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Il mondo come volontà e rappresentazione

C. La liberazione dal dolore

LE DUE VIE DI LIBERAZIONE Nel terzo e nel quarto libro del Mondo vengono descrit- te quelle che Schopenhauer considera le due sole vie che l’uomo abbia a disposizione per affrancarsi dal mondo dei fenomeni e dunque da quella volontà di vivere che è per lui fonte di tensione e perenne insoddisfazione. Il terzo libro, in cui si tratta della prima di queste vie, svolge l’estetica di Schopenhauer, mentre il quarto, in cui si delinea la secon- da possibilità di liberazione, è dedicato all’etica. Vedremo come queste due prospettive non siano affatto equivalenti e come per il filosofo solo la seconda via possa rappresen- tare un’autentica liberazione. Ciò non toglie, tuttavia, che proprio alla filosofia dell’arte Schopenhauer abbia dedicato alcune delle pagine più profonde del libro, mettendo a La vita è tragedia La storia come destino La volontà N2 Liberarsi dalla volontà di vivere

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Opera

frutto, oltre alla sua spiccata sensibilità estetica, la sua vastissima erudizione nel campo della storia dell’arte e della letteratura.

liberazione della volontà

arte

(contemplazione estetica) (riconoscimento di se stesso nell’altro)etica

L’ARTE COME CONTEMPLAZIONE DELLE IDEE La prima via di liberazione è dunque costituita dall’arte e dalla contemplazione estetica. L’arte è la contemplazione delle cose nel loro carattere ideale, ossia è la contemplazione delle idee. Schopenhauer ripren- de qui la tesi kantiana, espressa nella Critica del giudizio, del carattere disinteressato della contemplazione estetica. Ma per il nostro filosofo «disinteresse» significa essenzial- mente negazione del principio di individuazione. Mentre la scienza – rinchiusa nelle forme dello spazio, del tempo e della causalità – lega l’uomo agli oggetti individuali del- l’esperienza, considerati nel complesso dei loro rapporti reciproci, l’arte invece lo conduce a qualcosa di completamente diverso: a qualcosa che, per il suo non essere individua- le, non partecipa più delle lotte e del dolore propri del mondo fenomenico. Le idee non sono ricavate per astrazione dalle rappresentazioni individuali, come i concetti; esse sono l’oggettivazione immediata della volontà. Chi si eleva alla contemplazione disinteres- sata delle idee dimentica se stesso e diviene «puro soggetto conoscente e limpido occhio del mondo», liberandosi insomma, sia pure solo temporaneamente, del suo essere indivi- duale e quindi della sua volontà di vivere [ N3].

IL GENIO ARTISTICO Il medesimo atteggiamento contemplativo si ritrova tanto in chi fruisce dell’opera d’arte da spettatore, quanto nell’artista creatore. In entrambi i casi è in gioco la capacità data all’uomo di abbandonare la mera considerazione dei fenomeni, per fissare lo sguardo sulle pure idee. Certo, questa capacità, più o meno presente nelle per- sone comuni, si trova eccezionalmente sviluppata nell’artista. Schopenhauer riprende, a questo proposito, la dottrina kantiana e romantica del genio, piegandola alle esigenze della propria filosofia: il genio, che per Schopenhauer è essenzialmente genio artistico (il filosofo tende infatti a escludere che in ambiti come la scienza o la politica siano richiesti attributi di genialità), consiste precisamente nell’attitudine, posseduta da taluni uomini in misura straordinaria, a fare astrazione dai fenomeni particolari per afferrare i model- li universali costituiti dalle idee. Per il genio entrare in una condizione creativa significa abbandonare la particolarità della propria esistenza individuale per divenire puro corre- lato delle idee, occhio puramente contemplante, soggetto di una conoscenza completa- mente disinteressata e dunque non coinvolta nei bisogni pratici che caratterizzano altri- menti la vita quotidiana [ N3].

IL SISTEMA DELLE ARTI E LA FILOSOFIA DELLA MUSICA Le varie arti, dall’architet- tura, alla scultura, alla pittura, alla poesia esprimono, ciascuna secondo i propri mezzi, altrettante forme di oggettivazione della volontà per il tramite delle idee. Esiste, in altre parole, una gerarchia delle arti che riflette la gerarchia delle idee, ossia i vari gradi di oggettiva- zione della volontà. Mentre, al grado più basso, l’architettura raggiunge il proprio effet- to estetico facendo leva sulle forze e sulle caratteristiche elementari della materia (massa, peso, rigidità), la tragedia, che costituisce la forma più alta di poesia, esprime la stessa vo- lontà divenuta cosciente nell’uomo e destinata a entrare in conflitto aperto con se stessa. La contemplazione estetica Le idee e l’arte N3 L’opera d’arte e le idee pure La gerarchia delle arti

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Opera

La più elevata delle arti, al di sopra della stessa tragedia, è però la musica, che della volontà rappresenta un’oggettivazione tanto diretta quanto quella delle stesse idee. Il genio musicale, secondo Schopenhauer, «ci manifesta l’essenza intima del mondo ed esprime la sapien- za più profonda, ma in un linguaggio che la sua ragione non intende». La musica è, in altri termini, una filosofia inconscia, scritta in termini misteriosi: «La musica non è, come le altre arti, una riproduzione delle idee, ma è una riproduzione della volontà stessa, una sua oggettivazione al pari delle idee. Perciò il suo effetto è più potente, più penetrante di quello delle altre arti: queste ci parlano dell’ombra; quella dell’essenza». Schopenhauer dà giustificazione e sistemazione filosofica all’ideale romantico della mu- sica e alla centralità che essa ha assunto nel Romanticismo e oltre, e fornisce una risposta nuova, originale nel pensiero occidentale, definendo la specificità del linguaggio musicale nella sua asemanticità, ossia nella sua capacità di fare astrazione da significati determi- nati [ P1, U2]. Egli difende l’autonomia linguistica della musica e dichiara esplicitamen- te che essa è linguaggio dell’irrazionale, non traducibile in termini razionali, sentimen- tali o altro. Il suo linguaggio è quindi assoluto e coglibile solo dal genio artistico, perché riproduce ed esprime la realtà più profonda.

liberazione temporanea dalla volontà fenomenica arte architettura, scultura, pittura, poesia

musica oggettivazione diretta della volontà

contemplazione delle idee

IL PRIMATO DELLA MUSICA STRUMENTALE Certo, della musica si può parlare solo per metafore e per analogie, data l’assolutezza e il carattere ineffabile del suo linguag- gio. Ciò significa che il regno della musica è il sentimento inteso come la vita interiore della volontà; quindi esso si contrappone al concetto, ci dà l’universalità della for- ma senza la materia: esprime infatti il sentimento, non i sentimenti particolari. Da qui viene la predilezione di Schopenhauer per la musica strumentale, come avviene appunto nel Romanticismo, perché solo essa è pura forma non contaminata dai con- cetti, è libera espressività [ P1, U2]. Così la musica si libera della parola e del suo do- minio, da sé sola esprime «l’in sé del mondo». Viene così rovesciata la consuetudine secolare che, entro la tradizione del teatro d’opera, aveva decretato il predominio della parola. Se consideriamo poi che la più profonda rivoluzione artistica dell’Ottocento ha luogo in ambito musicale, si comprende come la concezione filosofica della mu- sica di Schopenhauer non solo sia stata decisiva per grandi musicisti – come Richard Wagner – o per filosofi – come Nietzsche –, ma sia stata ripresa dalle successive avan- guardie culturali del Novecento.

L’ESIGENZA DI UNA LIBERAZIONE DEFINITIVA DAL DOLORE La liberazione resa pos- sibile dalla contemplazione estetica, sia essa quella del genio creatore o quella di chi frui- sce dell’opera d’arte in qualità di spettatore, è una liberazione solo transitoria, che non altera in modo significativo la posizione del soggetto nel mondo dei fenomeni. Dopo l’esperienza dell’arte, l’individuo, di nuovo preso nel mondo della rappresentazione, è riconsegnato a quei rapporti quotidiani che lo vedono anzitutto impegnato a realizzare fini e obiettivi particolari. Perciò, il vero progresso non può essere cercato entro il mon- do, ma consisterà unicamente nel trascendere l’esperienza, liberandosi una volta per tutte dalle illusioni dei fenomeni. E a questa liberazione definitiva dalla volontà e dal do- lore è dedicato il quarto libro del Mondo.

La musica

La musica liberata dal dominio della parola

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Opera

L’ETICA Ora l’itinerario schopenhaueriano attraversa il territorio dell’etica. Occorre com- prendere che la volontà di vivere, in quanto tale, è il male da superare. L’atteggiamento etico consiste in un sapere più elevato di quello dell’intelletto e della ragione e conduce l’uomo attraverso tre gradi di liberazione.

In primo luogo, grazie alla giustizia, viene posto un argine alla lotta fra gli individui, nel riconoscimento di quell’unica volontà che governa le azioni, apparentemente confliggenti, dei vari soggetti.

Il secondo grado è costituito dalla compassione, cioè dal riconoscimento intuitivo dell’unità di tutti gli esseri. A questo proposito, è utile ricordare che l’etimologia del- la parola richiama l’idea di un “soffrire insieme”, cioè la capacità di avvertire il dolore altrui come proprio dolore, di fronte alla presa di coscienza di una comune appartenenza al contesto della volontà universale. La compassione, in ogni caso, ha il potere di elimi- nare dall’animo umano la malvagità, intesa come effetto dell’illusione che separa tra lo- ro gli uomini rendendoli stranieri e nemici gli uni agli altri. È evidente in quale misura Schopenhauer abbia tratto profitto, per queste sue riflessioni, dalla lettura dei testi cri- stiani e buddisti [ N4].

Il terzo stadio sulla strada della liberazione è, infine, quello dell’ascesi.

LA PRATICA DELL’ASCESI L’ascetismo viene interpretato da Schopenhauer come l’estre- ma riduzione possibile della volontà di vivere; esso consiste nella negazione di ogni elemento fenomenico, di ogni conoscenza intellettiva, e riesce pertanto ad attuare la liberazione definitiva dalle illusioni del mondo empirico. A questo livello, l’uomo non si limita a contenere l’affermazione di sé a favore degli altri esseri, ma arriva a pro- vare una vera e propria ripugnanza nei confronti del desiderio di vita che accompagna tutta la sua esistenza fenomenica.

Va ricordato che Schopenhauer non riconosce capacità liberatoria al suicidio: esso infat- ti costituisce, almeno nei casi generali, un atto violento di affermazione, non di negazio- ne; un atto che non estingue la volontà di vivere, ma proclama la volontà di condurre la vita in condizioni diverse da quelle che il suicida trova innanzi a sé.

La negazione ascetica della vita è, invece, soppressione della particolarità del volere, di quella particolarità che si esprime nell’esistenza individuale. Una tale soppressione com- porta una serie di pratiche, tipicamente caratterizzanti la vita ascetica: la castità (l’amore sessuale è infatti una delle più forti affermazioni della volontà di vivere), la rassegnazio- ne, la povertà, la rinuncia.

Questo tipo di ascetismo si distingue da quello cristiano; quest’ultimo è una condi- zione in cui l’uomo ha l’esperienza di un contatto con un Dio come essere personale e trascendente, mentre l’ascetismo cui si riferisce Schopenhauer – in cui rintracciamo il nirvana buddistico e l’influenza delle filosofie orientali a lungo studiate dall’autore – si- gnifica annullamento della personalità, una condizione di estasi in cui si è soppressa l’al- terità di soggetto e natura e l’uomo «cessa di volere, di attaccarsi a qualsiasi cosa, e si tien fermo in una indifferenza che non fa eccezione» [ N4]. L’ascetismo è dunque un eserci-

zio pratico che modifica radicalmente la voluntas in noluntas. Superare la volontà di vivere La giustizia La compassione Il pessimismo e la negazione della volontà N4 L’ascesi Il suicidio Castità, povertà, rinuncia: la noluntas

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Opera

liberazione definitiva dalla volontà fenomenica etica compassione giustizia ascesi

limitazione della propria volontà in favore degli altri

percezione del dolore altrui come proprio soppressione del volere

(noluntas)

RELIGIONE E FILOSOFIA Schopenhauer riconosce alle religioni più elevate – per esem- pio al cristianesimo delle origini, ma soprattutto al buddismo – la capacità di condur- re l’uomo alla negazione ascetica; ma esse non avrebbero fatto, con ciò, che travestire miticamente la verità sublime della negazione della volontà, rendendola accessibile a tutti. Diversamente dalle religioni, la filosofia si sforza di rendere queste verità nella loro per- fetta purezza; proprio per questo suo sforzo, però, essa risulta di estrema difficoltà. Ed è per ovviare a tale difficoltà che sorgono, necessariamente, le religioni come «metafisiche popolari»; esse però corrono sempre un gravissimo pericolo: quello di perdere il loro va- lore metafisico, trasformandosi in idolatrie assolutistiche, esclusivistiche, intolleranti. A suo parere gli abusi delle religioni avrebbero condotto l’umanità alle conseguenze più immo- rali e più nefaste.

LA CONCLUSIONE DEL MONDO Di fronte all’esito ascetico del capolavoro schopen- haueriano non sono mancate esplicite prese di distanza anche tra coloro che in modo più diretto ne hanno subito l’influenza. Friedrich Nietzsche, per esempio, pur accettan- do nella prima fase del suo pensiero l’impianto metafisico del Mondo, cercherà di evi- tarne le conseguenze pessimistiche, contrapponendo alla filosofia della negazione del- la volontà l’affermazione dionisiaca della vita e della sua energia artisticamente creatrice

[ P3, U1, 2].

Ciò detto, occorre interrogarsi sul significato di quel vero e proprio annullamento del mondo al quale il lettore viene invitato alla fine del libro. Si tratta veramente di una richiesta di abbandono della propria esistenza individuale e finita? È davvero possibile realizzare una tale rinuncia? Tutto fa pensare piuttosto che sia in gioco un mutamento di prospettiva in virtù del quale l’individuo, pur continuando a vivere nel mondo dei feno- meni, rinunci a far valere in esso le sue aspettative di realizzazione, comportandosi come se nessuna delle forme illusorie che lo circondano avesse per lui consistenza e rilievo. In effetti, la soppressione della cieca volontà di vivere, sottraendo l’uomo alla catena causale del mondo fenomenico, costituisce – nella filosofia di Schopenhauer – l’unico atto possibile di reale libertà. Al di là della negazione non rimane altro che il nulla: ma si tratta di un nulla relativo, di un nulla che sembra tale solo se si considera il mondo illusorio della rappresentazione come vero mondo. Questo nulla può venire simboli- camente raffigurato come un oceano di pace, come un riposo infinitamente profondo dell’anima. Superiorità (e difficoltà) della filosofia Il pessimismo di Schopenhauer Una liberazione possibile

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Opera

Il pessimismo

Nei Supplementi al li- bro quarto del Mondo troviamo scritto: «Nes- suno ha trattato così a fondo e così esaurientemente questo soggetto [il pessimismo] come, ai giorni nostri, Leopardi. [...] Il suo tema è ovunque la beffa e la miseria di quest’e- sistenza». Schopenhauer si avvicinò a Leopardi nel 1858 soprattutto attraverso la lettura delle Operette morali (1824-32). In quello stesso anno l’accostamen- to tra il filosofo tedesco e il maggiore poeta dell’Ot- tocento italiano fu proposto per la prima volta in modo esplicito dallo storico e critico della letteratura Francesco De Sanctis, in un saggio-dialogo dal tito- lo Schopenhauer e Leopardi. Dialogo tra A. e D. Nel complesso De Sanctis tendeva a sottolineare più la distanza che l’affinità fra i due autori ed esprimeva in conclusione una netta preferenza per il pessimi- smo eroico del poeta nei confronti del messaggio eticamente rinunciatario e politicamente ambiguo del Mondo. La possibilità del parallelo si reggeva, in ogni caso, su una serie di precise analogie, tutte ri- gorosamente documentate nei testi dei due autori, che possiamo riassumere, per comodità, in una serie di punti:

1.una visione radicalmente pessimistica dell’uomo, della storia, della natura;

2.un’immagine dell’esistenza come vicenda irrime- diabilmente segnata dal dolore, dal bisogno e dalla privazione;

3.un’interpretazione dell’esperienza del piacere come momento essenzialmente negativo nei confronti di uno stato di privazione;

4.una presa di coscienza del carattere illusorio di tutte le cose;

5.un’etica fondata sul motivo della compassione.

Tanto per Schopenhauer quanto per Leopardi il no- stro non è affatto il migliore dei mondi possibili. Se nell’ambito della storia non esiste sviluppo e tanto- meno progresso o perfezionamento (come, a diverso titolo, pensavano tanto i romantici quanto Hegel), ma solo vuota ripetizione, la natura, dal canto suo, non si cura degli individui e punta solo alla soprav- vivenza della specie. La volontà – per esprimerci con Schopenhauer – è sempre uguale a se stessa. Essa non trova mai definitiva soddisfazione, e questa cir- costanza risulta evidente se si considera che, nel suc- cedersi delle generazioni, ogni nuovo individuo vie- ne a occupare il posto di quelli che di volta in volta escono di scena, senza che in questa eterna vicenda possa essere riconosciuto alcun fine generale. La momentanea soddisfazione che gli individui in- contrano nel dare attuazione ai loro desideri o alle loro ambizioni (successo, riuscita, vittoria ecc.) non

costituisce motivo di ottimismo: alla soddisfazione seguono spesso nuovi bisogni che offrono sempre nuove occasioni di dolore. A interrompere questa concatenazione di desiderio e appagamento può subentrare in alcuni casi una condizione ancora più difficile da sopportare del desiderio stesso: la noia. Su questo terreno le analogie fra il pessimismo di Schopenhauer e la «filosofia dolorosa, ma vera» di Leopardi sono innegabili. Nei Canti (1831) del poeta troviamo per esempio l’idea di un attaccamento alla vita che persiste anche nella consapevolezza del suo necessario fallimento: «Se la vita è sventura, / Per- ché da noi si dura?» (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia); la percezione nichilistica di una complessiva mancanza di senso nell’essere: «E l’infi- nita vanità del tutto» (A se stesso); il riconoscimento del dolore come tonalità fondamentale dell’esisten- za umana: «[...] Arcano è tutto, / Fuor che il nostro dolor [...]» (Ultimo canto di Saffo). Nelle Operette morali gli stessi motivi vengono sottolineati con pre- cisione, se possibile, ancora maggiore.

Le teorie del piacere

Seguiamo ora brevemente il parallelo Schope- nhauer-Leopardi sul piano delle rispettive teorie del piacere. La teoria leopardiana del piacere è esposta soprattutto in un testo del 1820 che si trova nello Zibaldone. Vi si afferma la tesi centrale del carattere «limitato» del piacere, al quale si oppone invece il carattere «illimitato» del desiderio e della ten- denza dell’uomo alla felicità. Questo desiderio non termina se non con la fine dell’esistenza, è sostan- ziale in noi, perché non è semplicemente desiderio dell’uno o dell’altro piacere, ma desiderio del piace- re come tale. Quando un singolo desiderio viene ap- pagato, non si estingue il desiderare, il quale, anzi, risorge in forme sempre nuove.

Nei Canti il tema viene declinato in due forme stret- tamente congiunte. Da un lato abbiamo l’idea della vanità di ogni speranza relativa a una vera feli- cità. Si pensi ad esempio all’idea della festa come “vuoto” al quale inconsapevolmente tendono l’at- tesa e la speranza dell’uomo (tema al centro dei canti La sera del dì di festa e Il sabato del villaggio). Proprio l’illimitatezza del desiderio mette in discus- sione l’idea della festa, in quanto il giorno di festa è il momento in cui si rivela all’uomo la vanità del suo desiderare. Dall’altro è sottolineata la natura del piacere come mera soppressione di uno stato di bisogno, di mancanza, ossia il carattere negativo di ogni esperienza del piacere. Parlare di nega- zione non significa qui sostenere che il piacere sia in sé qualcosa di negativo, ma piuttosto sottolineare il suo essere strettamente legato al venir meno di uno stato di bisogno o di privazione. Nel momento in cui questo stato di bisogno viene «negato» con il

SCHOPENHAUER E LEOPARDI: UN CONFRONTO

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Opera

raggiungimento di un fine determinato, cessa anche il bisogno che era stato avvertito come tensione e dolore. Per questo Leopardi può esprimere, in versi celebri, l’idea di una sostanziale dipendenza del pia- cere dal dolore che lo precede: «Piacer figlio d’affan- no» (La quiete dopo la tempesta).

Certo, occorre precisare che la definizione leopar- diana del piacere come cessazione del dolore ha una serie di precedenti nella cultura del Settecen- to francese e italiano. E di una tale discendenza si trovano numerose tracce nei testi del poeta. Questa osservazione ci aiuta a rintracciare il vero retroterra del pessimismo leopardiano, che è radicato più nella filosofia materialistica settecentesca che nello spiri- tualismo o nell’idealismo del primo Ottocento. Scrive Leopardi nello Zibaldone: «Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo, e la tendenza nostra verso un in-

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