scuole statali per tutti gli ordini e i gradi.

Questa duplice garanzia di riconoscimento di diritti, sancito dagli artt. 33 e 34 della nostra

Carta fondamentale, dà origine a un diritto - dovere all’istruzione39.

Dalle premesse sopra accennate, si può affermare che «diritto allo studio» significa40:

- in primo luogo libertà di studiare, cioè possibilità del singolo di impegnarsi per

acquisire conoscenze e attitudini, secondo le proprie preferenze;

- in secondo luogo - in uno Stato che, come il nostro, mira a consentire a tutti, in

condizioni di pari opportunità, il pieno sviluppo della personalità (art. 3, comma secondo, Cost.) - diritto ad ottenere dai poteri pubblici, nel rispetto delle condizioni e dei requisiti stabiliti dalla Costituzione stessa e dalla legge, le prestazioni

necessarie affinché l’attività di studio possa svolgersi in maniera proficua41.

39A livello normativo, dottrinale e giurisprudenziale le espressioni diritto all’istruzione‖ e diritto allo studio sono talora accostate (con una delle due vista frequentemente come un accrescimento terminologico dell’altra), talaltra differenziate: nel secondo caso, si tende spesso a configurare il diritto allo studio come assistenza scolastica (rectius: come possibilità di usufruire delle forme di sostegno previste in tale ambito). Sul punto v., criticamente, V. ATRIPALDI, Il diritto allo studio, Napoli, 1974, 13 ss.; F. BRUNO, Prime considerazioni sui soggetti attivi del diritto allo studio, in AA.VV., Aspetti e tendenze del diritto costituzionale. Scritti in onore di Costantino Mortati, Milano, 1977, 3, 172 ss.; S. MASTROPASQUA, Cultura e scuola nel sistema costituzionale

italiano, Milano, 1980, 128 ss.

40Cfr. M. MAZZIOTTI DI CELSO, Studio (diritto allo), in Enc. giur., Roma, XXXV, 1993, 5; E. DE MARCO, Diritto allo studio, libertà di insegnamento e di ricerca, in AA.VV. (a cura di E. DE MARCO), La pubblica istruzione, vol. XXXIX del Trattato di diritto amministrativo (diretto da L. SANTANIELLO), Padova, 2007, 44-45.

41Si è sostenuto in dottrina che il diritto allo studio implichi anche il diritto di partecipare alla «comunità scolastica» e di contribuire a determinare l’organizzazione degli studi (V. ATRIPALDI, op. cit., 30; contra M. MAZZIOTTI DI CELSO, op. cit., 5).

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La facoltà del singolo di studiare, quindi, è un diritto personale e solo indirettamente funzionale all’effettiva partecipazione alla vita del Paese ed allo sviluppo economico e sociale dello Stato.

Ma il diritto di ottenere i mezzi per studiare è garantito soltanto a persone idonee a, e motivate, frequentare quelli che la stessa Costituzione definisce come “i gradi più alti degli

studi”42. Dalla lettura sistematica del secondo comma si ricava che tale disposizione “non

stabilisce affatto un obbligo assoluto rispetto alla generalità dei cittadini, ma, inteso in connessione con il successivo terzo comma, prevede un diritto dei capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi, diritto che la Repubblica rende effettivo con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso43”.

Infatti, il principio non implica il diritto di tutti a conseguire i più alti titoli di studio44, bensì

l’intervento dello Stato e degli altri enti pubblici diretto ad eliminare quei fattori che impediscono il compimento degli studi, diversi dalla mancanza di capacità ed attitudini personali.

In proposito, è stato affermato che proprio nell’art.34 “si manifesta nella sua pienezza la concezione aristocratica della scuola propria dei costituenti, che li spinse a costituzionalizzare un criterio di selezione meritocratico e a conferire all’art. 34 un valore

spiccatamente programmatico”45.

Peraltro, è controverso se il diritto sia proprio dei capaci e meritevoli solo in quanto privi di

42M. MAZZIOTTI DI CELSO, op. cit., 1. 43Corte cost., sent. n. 125/1975.

44 In questo senso MASTROPASQUA, Cultura e scuola cit., p.122.

45 MURA, in Commentario alla Costituzione a cura di G. Branca, Bo-Roma 1976, sub art.34, p.253-254.

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mezzi: a favore di questa tesi, si è osservato che “per coloro che dispongono di mezzi propri il diritto è già effettivo, sulla base soltanto delle norme che disciplinano il libero accesso alle

scuole, e senza bisogno che la Repubblica intervenga con provvidenze particolari”46.

E’ comunque da rilevare che il comma terzo dell’art. 34 prevede invece un concetto opposto:

infatti, non è usata l’espressione “purché privi di mezzi”, bensì “anche se privi di mezzi”47 .

Se ne ricava, dunque, che, senza dubbio, i costituenti hanno tenuto particolarmente in considerazione gli studenti bisognosi, come dimostra l’ultimo comma dell’articolo in questione, ove ha esplicitamente indicato al legislatore ordinario i mezzi per rendere effettivo il diritto ai più alti gradi dello studio; ma anche che quest’ultimo è proprio di tutti i “capaci e meritevoli”, e solo di essi.

Ma il merito e capacità sono entrambi da valutarsi in relazione al profitto, altrimenti sulla base del concetto di meritevolezza sarebbero possibili discriminazioni latamente discrezionali incompatibili con uno stato democratico.

Il profitto necessario per essere considerati capaci e meritevoli non può che essere quello della sufficienza nell'ambito del curriculum di studi prescelto, pena la violazione del principio di

uguaglianza.48

In buona sostanza, si tratta del riconoscimento di un diritto legato alla capacità e al merito. Infatti, già in seno ai dibattiti dell’Assemblea Costituente emerse che “la capacità non è sufficiente a giustificare il diritto all’istruzione se non è accompagnata dal profitto, cioè

dal lavoro e dall’impegno scolastico”49.

46 POTOTSCHNIG, cit., p.108.

47 Così anche MASTROPASQUA, op. cit., p.135.

48 Così Giulia Milo in “Diritto all’istruzione universitario e limitazione degli accessi” – Rivista trimestrale di diritto pubblico, fasc.1, 2000, pag. 181.

49Così Concetto Marchesi, le cui parole sono riportate da G. LIMITI, La scuola nella Costituzione, in AA.VV., Studi per il XX anniversario dell’Assemblea Costituente, Firenze, 1969, III, 90; cfr.

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Così “principio concorsuale e meritocrazia governano il sistema dell’istruzione superiore”, mentre l’“universalismo governa il sistema dell’istruzione inferiore”, che è obbligatoria e gratuita.

Sulla natura del diritto allo studio, peraltro, spesso, la dottrina viaggia su binari divergenti: si tratta di un vero e proprio diritto soggettivo o di un interesse legittimo o addirittura un interesse semplice senza specifica tutela giuridica?

Il comma terzo dell’art. 34, che fa riferimento in maniera espressa a un diritto (e non di tutti, ma solo dei capaci e meritevoli), costituisce per alcuni un impegno meramente programmatico per la futura legislazione dello Stato e delle Regioni, mentre, per altri, un diritto al godimento delle prestazioni amministrative che si concretizza in diritto

all’istruzione sussisterebbe solo quando fosse istituito il relativo servizio50. È evidente che

considerare l’art. 34 Cost. come una semplice fruizione dei “servizi” amministrativi sarebbe molto riduttivo, in quanto, alla fine, saremmo costretti a concludere che l’art. 34 Cost. non ha fatto altro che ribadire un concetto storicamente consolidato: accesso alle scuole da parte di tutti51.

anche S. DE SIMONE, Sistema del diritto scolastico italiano, Milano, 1973, 365. «I poveri capaci e meritevoli vanno, perciò, trattati diversamente dai ricchi capaci e meritevoli, mentre i poveri non capaci e meritevoli vanno trattati come i ricchi non capaci e meritevoli» (come sintetizza, icasticamente, A. POGGI, Il diritto allo studio fra Stato, Regioni e autonomie nel dettato costituzionale e nell’evoluzione normativa, in AA.VV. (a cura di L. VIOLINI), Il diritto allo studio nell’università che cambia, Atti del convegno per il decennale della Fondazione Ceur, Milano, 2002, 56).

50N. DANIELE, Nota sul diritto alle prestazioni scolastiche e sul diritto di scelta della scuola, in Riv. giur. scuola, 1964, 639 ss.; S. CASSESE – A. MURA, Artt. 33-34, in AA.VV. (a cura di G.

BRANCA), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1976, 253-54; A. ROCCELLA, Il

diritto all’istruzione nell’ordinamento italiano, in Il Politico, 1990, 473-74; N. DANIELE, Natura del diritto all’istruzione, in AA.VV., Commentario di legislazione amministrativa. La pubblica istruzione, Milano, 2001, 776 ss.

51U. POTOTSCHNIG, Istruzione (diritto alla), in Enc. dir., Milano, XXIII, 1973, 98; A. POGGI, Art. 34, in AA.VV. (a cura di R. BIFULCO – A. CELOTTO – M. OLIVETTI), Commentario alla Costituzione, cit., I, 704.

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In realtà, la volontà dei Costituenti era quella di comprendere non solo la facoltà di iscrizione alle scuole, ma anche e soprattutto la possibilità di ognuno di ricevere “un’adeguata istruzione ed educazione per la formazione della personalità e l’assolvimento dei compiti sociali”52: e si voleva che tale diritto fosse riconosciuto ad ogni cittadino

“senz’altra condizione che quella dell’attitudine e del profitto”, in superamento dei limiti derivanti dalla sua appartenenza “ad un determinato ambiente sociale o ad una particolare

condizione economica”53.

Quindi, in buona sostanza, possiamo dire che il diritto all’istruzione corrisponde alla struttura tipica dei diritti sociali condizionati o finanziariamente condizionati, sebbene siamo garantiti dalla Costituzione, implicano che i vantaggi da esso derivanti possano concretizzarsi soltanto con l’intervento da parte dei poteri pubblici mediante l’erogazione

di mezzi indispensabili per l’erogazione del relativo servizio54.

Quindi, è lecito affermare che la Costituzione attribuisce un interesse giuridicamente protetto, qualificabile come vero e proprio diritto soggettivo, non solo all’accesso al servizio scolastico (trattandosi di un servizio pubblico per il quale l’ordinamento non

ammette discriminazioni)55, ma anche a ricevere l’istruzione necessaria e i mezzi per

52Così Aldo Moro, citato da G. LIMITI, op. cit., 93. Tale concezione è ribadita e sviluppata da una parte significativa della dottrina (cfr. per tutti V. ATRIPALDI, op. cit., 189 ss.), mentre, per altri, della prestazione di un’istruzione adeguata alla formazione della personalità individuale può parlarsi solo come finalità a cui deve ispirarsi il sistema scolastico, ma non come oggetto di un vero e proprio diritto soggettivo (M. MAZZIOTTI DI CELSO, op. cit., 5).

53V. ancora Aldo Moro, in G. LIMITI, op. cit., 115.

54V., per tutti, R. MORZENTI PELLEGRINI, Istruzione e formazione nella nuova amministrazione decentrata della Repubblica, Milano, 2004, 37; in giurisprudenza v. Corte cost.,

sent. n. 7 del 1967, per cui l’art. 34, co. 2°, ha natura precettiva, pur necessitando per la concreta esplicazione di norme di attuazione.

55Come precisato dalla Corte costituzionale già nella sentenza n. 7 del 1967, cit.: è, quindi, pacifico che il diritto all’iscrizione alla scuola dell’obbligo sia immediatamente e pienamente azionabile in giudizio, mentre quello all’iscrizione alla scuola secondaria superiore, pur condizionato, è comunque effettivo e, ove negato, può comportare il promovimento di una questione di legittimità costituzionale in via incidentale per verificare l’idoneità delle misure legislative concretamente

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