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Uno sguardo all’Orestea

Capitolo II: L’Agamennone: strategie linguistiche

II.I.I Uno sguardo all’Orestea

Per avere una visione più completa del ruolo che assume Zeus nella trilogia eschilea e, soprattutto, valutare come i nessi linguistici, a vari livelli, sottoliniano tale ruolo, mi sembra corretto fare alcune considerazioni sull’Orestea.

Chiasson in un suo lavoro154 ha notato come nelle sezioni liriche dell’Orestea vi siano due metri che svolgono un’importante funzione tematica legata alla giurisdizione divina: il colon trocaico del lecizio, associato al giusto ordine dell’universo mantenuto da Zeus, e il ritmo giambico, collegato alle sequenze del peccato e della punizione. Ma nelle opere della trilogia i lecizi assumono toni differenti e veicolano messaggi diversi. Nell’Agamennone tali metri lirici vengono utilizzati da Eschilo nell’ “inno” per sottolineare il proprio ottimismo e la speranza di un miglioramento per l’umanità, mentre nelle Coefore e nelle Eumenidi i lecizi si accompagnano a manifestazioni di lamento per l’intransigenza della legge divina, causa della sofferenza umana. Del resto, nella maggior parte della trilogia non possiamo operare alcuna distinzione fra la giustizia di Zeus e la punizione del peccato commesso dall’uomo.

Nelle Eumenidi Zeus è chiamato in causa per il rapporto con le Erinni vendicative, sottolineato dall’uso dei lecizi in due sequenze liriche: una relativa all’omicidio di Oreste (vv. 490-525), l’altra nel momento in cui il conflitto è risolto e le dee decidono di accettare un posto d’onore nella città di Atena, cantando la partecipazione a un sistema di governo autorizzato da Zeus e la rappresentazione positiva della sua giustizia come una forza che eroga premi e benedizioni, così come pene e punizioni (vv. 916-1031).

Ai vv. 517-25 le Erinni, affermando i principi della giustizia di Zeus, richiamano l’ “inno” dell’Agamennone:

154

Chiasson C.C., Lecythia and the Justice of Zeus in Aeschylus "Oresteia", <<Phoenix>> 42, No. 1 (Spring, 1988), pp. 1-21.

~ 62 ~ ‘ἔσθ᾽ ὅπου τὸ δεινὸν εὖ, καὶ φρενῶν ἐπίσκοπον δεῖ μένειν καθήμενον. ξυμφέρει σωφρονεῖν ὑπὸ στένει. τίς δὲ μηδὲν ἐν δέει καρδίαν ἂν ἀνατρέφων ἢ πόλις βροτός θ᾽ ὁμοί- ως ἔτ᾽ ἂν σέβοι δίκαν;’ 155

Si ribadisce il concetto della necessità del rispetto della legge divina e di Δίκη per la sopravvivenza e il successo degli individui e della società. Ma, seppur simili, i versi delle due tragedie hanno una sostanziale differenza: mentre gli anziani Argivi tentano di trovare una spiegazione per la morte di Ifigenia e sperano nel favore divino, le dee esprimono la loro percezione dell’universo con una fiducia e una chiarezza che convengono alla loro natura divina. Se gli anziani Argivi lottano per vedere la saggezza nella sofferenza, le Erinni affermano serenamente i benefici che per loro comporta la disciplina degli uomini.

Nelle Eumenidi Zeus è la fonte della saggezza156, da lui scaturisce la vittoria e la sua giustizia si estende al di là della sfera meramente punitiva. Egli, come le Erinni, subisce un’evoluzione, una metamorfosi sorprendente e rivela un nuovo aspetto della sua sovranità. Mentre nell’Agamennone il coro immagina un dio che ha imposto la sua legge alla sofferente umanità, sedendo al di sopra degli altri dèi, nelle Eumenidi, grazie all’intercessione di Atena, le altre divinità lo affiancano157, rendendo Zeus un dio umanamente più accessibile. La nuova intimità tra Zeus e i

155

“Talora è bene, ciò che è tremendo,/ e deve restare al suo posto,/ sentinella dell’animo. Giova/ attingere saggezza da costrizione./ e chi, città o essere mortale,/ se non teme nulla nella paura del suo cuore,/ potrà ancora venerare Dike?”.

156 Al v. 850 Atena dice ‘φρονεῖν δὲ κἀμοὶ Ζεὺς ἔδωκεν οὐ κακῶς’. 157

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mortali è resa ancora più notevole dall’espressione ἅζεται158 che indica la reverenza con cui il dio guarda gli Ateniesi. Dunque c’è il rovesciamento del tradizionale rapporto tra dio e uomo, espresso precedentemente nell’ “inno”. Il rapporto uomo-divinità diventa nell’Agamannone complesso, in quanto la χάρις βίαιος, grazie alla quale l’uomo viene colpito dalla sofferenza, assolve a una funzione educativa. Per circa venti volte ricorre il nome di Zeus e i vari personaggi lo identificano con una certa forza fisica o spirituale nel mondo, così ora si fa riferimento ad una divinità agricola responsabile per la maturazione delle colture e per la fecondità della terra (‘Ζεὺς ἀπ᾽ ὄμφακος πικρᾶς/ οἶνον’ v. 970 s., ‘πολλά τοι δόσις ἐκ Διὸς ἀμφιλα-/ φής τε καὶ ἐξ ἀλόκων ἐπετειᾶν/ νῆστιν ὤλεσεν νόσον’ v. 1014 ss.), ora al guardiano di specifiche qualità morali e spirituali e al portatore di giustizia e di vendetta contro i trasgressori di ordine morale (‘οἰωνόθροον’ v. 56, ‘δικηφόρου’ v. 525), ora è descritto come il protettore dei diritti di ospitalità (‘ξένιος’ v. 61, 362, 748) e come il difensore del focolare (‘ξυνεστίου’ v. 704). Zeus nelle opere eschilee appare una figura contraddittoria: prima induce alla guerra e la richiede, facendo di Agamennone il suo strumento bellico di distruzione (vv. 524-8) e di vendetta per l’oltraggio subito da Paride con il ratto di Elena e la violazione dei valori ospitali159, poi punisce il re argivo imputandogli la colpa di aver ucciso la sua prole, proprio lui che aveva per primo commesso il parricidio. Come può essere legittimo lo φθόνος τῶν θεών, l’invidia divina che comporta la pena per gli Achei, se proprio gli dèi hanno stabilito le loro sorti?160 Di

158

v. 1002. Il verbo è usato con ἅγιος per indicare il timore e il rispetto degli uomini verso le divinità.

159

Come abbiamo già ricordato, Zeus è considerato il protettore del focolare e degli ospiti (ξένος). Cfr. Ag. 704.

160

Questa contraddizione è spiegata da Gantz (op. cit., pp. 65-86) come un errore interpretativo del coro che, non conoscendo con esattezza i fatti passati e futuri, valuta sulle proprie congetture. In merito a questo Gantz riporta a confronto il coro dei Persiani. Naturalmente con questo lo studioso non suggerisce l’inesattezza di tutti i cori eschilei, ma soltanto il procedere a tentoni nella ricerca della verità, come accade per tutti i mortali.

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Benedetto161 cerca di spiegare questa ambiguità, affermando che si tratta del prezzo che Eschilo è costretto a pagare per un’operazione estremamente difficile, quale era quella di inserire la concezione di una divinità ostile agli uomini162, che al livello primitivo costituiva una risposta al problema del male del mondo, entro uno schema etico-religioso in cui l’intervento della divinità doveva assolvere a una funzione di giustizia attraverso la punizione della colpa. Assistiamo dunque all’incontro di due filoni culturali: da una parte è esplicito il riallacciarsi alla tradizione epico-eroica, attraverso la ripresa del mito e la messa in rilievo della forza dell’esercito greco e dei suoi condottieri, dall’altra è nuova l’idea che la spedizione sia un atto di giustizia voluto da Zeus come, del resto, la punizione di Agamennone163. In verità questa antinomia è funzionale al messaggio che Eschilo vuole trasmettere: proprio perché la realtà è contradittoria, il poeta sente il bisogno di trovare un principio universale positivo che possa dare speranza agli spettatori ed alleviare la loro angoscia164. E il principio di tale antinomia è Zeus, in quanto attraverso la sofferenza provoca la saggezza. Egli è colui che ha permesso all’uomo di comprendere, di essere cosciente e questa σωφροσύνη è una prerogativa umana. Così Zeus ha concesso all’uomo di essere uomo a tutti gli effetti, donandogli la consapevolezza di sé.

Dunque, come sottolinea Timpanaro165, in Eschilo non c’è una critica esplicita del mito tradizionale, la giustizia di Zeus non è negata. Eppure bisogna considerare che la fede del poeta risulta più problematica da comprendere nell’Orestea che nelle

161 Di Benedetto, op. cit. (1978), p. 147 ss. 162

Per Rosenmayer T.G., Gorgias, Aeschylus, and Apate, <<The American Journal of Philology>> 76, No. 3 (1955), p. 251 ss. Eschilo mette in scena Zeus così descritto perché il dio non ha una reputazione da perdere presso gli Ateniesi; egli è tutto e niente, un essere abbastanza vago e potente da assorbire sia il bene che il male nella sua personalità cosmica.

163

Infatti al v. 973 ss. Clitemestra invoca ‘Ζεῦ τέλειε’ come colui che ha voluto e portato a termine la morte dell’infanticida.

164 Su quest’idea si basano anche Bollack e Judet de La Combe, op. cit. p. 239. 165

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altre opere. L’ “inno” è l’espressione del riconoscimento dell’imperscrutabile giustizia dei Zeus, alla quale bisogna credere se non si vuole naufragare in una totale angoscia; tuttavia Eschilo non riesce a rassegnarsi a tale imperscrutabilità e cerca di dipanare la nebbia che offusca la comprensione agli esseri umani.

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