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Il linguaggio di Cassandra

Capitolo II: L’Agamennone: strategie linguistiche

II.III Il linguaggio di Cassandra

Per una completa analisi linguistica dell’Agamennone, mi sembra sia interessante prestare attenzione alla figura di Cassandra, caratterizzata dal linguaggio profetico che la distingue dagli altri personaggi212 e, soprattutto, dal coro con cui intesse un dialogo. La giovane profetessa, in preda al delirio mantico e alle sofferenze che questo le provoca, si esprime con parole adatte a comunicare il suo stato d’animo e le immagini che popolano la sua mente. Ma, nonostante la chiarezza e la precisione del suo linguaggio, non viene facilmente compresa dagli Argivi che riescono a percepire soltanto il terrore e la drammaticità del suo discorso. Cerchiamo di procedere per gradi e analizzare nel dettaglio questo personaggio attraverso le parole di cui si serve.

La scena di Cassandra inizia già al v. 1035, in cui il nome della Troiana viene menzionato, e si apre con un insistito silenzio da parte sua. Questo mutismo è interpretato dal coro e da Clitemestra come l’incapacità della profetessa di comprendere il linguaggio straniero o di sopportare il morso del giogo servile. Tuttavia, dopo l’uscita di Clitemestra (v. 1068), Cassandra prorompe in ripetute grida, incomprensibili e inquietanti ‘ὀτοτοτοῖ πόποι δᾶ./ Ὦπολλον Ὦπολλον’213. Le sue parole, ricche di pathos e sofferenza, richiamano il suo destino stabilito da Apollo, suo protettore e “distruttore”, e quello della casa d’Atreo. Il suo primo riferimento è proprio ad Apollo, a cui il coro allude con l’epiteto Λοξίας (v. 1074) che si riconnette all’aggettivo λοξός “obliquo”, forse in relazione alla tipica ambiguità dei responsi oracolari. Calcante al v. 146 si era rivolto al dio con un altro epiteto, Παιάν “guaritore” “soccorritore”, perché come indovino ha uno specifico legame con il dio della mantica e chiede la sua intercessione presso la sorella

212

Sulla caratterizzazione dei personaggi di Eschilo attraverso il linguaggio vedi Stanford, op. cit. (1942), pp. 112-125.

213

Le espressioni di lamento di Cassandra sono state lette da alcuni studiosi come esempi di glossolalia greca (vedi Mazzoldi S., Cassandra, la vergine e l'indovina: identità di un personaggio da Omero

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Artemide per salvare i Greci dalla guerra. Ai vv. 1080-2 Eschilo ripete per due volte214 uno dei giochi etimologici a lui cari, per cui il nome del dio viene connesso con il verbo ἀπόλλυμι “distruggere”215:

‘ Ἄπολλον Ἄπολλον ἀγυιᾶτ᾽, ἀπόλλων ἐμός.

ἀπώλεσας γὰρ οὐ μόλις τὸ δεύτερον’.

Cassandra parla di una seconda volta perché Apollo già l’aveva distrutta in precedenza con il dono della profezia inascoltata. Cassandra, al v. 1257, si riferisce ulterioriormente ad Apollo con un nuovo epiteto, Λύκειος, aggettivo connesso alla parola λύκος “lupo”216, anche se sarebbe più corretto collegarlo alla radice λύκ- “luce”, essendo Apollo il dio del sole217. Subito gli Argivi percepiscono la drammaticità del messaggio della profetessa, definendola ‘δυσφημοῦσα’, “che pronuncia parole funeste” o ‘οὔ με φαιδρύνει λόγος’ (v. 1120), “la tua parola non mi rassicura”. Ritorna la radice δυσ- che abbiamo già visto per Elena218, usata dal coro anche al v. 1255 (‘δυσμαθῆ’) in riferimento al linguaggio della profetessa. Da ciò risulta chiaro come le figure femminili dell’Agamennone siano connotate da termini che indicano dolore e distruzione perché ne sono causa o vittime. Un ulteriore legame tra Elena e Cassandra è costituito dalla parola ἀνήρ che compare nell’etimologia dei nomi di entrambe: come Ἑλένη è la “distruttrice degli uomini”, Κασσάνδρα è “colei che respinge l’uomo”219 in quanto παρθένος. Le due donne, i

214

Anche al v. 1085 s.

215

Cfr. Plato, Crat. 404 d.

216 Cfr. Sept. 145 dove il dio viene invocato come colui che “salva dai nemici” o “protegge dai lupi”. Nell’Ag.

potrebbe riferirsi all’azione tutelare di Apollo contro Egisto λύκος (v. 1259).

217

Vedi Di Benedetto, op. cit., (1995) p. 330 s.

218

Ricordo i riferimenti a Paride già segnalati in precedenza.

219

Cfr. Blumenthal A. von, 'Messapisches', <<Glotta>> 20, 1932, pp. 285-88. Bisogna ricordare che, legando il nome alla radice *καδ- del verbo κέκασμαι, assuma il significato di “colei che si distingue tra gli uomini”,

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loro destini, sono necessariamente legati agli uomini di cui, conseguentemente, condizionano le sorti.

Eschilo, grazie all’efficacissima intuizione drammatica di mettere in scena la profetessa in estasi mantica, descrive in forma di visioni di Cassandra la morte di Agamennone che avviene all’interno della casa (vv. 1125-9), inserendola nel quadro della vicende della stirpe di Atreo e Tieste che fino ad ora non avevano giocato un ruolo rilevante nell’interpretazione dei fatti220. Nella sua visione, entrando in casa di Agamennone, si immerge nell’atroce passato, presente e futuro degli Atridi che ella “vede” (‘φαίνεται’ al v. 1114) svolgersi davanti a sé con completo annullamento di ogni distanza temporale e spaziale, dovuto al costante uso del tempo presente nel trasmettere le immagini. Così si sovrappongono perfettamente l’ “ora” di Cassandra con l’ “allora” dell’orribile pasto di Tieste e il “poi” dell’uxoricidio di Clitemestra. La distanza spaziale è invece annullata da l’uso martellante del pronome-aggettivo dimostrativo con funzione deittica: τοῖσδε al v. 1095, 1102; τάδε v. 1096; τόδε v. 1101, 1107, 1110, 1114. Ciò che ella “vede” lo trasmette, senza una compiuta organizzazione sintattica, “mostrando” al pubblico il delitto che Clitemestra sta realizzando dentro la casa. Il suo linguaggio profetico si serve, come quello della Sibilla e delle altre profetesse, della metafora come trasposizione di espressioni che derivano dall’ambito dei sensi, soprattutto quello visivo ( vv. 1126-28).

Nei versi della divinazione Cassandra è soggetta per quattro volte ad una climax di estasi mantica, di intensità sempre minore, che va dal grido e dalle invocazioni rituali alla chiaroveggenza non mediata, alla profezia razionale con cui si raggiunge il massimo grado di intellegibilità221. Questa sezione della tragedia viene

nel senso di “riconoscersi per bellezza”, ricordando la straordinaria beltà della fanciulla (cfr. Il. XIII 361-93). Cfr. Ledergerber K., Kassandra. Das Bild der Prophetin in der antiken und insbesondere in der älteren

abendländischen Dichtung, Diss. Freiburg 1951, pp. 7-10; Hoffmann, op. cit., p. 52.

220

Cfr. Di Benedetto, op. cit. (1995), p. 314.

221

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tradizionalmente suddivisa in due parti: a) i vv. 1072-1177 costituiscono la sezione metro lirico in cui l’estasi è al parossismo. Cassandra usa parole cariche di drammaticità in quanto veicolano un messaggio funesto: ‘ἀνδροσφαγεῖον καὶ πεδορραντήριον’ “macello di uomini e grondande di sangue” al v. 1092, ‘κακὸν… δυσίατον’ “male insanabile” al v. 1102 s. Il coro si rivolge a lei dicendo ‘ἀμ-/φὶ δ᾽ αὑτᾶς θροεῖς/ νόμον ἄνομον, οἷά τις ξουθὰ/ ἀκόρετος βοᾶς, φεῦ, ταλαίναις φρεσίν/Ἴτυν Ἴτυν στένουσ᾽ ἀμφιθαλῆ κακοῖς/ ἀηδὼν βίον’ (vv. 1140-5); b) nei vv. 1178-1330 si assiste ad un suo progressivo dissolvimento e ad un abbassamento del registro stilistico che diventa colloquiale fino al linguaggio parlato, in trimetri giambici, quando Cassandra opera il tentativo di mediare la propria chiaroveggenza e renderla comprensibile al suo interlocutore:

‘καὶ μὴν ὁ χρησμὸς οὐκέτ᾽ ἐκ καλυμμάτων ἔσται δεδορκὼς νεογάμου νύμφης δίκην: λαμπρὸς δ᾽ ἔοικεν ἡλίου πρὸς ἀντολὰς πνέων ἐσᾴξειν, ὥστε κύματος δίκην κλύζειν πρὸς αὐγὰς τοῦδε πήματος πολὺ μεῖζον: φρενώσω δ᾽ οὐκέτ᾽ ἐξ αἰνιγμάτων. καὶ μαρτυρεῖτε συνδρόμως ἴχνος κακῶν ῥινηλατούσῃ τῶν πάλαι πεπραγμένων’222.

La parola αἴνιγμα223 era stata precedentemente usata dal coro al v. 1112 per indicare l’incomprensibilità del messaggio di Cassandra, trasmesso attraverso enigmi che disorientano. Adesso la profetessa utilizza la stessa parola proprio per dimostrare la volontà di essere il più chiara possibile e non risultare ambigua.

222

“E davvero l’oracolo non affaccerà più il suo sguardo/ da dietro veli come giovane sposa,/ lucente invece apparirà giungere soffiando/ lì dove il sole sorge, cosicché verso la luce, come onda,/ fluttuerà una sciagura molto più grande/ di questa. Non informerò più per enigmi:/ e voi mi siete testimoni, correndo con me,/ che a fiuto inseguo la traccia di mali anticamente compiuti.”

223

Il termine compare già in Pindaro, fr. 177 Maehler. Eschilo lo utilizza anche nei Persiani v. 610: ‘λέξω τορῶς σοι πᾶν ὅπερ χρῄζεις μαθεῖν,/ οὐκ ἐμπλέκων αἰνίγματ᾽, ἀλλ᾽ ἁπλῷ λόγῳ,/ ὥσπερ δίκαιον πρὸς φίλους οἴγειν στόμα’.

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Per un efficacissimo processo di amplificazione la potenza espressiva di Cassandra si articola progressivamente nei due versi della prima coppia strofica, nei tre della seconda e terza coppia, nei cinque della quarta e quinta, fino a sei della settima. Parallelamente si passa da grida ad espressioni articolate fino a proposizioni più o meno sintatticamente organizzate. L’insieme delle espressioni verbali di Cassandra che vanno da v. 1072 a v. 1129 costituiscono una sorta di monologo della veggente che, assorbita nelle visioni, non si rivolge mai a quanti la circondano. È evidente il contrasto tra il comportamento razionale di chi è costantemente teso alla spiegazione, il coro, e il comportamento irrazionale della veggente. L’inconciliabilità tra i due livelli di trasmissione verbale sembra trovare riflesso anche nella struttura metrica epirrematica: Cassandra canta in docmi, il coro parla in trimetri giambici fino al v. 1121, quando l’agitazione della veggente viene trasmessa i vecchi Argivi che affermano

‘κακῶν γὰρ διαὶ

πολυεπεῖς τέχναι θεσπιῳδὸν

φόβον φέρουσιν μαθεῖν’ (vv. 1133-5).

Ritorna il concetto del μαθεῖν, l’apprendimento, che qui non si riferisce più alla saggezza ma alla paura che incutono le “arti di molte parole degli indovini”, sempre connesso al πάθος (v. 1137).

La figura etimologica del nome di Apollo, all’inizio dell’estasi mantica, rende evidente la tragica sorte di Cassandra di conoscere anticipatamente il proprio destino di morte. E quando ella arriva a predire, nella successione cronologica degli eventi, le propria uccisione, sembra quasi che non tanto “veda” davanti a sé il suo compimento, quanto racconti una vicenda già assimilata dalla sua mente, già ponderata in tutte le sue implicazioni e dice ‘ἐμοὶ δὲ μίμνει σχισμὸς ἀμφήκει δορί’ (v. 1149). La preveggenza del suo destino si mescola a ricordi dell’infanzia, ma tutto è ordinatamente collocato nello spazio e nel tempo e i due piani non si sovrappongono; non usa più il pronome-aggettivo dimostrativo. A questo punto

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Cassandra si avvicina al coro e viene compresa in assoluta chiarezza224. Con una bellissima immagine, che abbiamo visto ai vv. 1178-85, esprime la volontà di proporre un tipo di divinazione del tutto razionale e intellegibile, della cui veridicità si presenta come garante. Ma, nonostante tutto, ella non viene creduta e il coro continua a mettere in dubbio le sue parole, definendola ‘φρενομανής τις εἶ θεοφόρητος ’ (v. 1140) e sperando in un futuro diverso da quello cantato (v. 1249). I vecchi Argivi sono allontanati da Cassandra dalla maledizione di Apollo che opera insieme alla possibilità di sperare, sempre concessa ai mortali che vivono nell’ignoranza del futuro. A questo punto ella viene invasa dal fuoco (‘πῦρ’ al v. 1256) che rappresenta la concretizzazione della divinità che prende possesso di lei per l’ultima volta. In quest’ultimo stadio d’invasamento, in cui Cassandra arriva a predire nuovamente la propria uccisione, si raggiunge l’apice della tensione drammatica. Nel corso della sua vita ha rivelato tutto ai suoi ascoltatori occasionali (i Troiani prima, suoi concittadini, gli Argivi poi, suoi nemici) che non possono crederle. Adesso, nell’imminenza e nell’ineluttabilità del compiersi delle proprie profezie, Cassandra si spoglia delle sue insegne sacre, motivo di ludibrio, concludendo la sua carriera di veggente. Così si avvia al suo destino con la consolazione che la strage provocata dagli Atridi non rimarrà impunita. Termina il suo discorso con un gioco di parole tra γυνὴ e ἀνήρ:

‘ὅταν γυνὴ γυναικὸς ἀντ᾽ ἐμοῦ θάνῃ, ἀνήρ τε δυσδάμαρτος ἀντ᾽ ἀνδρὸς πέσῃ.

ἐπιξενοῦμαι ταῦτα δ᾽ ὡς θανουμένη’ (1318-20)225

È come se Cassandra volesse ricordare la causa di tutta la tragedia, la lotta fra un uomo e una donna, ma anche profetizzare il futuro della casa di Agamennone.

224

‘τί τόδε τορὸν ἄγαν ἔπος ἐφημίσω;’(v. 1162).

225

“Quando una donna cadrà in cambio di me che sono una donna/ e un uomo cadrà in cambio di un uomo dalla sposa sciagurata./ Io vi chiedo questo dono ospitale come una che va a morire”.

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Conclusione

Le riflessioni sulla lingua operate da Eschilo risultano essere ancora fortemente legate alla tradizione. Argomento del primo capitolo è il problema del rapporto lingua-realtà e della sua evoluzione. Partendo dalle considerazioni di Platone (Crat. 390 d ss.), abbiamo visto che fin da Omero è operante lo strumento dell’etimologia per interpretare il mondo. È nell’Iliade e nell’Odissea che si danno prove della correttezza dei nomi dal momento che essi riescono ad esprimere la perfetta corrispondenza con la realtà che designano. Attraverso alcuni esempi, come il nome di Astianatte (ἀστυ-άναξ) e di Odisseo (ὀδυσσάμενος), abbiamo analizzato le caratteristiche peculiari di Omero, tra cui l’uso dei doppi nomi (quello usato dagli dèi e quello dagli uomini) e la determinazione del destino della persona attraverso il nome. Con parziale distinzione da Omero, anche Esiodo guarda con estrema fiducia alla capacità espressiva e veridica del nome. Con i filosofi Eraclito e Parmenide la fiducia si incrina o meglio è più complessa: se per Eraclito la sostanziale ambiguità della lingua è essenziale a riprodurre l’ordine naturale, per Parmenide è indice di arbitrarietà e apparenza ma, sia pure per il solo εἶναι, la corrispondenza pensiero-lingua-essere si mantiene. Con Empedocle e Democrito il nome perde il suo valore veritiero e si afferma la teoria convenzionalista. Ma il peso della tradizione è molto forte: con Eschilo la significatività del nome e la ricerca etimologica rimangono mezzo essenziale per la riflessione linguistica. Abbiamo anche analizzato i numerosi esempi fornitici dai poeti tragici e le varie modalità d’indagine. Ma se per Eschilo non vi sono dubbi che la lingua sia strettamente connessa con le realtà, per Euripide questa certezza viene meno, si affianca alle nuove idee convenzionaliste, come nel caso del nome di Demetra nelle Baccanti, sebbene il nome di Penteo venga etimologizzato in modo tradizionale. È con i Sofisti che la lingua diventa particolare oggetto di indagine: Protagora dichiara il totale distacco tra nome e realtà, invece Prodico, non perdendo del tutto la fiducia nella lingua, continua ad affermare l’origine φύσει

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dei nomi e giustifica l’ambiguità e le imprecisioni lessicali con l’uso scorretto di chi se ne serve. Abbiamo concluso quest’analisi ritornando al Cratilo di Platone, in cui il filosofo esprime l’indimostrabilità del legame tra natura e lingua, sebbene in circostanze differenti (Timeo, 41 a 7-8) si serva dell’etimologia.

Dopo aver illustrato i punti essenziali di questo percorso per collocarvi Eschilo in modo organico, ci siamo domandati, sulla scia di Aristofane, in che senso contenuti importanti sono resi con parole importanti? Quali sono le strategie linguistiche di Eschilo? Servendoci degli studi di Fraenkel, Reinberg, Gambarara, Bollack e Judet de La Combe come guide, abbiamo cercato una risposta a tali quesiti. Tramite l’accostamento di due termini Eschilo suggerisce la spiegazione dell’uno attraverso l’altro, come nel caso di Suppl. 41-8 dove il nome di Epafo è etimologizzato con il termine ἔφαψις perché grazie al tocco di Zeus la giovenca diede alla luce Epafo, o di Ag. 1555-59 dove il nome del fiume infernale Acheronte è collegato alla radice ἄχος “dolore” (‘πρὸς ὠκύπορον πόρθμευμ’ ἀχέων’), o ancora dei Persiani, 713 s. dove Eschilo colloca nello stesso verso διαπορθέω “distruggere”, verbo di cui è riconoscibile la derivazione da πέρθω, e Πέρσαι il nome del popolo che sarà distrutto. La tecnica di mettere in rapporto le parole può avvenire attraverso la scomposizione del segno linguistico con la ripetizione dei termini, come nei Sette a

Tebe, 576-79 dove Anfiarao si rivolge a Polinice capovolgendo (‘ἐξυπτιάζων’) e

ripetendone (‘ἐνδατούμενος’) due volte il nome; così il nome Πολυνείκης è inteso come ‘νεῖκος πολύ’.

In alcuni casi l’accostamento allusivo di termini lascia posto ad una vera e propria etimologia: abbiamo visto il nome di Zeus (‘διαὶ Διὸς’), Elena (‘ἑλένας’), Dike (‘Διὸς κόρα’) e Apollo (‘ἀπόλλυμι’). L’analisi metalinguistica di Eschilo sfocia nella ricerca del nomoteta al quale sembra riconoscere natura divina. Infatti nell’Agamennone (vv. 681-5) parla di un dio che ha attribuito (ὀνομάζω) ad Elena un nome ἐτήτυμον, determinando il suo destino di “distruttrice di uomini”. Così Eschilo rimane fedele alla tradizione che riconosceva al nome un valore “magico” nel determinare il

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destino di chi lo porta. L’uso di termini tecnici come ἀληθῶς, όρθῶς, ἐτήτυμος servono ad esplicitare l’etimologia del nome e sottolineare la sua autenticità. Interessante l’uso di termini ambigui e politematici (ad es. σῆμα che nei Sette a

Tebe, v. 387 e 404 s. indica l’insegna sullo scudo di Tideo ma anche il sepolcro,

oppure κῆδος in Ag. 699 che assume il significato di “nozze” e “lutto”) che può farci riflettere sulla diffusione nel V sec. delle teorie convenzionaliste. Tuttavia Eschilo non sembra mettere in discussione quanto l’ambiguità semantica rinvia a una realtà complessa e intrinsecamente contraddittoria.

Lo stile eschileo appare grave, ricco di parole composte e altisonanti, cariche di

pathos, come nella deformazione comica dell’Euripide delle Rane, ma abbiamo

constatato che ogni stratagemma linguistico adottato dal poeta è funzionale al messaggio che vuole trasmettere. I composti creano ponti tra i personaggi e ne ispessiscono fortemente il connotato. Sono frequenti composti con ἀνήρ riferiti alle figure femminili che mostrano di possedere capacità virili o sono strettamente connesse agli uomini e ai loro destini: ‘ἀνδρόβουλος’ (v. 11) in riferimento a Clitemestra oppure ‘πολυάνορος’ (v. 62) per Elena, la donna “dai molti mariti” causa della loro distruzione (ἕλανδρος), ‘ἀνδρολέτειρα’ (v. 1465) “sterminatrice di uomini”, ‘ἀνδροσφαγεῖον’ (v. 1092) “macello di uomini” oppure al v. 1035 il nome ‘Κασσάνδρα’ “colei che respinge l’uomo” in quanto παρθένος. Di contro abbiamo i composti con γυνή, come ‘γυναικόποινος’ (v. 225) “per vendicare una donna” in riferimento al sacrificio di Ifigenia, ‘γυναικογήρυτος’ (v. 487) “proclamato da una donna”. E proprio con un gioco di parole tra γυνή e ἀνήρ si conclude il discorso di Cassandra (v. 1318 s.), ‘γυνὴ γυναικὸς ἀντ᾽ ἐμοῦ θάνῃ,/ ἀνήρ τε δυσδάμαρτος ἀντ᾽ ἀνδρὸς πέσῃ’.

Tra i composti più significativi per lo svolgimento della trama abbiamo analizzato quelli con il prefisso δυσ- e la radice νυμφο- che richiamano al ruolo funesto che le nozze di Elena e Paride giocano nella sorte dei Greci e Troiani. Fra i vari esempi ricordiamo ‘δύσεδρος καὶ δυσόμιλος’ (v. 746) quando si parla di Elena e del suo

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riferimento alle parole di Cassandra o ‘νυμφόκλαυτος’ (v. 749) “causa di pianto per le spose”. Abbiamo visto come ogni composto sia funzionale al contesto in cui è posto, così leggiamo vari hapax con δῶμα (v. 948 ‘δωματοφθορεῖν’; v. 968 ‘δωματῖτιν’) quando Agamennone sta varcando la soglia di casa, o con αἷμα (v. 1478 ‘αἱματολοιχός’) quando il delitto si è concluso.Abbiamo richiamato le Rane dove Eschilo compie un’importante dichiarazione poetica: giuste sentenze e grandi pensieri sono espressi da sublimi parole che si adattano, di volta in volta, al messaggio e al personaggio che lo trasmette. Così nel discorso di Cassandra, in cui si alternano momenti di furore mantico ad altri di razionale lucidità, il linguaggio profetico è arricchito con nuovi composti che esaltano la veridicità del suo messaggio: ‘ὀρθομαντείας’ al v. 1215, ‘ἀληθόμαντιν’ al v. 1241. La drammaticità delle parole,l’effetto di paura e terrore che esse provocano nell’uditorio è un’altra caratteristica peculiare dello stile di Eschilo: ricordiamo il nesso ‘οὐ δεισήνορα…τεκνόποινος’ per indicare il funesto destino che attende la casa di Atreo, oppure al v. 14 ‘φόβος γὰρ ἀνθ᾽ ὕπνου παραστατεῖ’ che riprende le parole dell’ “inno” ‘στάζει δ᾽ ἔν θ᾽ ὕπνῳ πρὸ καρδίας/ μνησιπήμων πόνος’ cioè la paura o il dolore tormentano l’animo dell’uomo e lo privano del riposo, concetto sottolineato dalla ripetizione ‘μνησιπήμων πόνος’. Quindi attraverso questi richiami linguistici Eschilo costruisce una rete fitta di collegamenti interni all’opera che arricchiscono e complicano il contenuto dell’opera.

Abbiamo verificato in particolare con Zeus, Elena e Cassandra le congruenze tra l’uso di Eschilo della lingua e il contenuto del messaggio. Ci siamo introdotti nello studio dell’Agamennone e abbiamo esaminato le figure centrali di questa tragedia. Zeus, il sovrano τέλειος, è il motore che aziona tutte le vicende umane e il dio attraverso il quale ogni cosa giunge a compimento (v. 1484 διαὶ Διὸς); da lui hanno origine i mali e le fortune per l’umanità.L’etimologia del nome del dio è seguita da una serie di composti che mettono in rilievo la potenza divina e il ruolo che Zeus gioca nelle sorti umane. Così leggiamo ‘παναιτίου πανεργέτα’, “responsabile di tutto, autore di tutto”, e ‘θεόκραντον’ in riferimento al potere che egli esercita.

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Zeus è colui che garantisce ai due Atridi il potere di cui godono (‘διθρόνου Διόθεν καὶ δισκήπτρου’), il sommo dio (ὕπατος) che impone la vendetta su Paride in quanto violatore dei diritti ospitali. È nell’ “inno” che Eschilo esprime la grandezza di Zeus e indaga sulla sua natura: con la formula ‘Ζεύς, ὅστις ποτ᾽ ἐστίν, εἰ τόδ᾽ αὐ/τῷ φίλον κεκλημένῳ’il coro esprime la sua incapacità di comprendere l’intera essenza divina di Zeus, rivolgendo la sua preghiera ad una divinità tanto straordinaria da non poter essere paragonata a nulla di conosciuto (‘οὐκ ἔχω προσεικάσαι’), il dio timoniere che siede al di sopra di tutti ‘σέλμα σεμνὸν ἡμένων’. Quest’incertezza nel pronunciare il nome corretto della divinità invocata l’abbiamo ritrovata anche nel fr. 281 Radt in cui il coro si rivolge a Δίκη, chiedendo a lei stessa come debba chiamarla: ‘.[..]οῦ[. προ]σ ε ν ν έποντες εὐ.[].ήσομε [ν;’. Nell’ “inno” Zeus viene presentato come il dio ineffabile che dona all’uomo la saggezza attraverso il πάθει μάθος. Tale concetto è sottolineato dalla ripetizione della radice φρεν-/φρον- nelle parole φροντίς, προφρόνως,φρήν, φρονεῖν, σωφρονεῖν. La legge del “conoscere attraverso la sofferenza” è il filo conduttore di tutta la trilogia dell’Orestea, in quanto i personaggi dell’Agamennone, delle Coefore e delle

Eumenidi raggiungono la conoscenza dopo aver affrontato il dolore. La

realizzazione di tale progetto divino avviene ad opera di Dike, la Διὸς κόρα il cui nome ἐτήτυμον viene etimologizzato solo nelle Coefore (vv. 948-51), ma abbiamo visto come nell’Agamennone (vv. 250-3) Eschilo si serva di un diverso strategemma linguistico (la ripresa delle parole chiave πάσχω e μανθάνω) per sottolineare questo legame fra i dio della giustizia e la personificazione di tale potere. Abbiamo ricordato che Eschilo, nel presentare l’etimologia di Zeus e di Dike, si ricollega alla tradizione, riprendendo gli Erga di Esiodo (vv. 1-4 e 256-62). Inoltre al nome di Zeus abbiamo dedicato un paragrafo a sé stante presentando la doppia etimologia avanzata da Platone nel Cratilo (395e-396b) Δία e Ζῆνα: Zeus è colui attraverso il quale (δι’ὃν) tutto prende vita (ζῆν) e si realizza.

Dopo aver ben valutato tutte le componenti costitutive dell’ “inno” e compreso l’importanza della figura di Zeus nella trilogia dell’Orestea, abbiamo rivolto il

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nostro sguardo ad un altro personaggio dell’Agamennone, Elena. Si è visto come

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