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EIDELBERGERA
KADEMIE DERW
ISSENSCHAFTEN/ U
NIVERSITÄTT
ÜBINGEN)
La tragedia euripidea intitolata Edipo (Οἰδίπους), oggi frammentaria (frr. 539a‑557 K.[annicht]), è decisamente meno nota dei due drammi sofoclei, entrambi conservati, dedicati a questo personaggio, l’Edipo Re e l’Edipo a
Colono. Data la quantità – ridotta – e la natura – spesso gnomica – dei frammenti superstiti, plot, cast ed action dell’Edipo euripideo restano ancora ignoti o incerti per larghi tratti. Tra le originali svolte impresse da Euripide ad una materia mitica che aveva già ai sui tempi un’imponente tradizione letteraria (soprattutto tragica)1paiono potersi annoverare con sufficiente
confidenza almeno il rilievo dato alla Sfinge (con il suo indovinello) e a Giocasta, quest’ultima presentata come fedele ad Edipo anche dopo la scoperta del suo essere assassino di Laio, se non addirittura dopo la rivelazione dell’incesto2.
Il presente contributo non intende aggiungere una nuova proposta di ricostruzione dell’Edipo euripideo a quelle, parziali o globali, già esisten ‑
* Lo spunto originario per questo contributo è sorto nel corso delle ricerche sui testi dei due riceventi tardo‑antichi del mito di Edipo menzionati in queste pagine – la
Cronacadi Giovanni Malala e la Teosofia di Tubinga – che conduco presso la Accademia delle Scienze di Heidelberg e l’Università di Tubinga con i professori Mischa Meier ed Irmgard Männlein‑Robert, che desidero ringraziare in questa sede per la loro guida in questi anni. Ringrazio, inoltre, gli organizzatori del convegno di cui qui si raccolgono gli Atti, in particolare il dott. Luca Austa, per l’invito e l’ospitalità a Torino. La citazione e discussione della – altrimenti sterminata – bibliografia su Edipo sarà necessariamente selettiva. Le traduzioni dei passi greci citati sono mie.
1Panoramiche ad es. in MARCH1987, 121‑154; GANTZ1993, 492‑502; EDMUNDS2006,
11‑55; FINGLASS2018, 13‑40.
2Svariati frammenti superstiti paiono essere riconducibili alla Sfinge o a Giocasta,
il che concorda con la preminenza data a queste due figure nel brevissimo sunto dell’E ‑
dipo euripideo presente nella Cronaca di Giovanni Malala: Ioh. Mal. Chronographia II 17 (p. 38, 3‑5 Thurn) ὁ γὰρ σοφώτατος Εὐριπίδης ποιητικῶς ἐξέθετο δρᾶμα περὶ τοῦ Οἰδίποδος καὶ τῆς Ἰοκάστης καὶ τῆς Σφίγγος. Per l’Edipo euripideo in Malala vd. COLLARD2005, 59; D’ALFONSO2006, 25‑31; per il trattamento razionalizzante riservato al mito di Edipo nella Chronographia vd. REINERT1981, 341‑344, 396‑403.
ti3quanto concentrarsi su un singolo frammento scientificamente ‘giovane’
e dunque ancora da valutare in tutte le sue implicazioni, il fr. 554a K. Nelle prime due sezioni dell’articolo si analizzeranno testo, testimoni e retroterra cultuale nonché culturale dei quattro trimetri che costituiscono il brano. La terza sezione si concentrerà sulla dimensione inter‑ ed intra‑drammatica di questi versi, con riferimento prima (in § 3.1) ai motivi collegati del rifugio in luogo sacro, della supplica e dell’esilio nell’Edipo a Colono di Sofocle e poi (in § 3.2) all’ipotesi di un possibile scioglimento ateniese dell’Edipo euripideo. La quarta sezione trarrà qualche breve conclusione.
1. Testo e testimoni
A livello di testo, il frammento 554a K. è privo di particolari problemi o incertezze4e recita concordemente in tutte le edizioni moderne correnti5:
ἐγὼ γὰρ ὅστις μὴ δίκαιος ὢν ἀνὴρ βωμὸν προσίζει, τὸν νόμον χαίρειν ἐῶν πρὸς τὴν δίκην ἄγοιμ’ ἂν οὐ τρέσας θεούς· κακὸν γὰρ ἄνδρα χρὴ κακῶς πάσχειν ἀεί.
Ed io – chiunque sia l’uomo che non essendo giusto viene a sedersi presso l’altare – lasciando perdere la legge lo condurrei a giudizio senza temere gli dei;
è infatti necessario che un uomo malvagio sempre soffra malamente.
In conseguenza del suo complesso percorso di trasmissione, questo frammento non appartiene al nucleo dei disiecta membra dell’Edipo da
3Oltre alle prime ipotesi ricostruttive di Welcker, Hartung, Robert e Séchan (vd.
infran. 8) vd. più di recente (fa da spartiacque, nel 1962, la pubblicazione a cura di Eric Turner di P.Oxy. 2459, latore dei frr. 540, 540a e 540b K.) VAIO1964; WEBSTER1967, 241‑
246; DINGEL1970; DIGREGORIO1980; AÉLION1986, 42‑61; HOSE1990; GANTZ1993, 499‑500; HUYS1997, 17‑18; VANLOOYin JOUAN/VANLOOY20022, 436‑444; COLLARDin
COLLARD/CROPP/GIBERT2004, 105‑132; COLLARD2005, 57‑62; EDMUNDS2006, 41‑43; COLLARD/CROPP 2008, 2‑7; LIAPIS 2014 (con la tesi estrema che l’Edipo rifugga da
sempre ad ogni ricostruzione coerente poiché molti dei frammenti gnomici assegnativi sono in realtà spuri, provenienti da un tardo esercizio retorico); FINGLASS2017 (per ‑ suasiva confutazione di Liapis).
4Vd. infra n. 16 per πρὸς τὴν δίκην ed a testo per una varia lectio al v. 4.
5 AUSTIN 1968, 64 (fr. 98); VAN LOOY in JOUAN/VAN LOOY 20022, 457 (fr. 15);
KANNICHT2004, 581; COLLARDin COLLARD/CROPP/GIBERT2004, 122; COLLARD/CROPP
sempre noti6. I quattro versi che lo compongono sono tràditi, insieme e nella
sequenza sopra stampata, da Giovanni Stobeo nel quarto libro dell’Antho ‑
logion nella sezione περὶ ἀρχῆς καὶ περὶ τοῦ ὀποῖον χρὴ εἶναι τὸν ἄρχοντα, «Sul governo e su come debba essere il governante» (Stob. 4, 5, 11 = 4, 199, 13‑17 Hense); essi sono là accompagnati dal solo nome d’autore, Εὐριπίδου, non anche dal titolo del dramma. Per questa ragione, nelle ottocen tesche edizioni di riferimento (quelle di August Nauck) questi quat ‑ tro trimetri compaiono tra i fragmenta incertae sedis di Euripide, ri spet ti vamente come fr. 1036 nell’edizione del 1856 e come fr. 1049 nella rie dizione del 18897. Di conseguenza, essi restarono esclusi dalle
pionieristiche ricostru zioni otto‑ e primonovecentesche della trama dell’Edipo8. Chiarezza sul loro dramma di provenienza, per la verità, fu fatta
nello stesso 1889, senza tuttavia che Nauck, parrebbe, ne avesse notizia in tempo utile. In quell’anno, Karl Buresch pubblicava in sede abbastanza nascosta (in appendice alla sua Habilitationsschrift sull’oracolo apollineo di Claro) sotto il titolo Χρησμοὶ τῶν Ἑλληνικῶν θεῶν (Oracoli degli dei greci) un breve escerto bizantino di un’opera cristiana tardoantica in lingua greca intitolata Θεοσοφία (Teosofia)9. In sintesi, questa Teosofia era, nella sua
versione originale oggi perduta, una raccolta in quattro libri comprendente oracoli degli dei del pantheon greco, esametri orfici, vaticini sibillini, motti ed aneddoti sapienziali di e su saggi pagani allestita dal suo autore – un per noi anonimo teologo cristiano con tutta probabilità di origine orientale attivo intorno al 500 d.C. – con lo scopo di dimostrare che anche divinità ed autori della grecità pagana avevano avuto nozione ante litteram della Verità cristiana10. Ebbene, nell’escerto bizantino di questa Teosofia pubbli ‑
6Noti cioè da quando si cominciò a collezionare i resti dei drammi classici perduti,
nel Tardo Rinascimento. La prima raccolta di frammenti drammatici greci mai allestita fu quella, rimasta inedita, di Theodorus (Dirk) Canter (1545‑1616), fratello minore dell’editore eschileo Willem Canter (1542‑1575), vd. COLLARD1995, 243‑251; GRUYS
1981, 277‑309.
7NAUCK1856, 538; NAUCK 1889, 683, entrambe le edizioni con testo identico a
quello stampato qui sopra.
8WELCKER1839, 537‑553; HARTUNG1843, 244‑254; ROBERT1915, 305‑331; SÉCHAN
1926, 434‑441, tutti (tranne Hartung) con rimando alla bibliografia precedente.
9BURESCH1889, 89‑126.
10Su problemi autoriali e presupposti teologico‑culturali della Teosofia così come
sul complesso processo di tradizione che ha portato alla sopravvivenza di copia dell’escerto bizantino nel manoscritto tardo‑rinascimentale e miscellaneo di Tubinga vd. almeno BEATRICE2001, xi‑lviii (che propone come autore della Teosofia Severo di Antiochia) e le introduzioni alle due recentissime traduzioni commentate della Teosofia
cato da Buresch, comunemente noto oggi con il nome di Teosofia di Tubinga dal luogo di conservazione dell’unico testimone manoscritto (Tubingensis Mb 27), compare nella sezione finale dedicata a motti ed aneddoti di autori pagani il quarto ed ultimo verso del frammento euripideo in esame, con la preziosa attribuzione all’Edipo11:
§ 86. Ὅτι Εὐριπίδης ἐν Οἰδίποδι τῷ δράματί αὐτοῦ φησι· κακὸν <γὰρ> ἄνδρα χρὴ κακῶς πράσσειν ἀεί
§ 86. Euripide nell’Edipo, il (suo?) dramma, dice:
«È infatti necessario che un uomo malvagio sempre sia a mal partito ».
È in teoria ipotizzabile che l’originale Teosofia tramandasse il passo dell’Edipo nella versione longior di Stobeo (o addirittura con versi in più), e che sia stato l’escerto, la Teosofia di Tubinga, a ritagliare dalla citazione della
Vorlageil solo trimetro finale. Mi pare tuttavia più probabile pensare che già la stessa Teosofia, in dipendenza da una raccolta di sentenze precedenti (simile a quella di Stobeo?), contenesse il solo verso κακὸν γὰρ ἄνδρα κτλ.: è infatti la forma breve, monolineare della citazione, con il suo tono di massima moraleggiante ‘universale’ («il malvagio deve avere vita grama»), ad essere più facilmente sfruttabile anche in un orizzonte cristiano. La parte del frammento concernente la supplica all’altare, cioè i vv. 1‑3, riguarda un’usanza specifica della religione politeista greca ed era forse meno rilevante per l’impianto ‘comparatistico‑sinfonico’ della Teosofia. Inoltre, tutti i passi poetici sentenziosi di autori classici citati nella sezione finale della Teosofia di Tubinga (§§ 86‑91 Erbse: Euripide, [Pseu do‑]Menandro, Antistene e Timone di Fliunte) sono mono‑ o, al massimo, bilineari; pare di cogliere qui ancora la coerente facies del modello, la Teosofia tardoantica, piuttosto che il risultato dell’opera di riduzione bizantina12. In maniera
analoga, il frammento 554a K. si ridurrà dai quattro versi stobeani alla sola massima finale nel passaggio a tarde collezioni di proverbi13.
11Testo del passo della Teosofia di Tubinga secondo ERBSE1995, 55; vd. anche ERBSE
1941, 201; BEATRICE2001, 36 (Theos. II, 26). Sia Erbse sia Beatrice ritengono sospetto il pronome αὐτοῦ (αὑτοῦ?). È anche pensabile che sia l’intero nesso τῷ δράματί αὐτοῦ glossa esplicativa da espungere, entrata secondariamente nel testo in coda al titolo Οἰδίπους («nell’Edipo, [il suo dramma]»): il complemento ἐν Οἰδίποδι è già sufficiente alla localizzazione della citazione.
12Altrimenti detto, sarebbe una rimarchevole coincidenza se il risultato del processo
di riduzione fosse, in ogni caso, una citazione mono‑ o bilineare. Sul finale della Teosofia
di Tubinga(§§ 84‑91 Erbse), che fa seguire detti di autori greci pagani alla sezione sibillina (§§ 75‑83 Erbse), e sulla sua posizione nella Teosofia vd. CARRARAc.d.s.
Qualunque fossero le dimensioni originarie della citazione, la comparsa del trimetro κακὸν γὰρ ἄνδρα κτλ. con il titolo ἐν Οἰδίποδι nella Teosofia
di Tubingapermette l’assegnazione definitiva dell’intero frammento incertae
sedisstobeano all’Edipo euripideo. Tale fatto, pur già notato da Buresch14,
ha acquisito piena cittadinanza negli studi solo a seguito dell’edizione critica della Teosofia di Tubinga di Hartmut Erbse nel 1941, e anche da allora con lentezza. Il primo studioso di frammenti drammatici a divulgare la testimonianza della Teosofia di Tubinga e a rinumerare di conseguenza il brano come fr. 554a fu Bruno Snell nel suo Supplementum all’editio secunda di Nauck, nel 196415. Non sorprende quindi che al silenzio (obbligato) delle
più antiche ricostruzioni dell’Edipo sul frammento risponda oggi un certo interesse della critica per esso, che va dalla scoperta (con tutti gli azzardi e le speculazioni del caso) delle sue ancora inesplorate potenzialità semantiche e drammaturgiche al suo rifiuto come spurium16.
Il secondo dato nuovo, di molto minor momento, fornito dalla Teosofia di
Tubingain relazione al fr. 554a K. è la variante testuale per il verbo del v. 4: laddove tutti i manoscritti di Stobeo leggono πάσχειν («è infatti necessario che un uomo malvagio sempre soffra malamente»), la Teosofia di Tubinga tramanda πράσσειν («è infatti necessario che un uomo malvagio sempre sia a mal partito»). La differenza di significato è lieve17, ed entrambi i nessi sono
13Cf. Mantissa Proverbiorum 1, 83 = CPG II, 757, 3 Leutsch (da Stobeo, con πάσχειν
nel testo).
14BURESCH1889, 124‑125.
15SNELL1964, 10. NESTLE1901, 120 ed ancora SOLMSEN1975, 75 citano il frammento
come nr. 1049 incertae sedis, vd. infra n. 76.
16Così LIAPIS2014, 354 nel quadro della sua tesi generale per cui vd. supra n. 3. Per
l’argomento contenutistico di Liapis, vd. infra § 3.2. La sua obiezione linguistica (vd. anche le sue pp. 334, 343) si appunta sull’articolo determinativo in πρὸς τὴν δίκην (ἄγοιμ’): idiomatico è, a suo parere, πρὸς δίκην (ἄγειν). Invero la formula ‘a processo’ è εἰς δίκην, vd. LSJ s.v. ἄγω I 4 e cf. Pl. Lg. 767b6 ἄγων εἰς δίκην; nelle stesse Leggi e negli oratori attici εἰς δίκην compare anche con altri verbi come ‘andare’ o ‘chiamare’; per πρὸς τὴν δίκην cf. invece Pl. Lg. 936e7 ὁ δὲ κληθεὶς ἀπαντάτω πρὸς τὴν δίκην e fr. adesp. 498 K.‑Sn. (data incerta, testimoni tardi) ἄγει τὸ θεῖον τοὺς κακοὺς πρὸς τὴν δίκην (quest’ultimo citato anche da FINGLASS2017, 25, il quale elenca, inoltre, altre occorrenze tragiche di τὴν δίκην al posto di δίκην con verbi ‘legalistici’, ad es. δίδωμι). La lingua del brano non è altrimenti problematica: cf. anzi per βωμὸν προσίζει al v. 2 in identico contesto A. Supp. 189 πάγον προσίζειν τόνδ᾽ ἀγωνίων θεῶν; E. Hec. 935 (lyr.) σεμνὰν … προσίζουσι Ἄρτεμιν.
17Tant’è che SEECK1981, 240‑241 stampa πάσχειν ma traduce πράσσειν («denn
einem schlechten Mann sollte es stets auch schlecht ergehen»). Errata è la resa attiva di VANKASTEEL2011, 269 («un homme méchant agira etc») del testo della Teosofia di
idiomatici della lingua greca in generale ed euripidea in particolare: per κακῶς (o καλῶς) πράσσειν cf. e.g. E. Alc. 961 κακῶς πεπραγότι; Hec. 55 ὡς πράσσεις κακῶς, 957 οὔτ᾽ αὖ καλῶς πράσσοντα μὴ πράξειν κακῶς;
Or. 1599 ἀνέχου δ᾽ ἐνδίκως πράσσων κακῶς; per κακῶς πάσχειν cf. invece E. Med. 38‑39 e 280 κακῶς πάσχουσ᾽, 815 μὴ πάσχουσαν, ὡς ἐγώ, κακῶς18.
L’idea che un uomo malvagio si trovi giustamente a mal partito ritorna nel citato verso dell’Oreste (1599, rivolto da Oreste a Menelao), che potrebbe dunque essere addotto a sostegno di πράσσειν della Teosofia di Tubinga. A favore della lezione stobeana πάσχειν parla invece un passo, pure esso gnomico, come E. Hec. 903‑904 πᾶσι γὰρ κοινὸν τόδε, (…) τὸν μὲν κακὸν / κακόν τι πάσχειν, τὸν δὲ χρηστὸν εὐτυχεῖν, «a tutti è comune regola questa, (…) che il malvagio soffra qualcosa di male, il valente abbia invece buona fortuna» (qui tuttavia πάσχειν regge l’aggettivo neutro κακόν, non l’avverbio κακῶς). In tal caso, πράσσειν della Teosofia di Tubinga sarebbe o un errore di tradizione meccanico o una banalizzazione più o meno consapevole di πάσχειν. In quale stadio della trasmissione πράσσειν abbia soppiantato il (presunto) originale euripideo πάσχειν – se già nella Teosofia tardoantica (se non nella fonte di questa?) oppure solo nella bizantina
Teosofia di Tubingao addirittura nella copia tardo‑rinascimentale di questa nel codice Tubingensis Mb 27 – è quasi impossibile dire19.
2. Presupposti cultuali e culturali
Il background cultuale e culturale di fr. 554a K. è ben noto agli studiosi di antichità greche: presupposto – e criticato, vd. infra – in questo frammento è il diritto all’intoccabilità automaticamente acquisito secondo la credenza comune da chiunque, perseguitato, inseguito o ricercato, andasse fisica ‑
Tubinga: il verso non riguarda la coercizione a compiere il male, ma le conseguenze per il malfattore.
18Questi passi paralleli già in BURESCH1889, 125. Apparentemente senza conoscere
la Teosofia di Tubinga, BLAYDES 1894, 360 aveva già proposto πράσσειν al posto di πάσχειν per il frammento euripideo, confrontando A. fr. 466 R. (dubium?) ζοῆς πονηρᾶς θάνατος αἱρετώτερος· / τὸ μὴ γενέσθαι δ’ ἐστὶν ἤ πεφυκέναι / κρεῖσσον κακῶς πράσσοντα, «Ad una vita meschina è preferibile la morte; il non esser nato è meglio che l’essere nato passandosela male». Anche qui, tuttavia, la tradizione manoscritta è bipartita, con il ms. A di Stobeo, la fonte del frammento, che legge πάσχοντα, e divisi sono anche editori e studiosi: vd. l’app. cr. ad loc. di RADT1985, 502. Identica alternanza πάσχω ‑ πράσσω in E. fr. *545a 9 K. (pure dall’Edipo), vd. COLLARDin COLLARD/CROPP/GIBERT2004, 131.
19L’ultimo editore della Teosofia (BEATRICE2001, 36, Theos. II, 26) restituisce già in
mente a porsi presso l’altare o nella sede sacra di un dio (e dunque sotto la sua tutela) per tutto il tempo della sua permanenza in quel luogo20. Un caso
antico celebre e spesso citato di questa pratica è quello del generale spartano Pausania, il vincitore della battaglia di Platea: accusato pochi anni dopo quella vittoria (intorno al 470 a.C.) di μηδισμός dai suoi concittadini, Pausania si rifugiò nel tempio di Atena Chalkioikos sull’Acropoli di Sparta, da dove nessuno per timore e reverenza della dea osava strapparlo21.
Questo principio cardine della religione greca trovò ampia ricezione nel teatro tragico, venendo a costituire il nucleo di numerose scene e di intere tragedie, organizzate anche visivamente intorno alla presenza di uno o più rifugiati presso un altare o un tempio (si pensi alle Supplici eschilee)22. Nel
dramma attico, e più precisamente nella produzione euripidea, s’incon ‑ trano però di questo principio anche messe in discussione, sorte forse in conseguenza di reali casi storici di abuso del diritto del santuario23e/o sulla
scia di un dibattito contemporaneo che tendeva a relativizzare l’automa ‑ tismo dell’applicazione a favore di un approccio più sfaccettato. Anche da testi non drammatici di tardo quinto secolo pare, infatti, di dover dedurre che in quegli anni si fosse sviluppata una maggiore sensibilità per il carattere potenzialmente a‑sociale del diritto del rifugio all’altare: l’esten ‑ sione della protezione divina tanto sui rifugiati innocenti quanto su quelli colpevoli veniva da più parti percepita – e/o strumentalmente presentata – come destabilizzante per il corpo civico, poiché sottraente i criminali alla
20Vd. GOULD1973, 77‑78; PARKER1983, 182‑183; MIKALSON1991, 69‑70; SINN1990,
71‑83; SINN1993; CHANIOTIS1996; MARTIN2018, 478‑479. Se il fenomeno in questione sia più propriamente da definirsi ἀσυλία (CHANIOTIS1996, 66‑67) o ἱκετεία (GOULD
1973, 77; SINN1990, 71‑73; SINN1993, 90‑91; vd. anche GÖDDE2000, 31‑32) o sia una combinazione tra le due, è materia di controversia: qui basterà averne richiamato le caratteristiche. La concreta dimensione ritualistica della supplica, con i suoi segni esteriori, la formulazione di aperta richiesta di aiuto da parte del rifugiato, l’accoglimento della stessa etc., è per la presente discussione di rilevanza secondaria.
21Secondo Tucidide (1, 133‑134) i persecutori di Pausania credettero di aver trovato
il modo di aggirare l’ostacolo senza macchiarsi di empietà: essi sprangarono il tempio e bloccarono i rifornimenti a Pausania, tirando fuori il generale appena prima che questi morisse di fame, ed impedendo così che fosse la sua morte per fame (una forma di decesso considerata particolarmente impura dai greci, cf. e.g. S. Ant. 775‑776) a contaminare il suolo sacro, vd. GOULD1973, 82 con n. 45.
22MIKALSON1991, 70‑77, con altri esempi; SINN1993, 89. Sulle Supplici vd. GÖDDE
2000; DREHER2003; GÖDDE2003; in generale sul motivo della supplica nel teatro antico vd. KOPPERSCHMIDT1967; per gli aspetti scenici e visuali, soprattutto della supplica personale (tra due attori), vd. TELÒ2002.
23OWEN1939, 60: «the tirade may have been inspired by contemporary abuses of
punizione24. Oltre al fr. 554a K., tocca questo delicato tema nel corpus
euripideo il seguente passo dello Ione (1312‑1319, ed. Diggle)25: Ἴων· φεῦ· δεινόν γε θνητοῖς τοὺς νόμους ὡς οὐ καλῶς ἔθηκεν ὁ θεὸς οὐδ’ ἀπὸ γνώμης σοφῆς· τοὺς μὲν γὰρ ἀδίκους βωμὸν οὐχ ἵζειν ἐχρῆν ἀλλ’ ἐξελαύνειν· οὐδὲ γὰρ ψαύειν καλὸν 1315 θεῶν πονηρᾶι χειρί, τοῖσι δ’ ἐνδίκοις· ἱερὰ καθίζειν <δ’> ὅστις ἠδικεῖτ’ ἐχρῆν, καὶ μὴ ’πὶ ταὐτὸ τοῦτ’ ἰόντ’ ἔχειν ἴσον τόν τ’ ἐσθλὸν ὄντα τόν τε μὴ θεῶν πάρα. Ione: Ohimè
Tremendo davvero come agli uomini le leggi non rettamente abbia posto il dio né sulla base di un’opinione saggia. Bisognerebbe che gli ingiusti non sedessero agli altari,
ma (bisognerebbe) cacciarli; infatti non è bello 1315 per mano malvagia toccare gli dei; per i giusti invece –
presso i luoghi sacri bisognerebbe sedesse chiunque abbia subito ingiustizia e non che, trovandosi nello stesso stato, ottenga lo stesso
da parte degli dei chi è virtuoso e chi non lo è.
Con questa riflessione generale Ione commenta la situazione particolare venutasi a creare in scena: Creusa (che Ione non ha ancora riconosciuto essere sua madre) si è riparata presso l’altare di Apollo delfico dalla ven ‑ detta del giovane, appena scampato all’avvelenamento da lei orche strato. Mentre Creusa si richiama alla concezione religiosa diffusa secondo cui chi si affida al dio non può essere toccato (1285 ἱερὸν τὸ σῶμα τῷ θεῷ δίδωμ᾽
24PARKER1983, 183; CHANIOTIS1996, 68, 84‑87; MARTIN2018, 479, gli ultimi due
con rimando a Thuc. 4, 98, 6 (καὶ γὰρ τῶν ἀκουσίων ἁμαρτημάτων καταφυγὴν εἶναι τοὺς βωμούς, «è possibile rifugiarsi presso gli altari per le colpe compiute involontariamente»), un passo che pare restringere il diritto al rifugio presso gli altari ai colpevoli involontari; vd. anche GOULD1973, 101.
25Su lingua e testo del passo vd. il commento di MARTIN2018, 479‑480, che espunge
i vv. 1315‑1317 (in questo già parzialmente preceduto da Diggle) in ragione di una loro presunta incoerenza sintattica e contenutistica con il resto del brano; diverse possibilità di costruzione sono però illustrate nel commento di OWEN1939, 160. Una decisione in merito non è comunque rilevante ai fini dell’interpretazione ideologica e logica del brano, per la quale vd. BURNETT1962, 99 n. 36; MIKALSON1991, 75‑76; CHANIOTIS1996,
65‑66; MARTIN2018, 478‑479; anche SINN1993, 108 n. 11; BOLKESTEIN1939, 90‑91, 128, 247‑248 (in particolare sulla concezione ‘legalistica’ di ἀδικούμενοι).
ἔχειν), Ione condivide, in linea di principio, le stesse premesse del fr. 554a K., anche se – ed è differenza non da poco – non la stessa prontezza ad agire che la persona loquens del frammento rivendica per sé26 (quantomeno per
via di ipotesi, ἄγοιμ’ ἂν al v. 3 del frammento è condizionale: «condurrei a giudizio», vd. su questo infra § 3.2); con la ‘tirata’ dei versi 1312‑1319 Ione pare, infatti, finire per ammettere la superiore forza della legge divina e limitarsi ad esprimere un desiderio utopico, ed in partenza frustrato, che le cose stiano diversamente (al v. 1314 ἐχρῆν è condizionale: Ione non è dunque violento, ma blasfemo)27. A sciogliere l’impasse arriva la Pizia, che
frena Ione (1320 ἐπίσχες, ὦ παῖ) ed avvia il riconoscimento28.
Un’ulteriore attestazione euripidea del medesimo motivo, cronolo ‑ gicamente precedente29e stavolta dialogica, offrono gli Eraclidi, 254‑260 (ed.
Diggle): Δη· καὶ πῶς δίκαιον τὸν ἱκέτην ἄγειν βίᾳ; Κη· οὔκουν ἐμοὶ τόδ᾽ αἰσχρὸν ἀλλ᾽ <οὐ> σοὶ βλάβος; 255 Δη· ἐμοί γ᾽, ἐάν σοι τούσδ᾽ ἐφέλκεσθαι μεθῶ. Κη· σὺ δ᾽ ἐξόριζε, κᾆτ᾽ ἐκεῖθεν ἄξομεν. Δη· σκαιὸς πέφυκας τοῦ θεοῦ πλείω φρονῶν. Κη· δεῦρ᾽, ὡς ἔοικε, τοῖς κακοῖσι φευκτέον. Δη· ἅπασι κοινὸν ῥῦμα δαιμόνων ἕδρα. 260 Dem: Come può esser giusto portar via con la forza il supplice? Ar.: Questo sarà per me un disonore, ma per te non è un danno? 255 Dem.: Sì, se ti permetto di trascinarli via.
Ar.: Tu mandali fuori dai confini, e poi da là li porteremo via. Dem.: Sei sciocco se pensi di saperne più del dio.
Ar.: Invero questo, così pare, è rifugio ai malvagi.
Dem.: A tutti è comune baluardo l’altare degli dei. 260
Il re ateniese Demofonte e l’Araldo argivo dibattono sul destino dei figli di Eracle, i quali, con Alcmena e Iolao, hanno trovato rifugio dalla persecu ‑
26LIAPIS2014, 354.
27SOLMSEN1975, 72 e 75, seguito da MARTIN2018, 478.
28La Pizia non trattiene quindi Ione dallo strappare Creusa dall’altare con le proprie
mani, ma da nuove avventate affermazioni sul divino, vd. MARTIN2018, 481 nelle note vv. 1320‑1325 e v. 1320.
29Gli Eraclidi sono datati intorno al 430 a.C., lo Ione tra il 414 ed il 411/410 a.C. (vd.
rispettivamente WILKINS1993, xxxiii‑xxxv e MARTIN2018, 24‑32), l’Edipo intorno al 415 a.C. (su questo vd. infra n. 43). Non è dunque vero che sia lo Ione a contenere «the earliest attack against the institution of asylia in the Greek literary tradition» (CHANIOTIS1996, 66): lo precedono gli Eraclidi, e forse lo stesso Edipo.
zione di Euristeo presso l’altare di Zeus a Maratona. L’Araldo argivo pretende la loro consegna: dopo che sia la sua minaccia di ritorsione (255) sia il suo suggerimento di ingannare i supplici concedendo loro scorta fino al confine attico per poi abbandonarli là (257)30 sono stati ovviamente
ignorati da Demofonte, egli sposta la propria argomentazione da un piano pratico ad uno etico ed obietta – ponendosi così sulla stessa lunghezza d’onda di Ione e della persona loquens di fr. 554a K. – che l’altare di un dio