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LE STRATEGIE LINGUISTICHE NELL'"AGAMENNONE" DI ESCHILO

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Sommario

Introduzione 2

Capitolo I: La riflessione sulla lingua dall’età arcaica all’età classica 3

I. I: La questione etimologica 3

I.II: L’etimologia in Eschilo 16

I.III: Lo stile di Eschilo nelle Rane di Aristofane 23

Capitolo II: L’Agamennone: strategie linguistiche 31

II.I: Zeus, Dike e il πάθει μάθος 31

II.I.I: Considerazioni complessive sull’ “inno a Zeus” 49

II.I.II: Uno sguardo all’Orestea 61

II.I.III: Il nome di Zeus nel Cratilo di Platone 66

II.II: Elena 68

II.III: Il linguaggio di Cassandra 81

Conclusione 87

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~ 2 ~

Introduzione

L’obiettivo del presente lavoro è quello di analizzare la strategie linguistiche impiegate da Eschilo nelle sue tragedie, in particolare nell’Agamennone. In un primo capitolo definiremo il rapporto tra lingua e natura, valutando le riflessioni linguistiche operate dai vari poeti nel corso della tradizione, in modo da comprendere l’importanza che per essi assume lo strumento linguistico nel trasmettere e veicolare la realtà. In una seconda sezione ci serviremo della chiave di lettura fornitaci da Aristofane nelle Rane per studiare lo stile di Eschilo visto sotto un’altra prospettiva, quella dei suoi contemporanei. Muovendoci da questo testo, analizzeremo le principali figure dell’Agamennone e i temi ad esse connessi: Zeus, il dio che porta tutto a compimento, che impone la legge del πάθει μάθος, garantita da Dike; Elena, la causa funesta dei mali troiani e greci; Cassandra, la giovane profetessa vittima del volere divino.

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~ 3 ~

Capitolo I: La riflessione sulla lingua dall’età arcaica all’età

classica.

In questo capitolo cercheremo di dare un quadro generale sull’evoluzione del rapporto lingua-realtà, valutando come, di volta in volta, i poeti e i pensatori si siano approcciati alla lingua e abbiano utilizzato lo strumento linguistico per veicolare un messaggio preciso. Nel dettaglio vedremo l’atteggiamento di Eschilo a proposito e le varie interpretazioni etimologiche adottate nelle sue tragedie.

I.I: La questione etimologica

L’interesse per l’etimologia ha coinvolto gli autori della letteratura greca fin dalle origini. Nella fase più arcaica l’approccio etimologico e la spiegazione del significato delle parole sembrano essere l’unico modo per riflettere sulla lingua e sul rapporto che intercorre fra la lingua e la realtà che essa denota. Solo successivamente la ricerca si amplierà e approfondirà, subendo delle modifiche e implicando un diverso interesse per la lingua dovuto all’evoluzione dei tempi e della società. In questo studio tenteremo di analizzare la riflessione etimologica che Eschilo elabora, in particolare nell’ opera del 458 a.C., L’Agamennone. Naturalmente, per raggiungere tale obiettivo è necessario capire il percorso che, da Omero, scende nel V secolo, con problematiche nuove.

Che ogni considerazione sul fenomeno dell’etimologia debba partire da Omero, è esplicito nel Cratilo (390 d ss.), il dialogo di Platone interamente dedicato al problema della lingua, di cui costituisce preziosa sintesi1:

1

Cfr. Ademollo F., Un’interpretazione del “Cratilo” di Platone, in M. Alessandrelli, M. Nasti de Vincentis (eds.), La logica nel pensiero antico. Atti del I colloquio, Roma 28-29 novembre 2000, Napoli 2009, 15–73; Kahn C.H., Platone e il dialogo socratico. L'uso filosofico di una forma letteraria, Milano 2008. Per una visione generale sul problema etimologico e sullo studio dei nomi vedi Tsitsibakou-Vasalos E., Ancient

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~ 4 ~ ‘κινδυνεύει ἄρα, ὦ Ἑρμόγενες, εἶναι οὐ φαῦλον, ὡς σὺ οἴει, ἡ τοῦ ὀνόματος θέσις, οὐδὲ φαύλων ἀνδρῶν οὐδὲ τῶν ἐπιτυχόντων. καὶ Κρατύλος ἀληθῆ λέγει λέγων φύσει τὰ ὀνόματα εἶναι τοῖς πράγμασι, καὶ οὐ πάντα δημιουργὸν ὀνομάτων εἶναι, ἀλλὰ μόνον ἐκεῖνον τὸν ἀποβλέποντα εἰς τὸ τῇ φύσει ὄνομα ὂν ἑκάστῳ καὶ δυνάμενον αὐτοῦ τὸ εἶδος τιθέναι εἴς τε τὰ γράμματα καὶ τὰς συλλαβάς…οὐκοῦν τὸ μετὰ τοῦτο χρὴ ζητεῖν, εἴπερ ἐπιθυμεῖς εἰδέναι, ἥτις ποτ᾽ αὖ ἐστιν αὐτοῦ ἡ ὀρθότης … ὀρθοτάτη μὲν τῆς σκέψεως, ὦ ἑταῖρε, μετὰ τῶν ἐπισταμένων, χρήματα ἐκείνοις τελοῦντα καὶ χάριτας κατατιθέμενον. … ἀλλ᾽ εἰ μὴ αὖ σε ταῦτα ἀρέσκει, παρ᾽ Ὁμήρου χρὴ μανθάνειν καὶ παρὰ τῶν ἄλλων ποιητῶν’.2

E proprio da Omero viene attribuita correttezza ai nomi, perché essi reggono alla prova etimologica che consiste nell’esprimere una perfetta corrispondenza con la realtà che indicano, come nei casi di Il. VI, 401 ss. e XXII, 507 per il nome di Astianatte3. In Omero, come dice Platone nel séguito del brano che abbiamo visto sopra, caratteristica peculiare è l’utilizzo dei doppi nomi, quelli usati dagli dèi e quelli dagli uomini. Nei poemi troviamo numerosi esempi in merito, come i riferimenti ad un essere semidivino4 o ad un luogo5. Tuttavia, non mancano situazioni in cui il poeta menzioni soltanto il nome divino e, apparentemente, non vi è una spiegazione logica per cui lo faccia. In realtà si tratta di una scelta

2

“C’è ben da supporre dunque, o Ermogene, che non sia cosa di poco conto l’apposizione del nome, come tu pensi, né di uomini da poco, né dei primi capitati, e dice bene Cratilo sostenendo che gli oggetti traggono i nomi da natura e che non tutti sono artefici di nomi ma soltanto colui che guarda bene quello che è per natura il nome per ogni singolo oggetto e che è in grado di introdurne l’idea sia nelle lettere che nelle sillabe…dunque, dopo di ciò, occorre cercare, se tu desideri saperlo, quale mai sia questa sua correttezza… La maniere più corretta, amico, è che tu la conduca con quelli che se ne intendono, pagandoli con denaro o riconoscendo loro anche gratitudine… ma se neppure questo ti appaga, occorre imparare da Omero e dagli altri poeti”.

3

Il figlio di Ettore riceve l’epiteto di “Signore della città” in riferimento a ciò che il padre rappresenta per Troia. Cfr. Platone, Crat., 392b-e. Vedi Arrighetti G., Poeti, eruditi e biografi, Pisa 1987, p. 17.

4

Il. I, 403 s. riferendosi a Briareo-Epeone; XX, 74 parlando del fiume Xanto-Scamandro. Cfr. Plato, Crat. 392a.

5

(5)

~ 5 ~

funzionale al contesto narrativo, cioè quando si vuole mettere in luce la componente divina di un essere o di una cosa si usa la doppia denominazione, invece nei casi in cui si tratta di una realtà posta al di fuori del mondo umano si dà solo il nome divino6. L’etimologia più complessa si ha nel XIX dell’Odissea, in cui si descrive il momento relativo all’imposizione del nome di Odisseo da parte del nonno materno Autolico7 e ne viene data una spiegazione:

‘γαμβρὸς ἐμὸς θυγάτηρ τε, τίθεσθ᾽ ὄνομ᾽ ὅττι κεν εἴπω: πολλοῖσιν γὰρ ἐγώ γε ὀδυσσάμενος τόδ᾽ ἱκάνω, ἀνδράσιν ἠδὲ γυναιξὶν ἀνὰ χθόνα πουλυβότειραν: τῷ δ᾽ Ὀδυσεὺς ὄνομ᾽ ἔστω ἐπώνυμον: αὐτὰρ ἐγώ γε, ὁππότ᾽ ἂν ἡβήσας μητρώϊον ἐς μέγα δῶμα ἔλθῃ Παρνησόνδ᾽, ὅθι πού μοι κτήματ᾽ ἔασι, τῶν οἱ ἐγὼ δώσω καί μιν χαίροντ᾽ ἀποπέμψω’8. (vv. 406-12)

Con il verbo *ὀδύσσομαι si stabilisce una connessione tra Autolico e Odisseo, destinando il nipote all’odio di cui è soggetto il nonno9. Dunque nell’epica arcaica il nome eponimo è imposto (τίθημι) dall’autorità familiare ed evidenza una caratteristica fondamentale del soggetto che denomina, alludendo al suo destino.

6

Questa teoria è stata espressa da Lazzeroni R., Lingua degli dèi e lingua degli uomini, <<Ann. Sc. Norm. Pisa>> 26 (1957) p. 1 ss.

7 Anche Autolico è un nome-parlante e significa “il lupo in persona”. Cfr. Russo J.-Privitera A.G., Omero. Libri

XVII-XX, introduzione, testo e commento a cura di Joseph Russo; traduzione di G. Aurelio Privitera, Milano

1985; Marót K., Autolykos, in Minoica und Homer, hg. Georghiev-Irmscher, Berlin 1961.

8

“Genero mio e figlia mia, imponetegli il nome che io dirò:/ siccome io giungo qui, su questa terra molto feconda,/ odiato da molti, uomini e donne;/ a lui sarà il nome eponimo ‘Odisseo’. Infatti io,/ quando sarà cresciuto, giunga alla grande casa materna/ sul Parnaso, dove sono i miei beni,/ che a lui darò e lo rimanderò indietro felice”.

9 Molto si è discusso sul valore che il verbo abbia in questo luogo, se attivo o passivo. Quest’incertezza è

data dalla presenza di casi in cui il termine indica certamente la passività di Odisseo (quando sono gli dèi ad odiarlo, come in Od. I, 62 e V, 340), e cioè sino ad Od. XIX, mentre nelle parti successive dell’opera la situazione narrativa cambia e Odisseo diventa il soggetto d’odio, non più l’ oggetto, nella vendetta contro i Proci. Cfr. De Jong I.J.F., A Narratological Commentary on the Odyssey, Cambridge 2001, p. 477 s.; Russo J.-Privitera A.G., op. cit., commento al verso; Rank L.P., Etymologiseering en verwante Verschijnselen bij

Homerus, Assen 1951, pp. 51-65; Stanford W.B., The Homeric Etymology of the Name Odysseus, <<Classical

Philology>> XLVII 1952, pp. 209-13; Dimock G., The Name of Odysseus, in Essays on the Odyssey, ed. Taylor C., Bloomington 1963.

(6)

~ 6 ~

Ciò che manca in Omero, diversamente da Esiodo, è l’etimologia dei nomi propri di divinità. Arrighetti formula l’ipotesi che questa mancanza sia dovuta al fatto che “la riflessione sul significato del nome come indicazione e come determinazione del modo di essere di chi lo porta non è arrivata in Omero a coinvolgere gli dèi i quali, come caratteri e competenze, non appaiono nell’epica eroica così minuziosamente differenziati come avviene in Esiodo”10. Un esempio è la dea Afrodite nell’Iliade e nell’Inno omerico, il cui nome non viene sottoposto a etimologia ma gli elementi descrittivi della sua natura e delle sue funzioni sono contestualizzati e chiarificano il significato del nome. Lei, attraverso la persuasione, porta alla distruzione mentale e fisica degli uomini e degli dèi in balia dell’amore, privandoli del giudizio e della ragione e manipolando la loro φρήν11. Un esempio ci viene presentato da Il. XIV, 214-17, dove la dea Era persuade Afrodite ad usare i suoi inganni contro Zeus:

‘ἦ, καὶ ἀπὸ στήθεσφιν ἐλύσατο κεστὸν ἱμάντα ποικίλον, ἔνθα δέ οἱ θελκτήρια πάντα τέτυκτο: ἔνθ᾽ ἔνι μὲν φιλότης, ἐν δ᾽ ἵμερος, ἐν δ᾽ ὀαριστὺς πάρφασις, ἥ τ᾽ ἔκλεψε νόον πύκα περ φρονεόντων’12

Una netta distinzione, seppur nella stessa linea di fiducia nella capacità espressiva del nome, è palese fra Omero ed Esiodo. La ricerca dell’ ὀρθότης in Esiodo è più articolata: troviamo non solo assonanze, ma anche etimologie esplicite di nomi divini ed eroici, giochi di parole, allusioni linguistiche, paretimologie e parafrasi13.

10

Arrighetti, op. cit., p. 18.

11

Per un’analisi più accurata vedi Tsitsibakou–Vasalos E., Aphrodite in Homer and the Homeric Hymns:

poetic etymology, in C. Nifadopoulos (ed.), Etymologia: Studies in Ancient Etymology. Proceedings of the Cambridge Conference in Ancient Etymology, 25–27 Sept. 2000, Münster 2003, pp. 119-29.

12

“Disse, e si sfilò dal petto un reggiseno ricamato/ multicolre, nel quale aveva raccolto tutti gli incanti:/ c’era l’amore, e il desiderio, e il colloquio segreto,/ la persuasione, che ruba il cervello a chi pure ha saldo pensiero”.

13

Mentre le assonanze instaurano un rapporto immediato tra significati e significanti, le parafrasi mirano alla sinonimia tra elementi lessicali distinti. Tra i giochi di parole negli Erga, grande interesse hanno suscitato i “nomi- indovinello”, analizzati da Arrighetti, op. cit., pp. 34-6; Troxler H., Sprache und Wortschatz

(7)

~ 7 ~

La realtà si rispecchia maggiormente nella lingua perché diventa unica, non più sdoppiata in divina ed umana, ma ogni entità ha un unico nome che si riferisce ad una caratteristica propria del soggetto e non ad un patronimico14. Negli Erga la parola è necessariamente vera e corretta perché esprime un significato veritiero ed universale: l’opera vuole impartire un insegnamento a Perse in base all’ordine stabilito da Zeus15. Dunque l’ideale di vita proposto si basa sull’uso corretto della parola, qualità di cui dispongono i poeti e i re per dono delle Muse e attraverso cui nobilitano le loro funzioni. In questa concezione arcaica i nomi sono connessi coerentemente agli elementi del mondo secondo un ordine prestabilito non da un uomo qualunque, ma da un’entità superiore, da una potenza divina. La parola non perde il suo “potere magico” continuando ad indicare, oltre alle caratteristiche del soggetto nominato, anche il suo destino. E proprio per la loro “magia” vi sono nomi che non andrebbero pronunciati (οὐ φατειός, οὐκ ὀνομαστός) per non evocare creature o eventi funesti16, ma accade il contrario e all’affermazione della loro innominabilità segue una descrizione estesa e ricca di particolari. In tali casi il poeta vuole presentare una realtà eccezionale, fuori del comune e delle possibilità espressive di un nome che non è in grado di designarla.

Dopo Esiodo sembra che venga meno la fiducia assoluta nella corrispondenza tra lingua e mondo. Eraclito e Parmenide in realtà la mantengono, anche se con caratteristiche del tutto peculiari. Nel frammento di Eraclito troviamo una certa ambiguità del linguaggio, come nel caso di βίος (vita) che indica la morte (22 B 48 DK). Egli non usa qualificazioni metalinguistiche per rafforzare il nome (ἐτητύμως, ὀρθῶς, ἐπώνυμος), né ci dà delle etimologie esplicite. Si limita semplicemente ad analizzare i nomi e spiegarli come fa per gli altri fatti del mondo, a volte usando

14 Per dare un esempio chiaro ricordo il nome di Afrodite, Th. 188-200: ella è ἀφρογενέα θεάν perché

nacque dalla spuma (ἀφρός + δύομαι). Cfr. Arrighetti, op. cit., p. 26.

15

Cfr. Leclerc, M.C., La parole chez Hésiode: à la recherche de l’harmonie perdue, Paris 1993.

16

Cfr. Th. 148 dove si parla dei Centimani Cotto, Briareo e Gige; v. 310 s. in riferimento a Cerbero. Anche in Omero, Od. XIX, 260 e 597 ricorre quest’idea di inesprimibilità del nome di Troia (‘ᾤχετ᾽ ἐποψόμενος Κακοΐλιον οὐκ ὀνομαστήν’).

(8)

~ 8 ~

giochi di parole. Per Eraclito il mondo è un insieme di elementi, legati fra loro da coppie di opposti, che costituiscono l’ordinamento, l’armonia profonda di tutte le cose e ad essa sono soggetti anche i nomi, secondo una legge di correlazione e contraddizione che tutto domina, nome e cosa non sono distaccate, ma sono strettamente legate e soggiacciono sullo stesso piano17. Il λόγος indica non solo la dimensione ontica della realtà, ma anche quella propriamente ontologica del loro essere che si manifesta attraverso l’indicazione di una serie di nomi, quelli della stessa pienezza essenziale, che restituiscono la profonda e autentica identità dell’essere.

Parmenide, invece, afferma l’arbitrarietà della lingua che resta veicolo di verità per il solo “essere”: “perciò nome sarà tutto ciò che i mortali stabilirono, credendo che fosse vero, il nascere e il perire, l’essere e il non essere, e il mutare di luogo e il cambiar di colore” (28 B 8 DK, vv.28-45). Si perde la fiducia nell’ ὄνομα, perché “solo l’essere è, il nome non coglie l’essenza delle cose” e l’unico termine non contraddittorio, il più adeguato per definirlo è τὸ ἐόν. Il problema della polionimia divina si ritrova anche qui, ma poiché i nomi sono posti a tutto ciò che è, non solo ad un dio, ad essere chiamata in causa è direttamente la loro pluralità che viene ridotta all’essenziale: è scorretto dare due nomi. Dalla pluralità dei nomi può solo risultare l’apparenza, non la realtà, e ciò è caratterizzato dalla coincidenza degli opposti. Svanisce l’oggetto privilegiato dell’analisi etimologica, la divinità, e il campo d’indagine si amplia all’ uomo e ai nomi comuni. Mettendo a confronto i due filosofi possiamo dire che entrambi testimoniano ancora la visione arcaica del linguaggio, ma se per Eraclito la contrapposizione fra gli elementi del cosmo (e di conseguenza i loro nomi) è necessaria per stabilire l’ordine del mondo e la realtà, per Parmenide questo stesso fatto impedisce a tali elementi di essere portatori di verità certa.

17

22 A 14 DK e 14a DK. Cfr. Platone, Smp. 187a-b e Sph. 242d-e in cui Platone attribuisce a Eraclito l’affermazione che l’uno (τὸ ἕν) o l’essere (τὸ ὄν) presentano tratti “discordanti” e “concordanti”, nella misura in cui è appunto ‘ciò che discorda’ che finisce per risultare ‘concorde a sé stesso’. Vedi anche l’introduzione di Fronterotta F., Eraclito. Frammenti, Milano 2013, pp. XIV-XXIII.

(9)

~ 9 ~

L’analisi etimologica non si spiega più come mera assonanza, come prodotto della “magia del nome”, capace di esprimere e condizionare il destino di chi lo porta. Forse questa consapevolezza del “potere della parola” sarà stato il punto di partenza da cui venne avviata e stimolata la ricerca etimologica dei nomi, ma fu presto messa in discussione e superata. È con Empedocle e Democrito che consideriamo chiusa la fase arcaica della riflessione etimologica. Empedocle accosta elementi diversi in linguistica come nella cosmologia in cui si conciliano unità e molteplicità, permanenza e divenire; il cosmo è un dio non omogeneo né permanente, ma si disgrega e ricompone ciclicamente di elementi eterni che danno origine a tutte le cose (31 B 8 DK). In quest’ottica il nome perde il suo valore, dal momento che non vi è una cosa a cui attribuirlo, eppure bisogna poter indicare questi aggregati di acqua, aria, terra e fuoco con un nome puramente convenzionale che l’uomo crea18. Grazie al νόμος l’uomo si serve dei nomi per indicare la realtà ma non sa se siano corretti o meno, se corrispondano a verità. Sulla stessa direzione convenzionalista vanno alcuni dei frammenti di Democrito che ci sono pervenuti, come il fr. 68 B 26 DK, in cui assistiamo ad una vera “crisi” della fiducia nei nomi19:

‘ὁ δὲ Δ. θέσει λέγων τὰ ὀνόματα διὰ τεσσάρων ἐπιχειρημάτων τοῦτο κατεσκεύαζεν˙ ἐκ τῆς ὁμωνυμίας˙ τὰ γὰρ διάφορα πράγματα τῶι αὐτῶι καλοῦνται ὀνόματι˙ οὐκ ἄρα φύσει τὸ ὄνοματα˙ καὶ ἐκ τῆς πολυωνυμίας˙ εἰ γάρ τὰ διάφορα ὀνόματα ἐπὶ τὸ αὐτὸ καὶ ἓν πρᾶγμα ἐφαρμόσουσιν, καὶ ἐπάλληλα, ὅπερ ἀδύνατον˙ τρίτον ἐκ τῆς τῶν ὀνομάτων μεταθέσεως. Διὰ τί γὰρ τὸν Ἀριστοκλέα μὲν Πλάτωνα, τὸν δὲ Τύρταμον Θεόφραστον μετωνομάσαμεν, εἰ φύσει τὰ ὀνόματα; ἐκ δὲ τῆς τῶν ὁμοίων ἐλλείψεως˙ διὰ τί ἀπὸ μὲν τῆς φρονήσεως λέγομεν 18

Come nel caso dei nomi μίξις e διάλλαξις che indicano l’aggregarsi e il disgregarsi degli elementi (vedi fr. sopra citato e 31 B 9 DK).

19 Procl. In Crat. 16 p. 5, 25 Pasquali. La testimonianza di Proclo è molto distante da Democrito, quindi non

possiamo essere certi del lessico usato, se non per i termini che Proclo indica chiaramente come democritei, né del testo nei suoi dettagli.

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~ 10 ~

φρονεῖν ἀπὸ δὲ τῆς δικαιοσύνης οὐκέτι παρονομάζομεν; Τύχηι ἄρα καὶ οὐ φύσει τὰ ὀνόματα’.20

Egli si opponeva all’antica teoria secondo la quale ogni realtà possiede come proprio nome un nome vero, imposto per natura, giusto e conforme alla sua sostanza. La seconda parte del frammento rappresenta una risposta a teorie di tal genere e dimostra l’inconsistenza di simili argomentazioni, nonché il carattere convenzionale delle definizioni linguistiche: è ovvio che le parole sono comparse non φύσει, bensì νόμωι, giacché φύσει sono soltanto gli atomi e il vuoto21.

In epoca classica un grande contributo all’interpretazione etimologica dei nomi propri è dato dalla produzione eschilea. In Eschilo infatti l’etimologia, intesa come recupero della significatività del nome (ὄνομα κύριον), proprio nel periodo in cui le connessioni con la realtà sembrano poter essere messe in dubbio, costituisce ancora l’unica forma assunta esplicitamente nella riflessione linguistica del poeta. In tal senso essa documenta un modo di pensare il linguaggio in termini di ὀνόματα, di nomi considerati esclusivamente nel loro rapporto con la realtà designata. L’analisi etimologica si basa sull’idea che ἔπος ed ἔργον coincidano e si appartengano, che gli atti e il destino dell’uomo si possano spiegare con la sua ἐπωνυμία o addirittura si abbia il dovere di agire secondo essa (ad es. Polinice in

Sept. 576 ss.)22. Anche gli dèi esprimono nei loro nomi le caratteristiche essenziali,

20

“Al contrario, Democrito sostiene la tesi che i nomi sono convenzionali e la stabilisce tramite queste quattro argomentazioni: la prova tratta dall’omonimia: infatti, vi sono realtà differenti che vengono denominate con il medesimo termine, il che già dimostra che il nome non è per natura; la prova desunta dalla polinomia: se vengono attribuiti nomi diversi a un’identica e unica attività e se questi nomi sono tra loro scambiabili, è impossibile che siano per natura; la terza prova è tratta dalla metatesi dei nomi: come potremmo cambiare il nome di Aristocle in Platone e quello di Tirtamo in Teofrasto, se i nomi fossero per natura? La quarta prova è desunta dall’assenza di una costante derivazione dei nomi tra loro per somiglianza: perché dalla parola ‘saggezza’ traiamo il termine ‘ragionare saggiamente’ mentre dal nome ‘giustizia’ non desumiamo alcun altro verbo? Per caso, dunque, si formano i nomi e non sono affatto per natura”. (trad. D. Fusaro)

21

Un’attenta analisi dell’etimologia democritea è fornita da Ademollo F., Democritus B26, on names in C. Nifadopoulos (ed.), Etymologia: Studies in Ancient Etymology. Proceedings of the Cambridge Conference in

Ancient Etymology, 25-27 Sept. 2000, Münster 2003, pp. 33-42.

22

Si tratta dei versi in cui Anfiarao si rivolge a Πολυνείκη invertendo gli elementi del suo nome e calcando le sillabe neikos polu, ‘discordia molta’, per mettere in connessione l’etimologia del nome con ciò che l’eroe

(11)

~ 11 ~

come dimostrano i vari epiteti di Zeus (Ἀλεξητήριος e Λύκειος in Sept. 8 e 145) e di Ermes (Πομπαῖος in Eum. 90 e Κῆρυξ in Cho. 164). Quando ciò si realizza, il discorso poetico si esprime εὐλόγως, ἀληθῶς ο πανδίκως.23

I poeti tragici spesso mettono in relazione tra loro più concetti, o etimologicamente, o per affinità di contenuto o di suono24. Alcune volte l’autore del dramma dice espressamente quale sia la derivazione etimologica del nome (Eur. Ion 1555 s. ‘ἐπώνυμος δὲ σῆς ἀφικόμην χθονὸς/ Παλλάς’; Aesch. Prom. 848 ss. ‘ἐνταῦθα δή σε Ζεὺς τίθησιν ἔμφρονα/ ἐπαφῶν ἀταρβεῖ χειρὶ καὶ θιγὼν μόνον./ ἐπώνυμον δὲ τῶν Διὸς γεννημάτων/ τέξεις κελαινὸν Ἔπαφον, ὃς καρπώσεται/ ὅσην πλατύρρους Νεῖλος ἀρδεύει χθόνα’), altre afferma che il destino di una data persona ha corrisposto nei fatti al nome che le è stato imposto25 (Eur. Phoen. 636 s. ‘ἔξιθ᾽ ἐκ χώρας: ἀληθῶς δ᾽ ὄνομα Πολυνείκη πατὴρ/ ἔθετό σοι θείᾳ προνοίᾳ νεικέων ἐπώνυμον’; So. Aj 321 ‘ἀλλ᾽ ἀψόφητος ὀξέων κωκυμάτων’), altri casi ancora in cui il poeta non fa che associare una parola ad un’altra, senza dire chiaramente che tra le due parole ci sia una relazione per l’etimologia e che questa sia una segno del carattere o del destino del personaggio (So. Aj. 914 ‘κεῖται ὁ δυστράπελος, δυσώνυμος Αἴας;’; Aesch. Ag. 1557 s. ‘[…]πρὸς ὠκύπορον/ πόρθμευμ᾽ ἀχέων’). Uno dei casi più interessanti per l’analisi di questo tipo d’etimologia lo troviamo nell’Agamennone ai v. 1080 s. e 1085 s. Si tratta dell’invocazione di Cassandra che, in preda al delirio profetico, invoca il Lossia chiamandolo per due volte suo “distruttore”:

rappresenta. Polinice, affinché le paterne maledizioni si possano realizzare, è costretto a muovere guerra contro il fratello e a seminare discordia. Non è l’unico luogo nella tragedia in cui si sottolinea l’etimologia: il coro ricorda più volte il significato del nome (v. 678 e 829 s.) ed Eteocle, ai vv. 658 ss., lo definisce ἐπωνύμωι, ‘degno del suo nome’.

23

Per gli epiteti di Zeus cfr. Cook A.B., Zeus: a study in ancient religion, Cambridge 1914-1940.

24

Si veda l’attento elenco che ne fornisce Fuochi M., Le etimologie dei nomi propri nei tragici greci, <<Studi Italiani di Filologia Classica>> 6, 1898, pp. 273-318.

25

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‘ Ἄπολλον Ἄπολλον/ ἀγυιᾶτ᾽, ἀπόλλων ἐμός’ e al verso 1082 ribadisce ‘ἀπώλεσας γὰρ οὐ μόλις τὸ δεύτερον’. In questo modo la profetessa associa, senza specificarlo chiaramente, il nome di Apollo al verbo ἀπόλλυμι “distruggere”, in quanto il dio, rifiutato dalla giovane, la punì infondendole il sapere profetico senza la possibilità di essere creduta, portandola alla rovina. Singolare la situazione rappresentata nelle tragedie di Euripide26 in quanto, se da una parte pare continuare la tradizione etimologica, dall’altra afferma le nuove idee linguistiche convenzionali. Emblematico è il caso delle Baccanti in cui il poeta ci dà dimostrazione di questo duplice atteggiamento: nel primo episodio Tiresia, subito prima dell’uscita di scena, invita Cadmo a pregare il dio perché Penteo non rechi danno alla città (360-365). L’indovino, nel formulare tale augurio, offre l’etimologia del nome Penteo ‘Πενθεὺς δ᾽ ὅπως μὴ πένθος εἰσοίσει δόμοις/ τοῖς σοῖσι[…]’ (367 s.)27, prefigurando misteriosamente il suo destino di dolore e sofferenza. Ciò si connette con il ben noto dato culturale che attribuisce al nome il ruolo di una sorta di “doppio” della persona, per cui conferire un nome equivale ad influenzare, in qualche modo, anche il destino della persona che lo porta. Diversamente accade un centinaio di versi precedenti, quando si afferma che il nome di Demetra è attribuito per convenzione28 come accade nel frammento di

Prodico (84 B 5 DK), dove il sofista espone la sua teoria materialistica sulla nascita degli dèi: ‘[…] Π. δὲ ὁ Κεῖος ‘ἥλιον, φησί, καὶ σελήνην καὶ ποταμοὺς καὶ κρήνας καὶ καθόλου πάντα τὰ ὠφελοῦντα τὸν βίον ἡμῶν οἱ παλαιοὶ θεοὺς ἐνόμισαν διὰ τὴν ἀπ’ αὐτῶν ὠφέλειαν, καθάπερ Αἰγύπτιοι τὸν Νεῖλον’, καὶ διὰ τοῦτο τὸν μὲν ἄρτον Δήμητραν νομισθῆναι, τὸν δὲ οἶνον

26 Per le etimologie in Euripide cfr. Wilson J.R., The Etimology in Euripides, Troades 13-14, <<AJPh>> 89

(1968), pp. 67-71; Kannicht R., Euripides, Helena, Heidelberg 1969, II, pp. 20-22; Looy H. van,

Παρετυμολογεῖ ὁ Εὐριπίδης, <<Zetesis>> (Liber amicorum E. de Strycker), Antwerpen-Utrecht 1973, pp.

344-67.

27 Anche al v. 508 Dioniso rammenta il destino di Penteo dicendo ‘ἐνδυστυχῆσαι τοὔνομ᾽ ἐπιτήδειος εἶ’. 28

(13)

~ 13 ~

Διόνυσον, τὸ δὲ ὕδωρ Ποσειδῶνα, τὸ δὲ πῦρ Ἥφαιστον καὶ ἤδη τῶν εὐχρηστούντων ἕκαστον’. 29

Il panorama relativo alla riflessione sulla lingua non può prescindere dalla considerazione di quel gruppo di intellettuali, a volte molto diversi fra loro, che prende il nome di Sofistica e che improntò di sé almeno la seconda metà del V secolo. La loro considerazione prevalente è che, benché limitata, l’arbitrarietà del linguaggio esista. La nozione di correttezza passa dalla sfera degli dèi a quella degli uomini. Con Protagora ritorna il concetto di ὀρθότης, intesa nel senso grammaticale e logico30. Egli s'interessa in modo particolare alla morfologia definendo il genere dei nomi e scoprendo la differenza tra il tempo e il modo del verbo31; rileva anche alcune contraddizioni della lingua greca che attribuisce caratteristiche del genere femminile a nomi tipicamente riferentesi a evidenze maschili, come i sostantivi greci femminili "ira"(μῆνις) e "elmo"(πήληξ) analizzati nel fr. 80 A 28 DK. Questo dimostra che il linguaggio non ha niente a che fare con la realtà ma nasce da una convenzione tra gli uomini che talvolta è erronea e inadeguata. Compito dell’intellettuale professionista delle parole è allora anche quello di correggere gli errori della lingua per farne uno strumento perfetto all'unico fine di affascinare e persuadere chi ascolta mettendo da parte ogni scrupolo di comunicare una verità in cui si crede (80 A 21a DK). Per Protagora e i suoi seguaci nessuna esperienza esistente in natura è dotata di una propria essenza, “ma quello che cade sotto i sensi dell’uomo, esiste effettivamente; quello che non cade, neppure esiste fra le forme dell’essere” (80 A 16 DK).

29

“ […] SEXT. EMP. adv. math. IX 18. Prodico di Ceo poi dice: ‘il sole la luna i fiumi le fonti e in genere tutte le cose che giovano alla nostra vita, gli antichi le ritennero divinità per utilità che ne deriva; come fanno gli Egizi per il Nilo’; e così il pane fu ritenuto Demetra; il vino, Dioniso; l’acqua, Poseidone; il fuoco, Efesto, e così via ciascuna cosa di cui ci serviamo”.

30

Vedi Corradi M., Protagora e l'ὀρθοέπεια nel «Cratilo» di Platone, in Esegesi letteraria e riflessione sulla

lingua, Pisa 2006, pp. 47-63.

31

(14)

~ 14 ~

Altro caso è quello di Prodico che, convinto della continuità tra natura e cultura, sostiene che le parole ed i nomi non hanno origine nell'arbitrio, ma vengono dalla natura stessa (84 B 4 DK). Nel Protagora viene presentato da Platone come un accanito censore dell’uso lessicale, che si fa scrupolo di precisare, ad ogni parola, il suo esatto significato32. Il sofista cerca di ristabilire il legame tra pensiero, linguaggio e realtà e di rifondare la certezza del significante e del nome nella storia e nella genealogia della parola, evidenziando che gli equivoci e le inesattezze non sono dovute alla debolezza della lingua, ma all'uso impreciso e sommario che se ne fa (341 a-b). Un esempio è il fr. 84 A 19 DK in cui Aristotele cerca di dimostrare l’uguaglianza di significato tra χαρά, τέρψις e εὐφροσύνη, svalutando la tesi di Prodico: ‘ἔτι καὶ εἰ αὐτὸ ἑαυτῶι συμβεβηκὸς ἔθηκεν ὡς ἕτερον, διὰ τὸ ἕτερον εἶναι ὄνομα, καθάπερ Π. διηιρεῖτο τὰς ἡδονὰς εἰς χαρὰν καὶ τέρψιν καὶ εὐφροσύνην˙ ταῦτα γὰρ πάντα τοῦ αὐτοῦ, τῆς ἡδονῆς, ὀνόματά ἐστιν. ALEX. z. d. St. 181, 2 Π. δὲ ἐπειρᾶτο ἑκάστωι τῶν ὀνομάτων τούτων ἴδιόν τι σημαινόμενον ὑποτάσσειν, ὥσπερ καὶ οἱ ἀπὸ τῆς Στοᾶς, χαρὰν μὲν λέγοντες εὔλογον ἔπαρσιν, ἡδονὴν δὲ ἄλογον ἔπαρσιν, τέρψιν δὲ τὴν δι’ ὤτων ἡδονήν, εὐφροσύνην δὲ τὴν διὰ λόγων. νομοθετούντων δέ ἐστι τοῦτο, ἀλλ’ οὐδὲν ὑγιὲς λεγόντων’.33

Scopo di Prodico sembra dunque la ricerca dell’ὀρθότης e la διαίρεσις delle parole.

32

Protagora, 337 a-c.

33

“E ancora è da considerare il caso che un concetto, accidente di sé stesso, sia posto come diverso per il fatto che diverso è il nome; così come faceva Prodico che distingueva i piaceri in gioia, diletto e letizia; e tutti questi sono nomi della stessa cosa, il piacere. ALEX. z. d. St. 181, 2 Prodico cercava di attribuire a ciascuna di queste parole un significato suo particolare, come anche gli Stoici che chiamavano gioia un’esaltazione ragionevole, piacere un’esaltazione istintiva, diletto il piacere derivante dall’udito, compiacimento quello derivante dalle parole. Tutto ciò è da grammatici fissati con le regole, ma non ha nessun valore”.

(15)

~ 15 ~

La definitiva rottura della fiducia che ci sia un rapporto di verità tra cosa e nome è sancita nel Cratilo di Platone34, al termine del quale, dopo lo sviluppo di una serie di etimologie piuttosto complessa, si esprime l’impossibilità di un legame φύσει tra lingua e mondo. In un suo articolo35, Sedley distingue due tipi di etimologie: quelle ‘esegeticamente corrette’, che analizzano in modo appropriato i significati nascosti delle parole, e quelle ‘filosoficamente corrette’ che attribuiscono alle parole quei significati che trasmettono la verità sul loro nome. Per lo studioso tutte le etimologie enunciate da Socrate nel Cratilo appartengono alla prima tipologia, ma solo alcune godono anche della correttezza filosofica. Sia Socrate (397 c) che Cratilo (438 c) suggeriscono la creazione dei nomi da parte dei nomoteti sovrumani, tuttavia per Socrate, alla fine, è impossibile conoscere la realtà attraverso i nomi36.

In coerenza con la complessità dell’argomento, non possiamo dimenticare che Platone stesso ricorre all’etimologia in sezioni delle sue opere di straordinario spessore, quale, nel Timeo, la presentazione del Demiurgo (41 a 7-8):

‘θεοὶ θεῶν, ὧν ἐγὼ δημιουργὸς πατήρ τε ἔργων, δι᾽ ἐμοῦ γενόμενα ἄλυτα ἐμοῦ γε μὴ ἐθέλοντος. τὸ μὲν οὖν δὴ δεθὲν πᾶν λυτόν, τό γε μὴν καλῶς ἁρμοσθὲν καὶ ἔχον εὖ λύειν ἐθέλειν κακοῦ’.37

34

La trattazione si sviluppa attraverso l’esposizione di due tesi: quella di Cratilo, secondo cui la correttezza dei nomi dipende da un criterio naturale, in modo tale che essi vengano posti per la natura oggettiva delle cose nominate (383 a-b), e quella di Ermogene che, al contrario, pensa che il criterio di correttezza sia convenzionale; i nomi dipendono da un accordo tra i diffusori e ognuno è libero di dare il nome che più gli aggradi (384 c-e).

35 Sedley D., The Etymologies in Plato's Cratylus, <<The Journal of Hellenic Studies>> 118 (1998), pp.

140-154. In questo e in un altro suo lavoro, Plato’s Cratylus, Cambridge 2003, smentisce la tesi dei suoi colleghi che leggono l’analisi etimologica di Platone in chiave ironica. Cfr. Ademollo F., Un’interpretazione del

“Cratilo” di Platone, in M. Alessandrelli, M. Nasti de Vincentis (eds.), La logica nel pensiero antico. Atti del I colloquio, Roma 28-29 novembre 2000, Napoli 2009, 15–73.

36

Crat. 438d- 439b.

37

‘Dèi, figli di dèi, di cui io sono padre ed artefice, grazie a me le cose che sono generate sono indissolubili, fin quando lo voglio. Tutto ciò che è legato si può sciogliere, ma è un male voler sciogliere ciò che è ben armonizzato e sta bene insieme’.

(16)

~ 16 ~

In questo passo il Demiurgo descrive in modo diretto la propria funzione e si definisce πατήρ, collegando la propria identità all’attività creatrice: è Demiurgo in quanto le sue opere nascono da lui, ‘δι᾽ ἐμοῦ γενόμενα’38. Come ha ben sottolineato Regali39, non sfugge l’assonanza fra il nome “Demiurgo” e la sequenza ‘ἔργων, δι᾽ ἐμοῦ’, attraverso cui si costituisce etimologia del nome. Il Demiurgo è colui per mezzo del quale gli ἔργα (nella fattispecie la creazione del cosmo) si realizzano. Sicuramente δι᾽ ἐμοῦ e δημιου non coincidono in modo perfetto, ma già Socrate nel Cratilo riesce a superare quest’ostacolo, affermando la possibilità di aggiungere, sottrarre, posporre lettere o sillabe nell’indagine sull’etimologia (393e-394c), mantenendo il τύπος del nome.

Da questa analisi deduciamo che nel corso della tradizione letteraria greca i pensatori hanno sempre nutrito un grande interesse per la lingua, mezzo fondamentale per la comunicazione delle loro idee. Ma ogni poeta e filosofo ha adottato questo strumento in modo differente, secondo le concezioni individuali e sociali. L’indagine etimologica ci aiuta a comprendere quest’evoluzione e a cogliere pienamente il messaggio che ogni poeta vuole trasmetterci. Partendo da questo presupposto, studieremo nel particolare Eschilo e il suo approccio con la lingua.

38

Per l’etimologia del nome con la preposizione διά cfr. Esiodo, Erga 2-4 ed Eschilo, Ag. 1484-87.

39

(17)

~ 17 ~

I. II: L’etimologia in Eschilo

Studiando le tragedie di Eschilo si entra concretamente in contatto con una prova etimologica che tendenzialmente funziona, proprio negli anni in cui la fiducia del rapporto nome-realtà entra in crisi. L’indagine del nome è uno dei tanti mezzi di espressione con cui il poeta esprime un nuovo messaggio e appare di preferenza nei punti decisivi e di maggior tensione, come dimostra la tragedia che prenderemo in esame. Le interpretazioni etimologiche di Eschilo, considerate nel loro insieme, non costituiscono un dato uniforme né sul piano del contenuto né su quello dell’espressione. Reinberg40 ha assimilato l’etimologia eschilea ad un’uguaglianza matematica, in quanto la spiegazione del nome si sviluppa o tramite l’accostamento di due termini affini41 o mediante scomposizione del segno linguistico e ripetizione dei termini costituenti il nome etimologizzato42. I casi di quest’ultimo gruppo presentano un uso della terminologia etimologica volto a porre in rilievo l’ambivalenza lessicale di determinati segni linguistici. Il meccanismo dell’associazione è assente, mentre il momento metalinguistico permane, non per rimandare ad un secondo termine sottointeso, ma per sottolineare la validità etimologica di un determinato segno linguistico. La verità di questo nome si rivela come una carica ad esso interna, individuabile nella sua qualità di segno polisemico: infatti, nel particolare contesto in cui si colloca, il

40

Reinberg C., Etimologia in Eschilo: modalità e significato della riflessione linguistica in un testo poetico, <<Sandalion>> 4, 1981, p. 34.

41 Come in Suppl. 41-8 dove il nome di Epafo è etimologizzato attraverso l’accostamento del termine

ἔφαψις perché grazie al tocco di Zeus la giovenca diede alla luce Epafo. Tale associazione recupera nel nome proprio l’impronta del gesto divino che diede origine alla stirpe di Danao. Altro esempio è Ag. 1555-59: Eschilo etimologizza a suo modo il nome del fiume infernale Acheronte, collegandolo alla radice ἄχος “dolore” (πρὸς ὠκύπορον πόρθμευμ’ ἀχέων), e Persiani, 713 s. per il nome Πέρσαι associato al verbo διαπορθέω “distruggere”.

42 Sept. 576-9. Questo accade anche in Esiodo, Th., 36-79, in cui i nove nomi delle Muse sono etimologizzati

attraverso dei rinvii testuali nei quali Esiodo descrive le singole competenze delle dee: κλέω-Clio; ἐν θαλίῃς-Talia; ἐρατὴν-Erato; μέλπω-Melpomene; οὐρανῷ-Urania; τέρπω…χοροὶ-Terpsicore; ὑμνέω-Polimnia; τέρπω-Euterpe; ὀπὶ καλῇ-Calliope. Cfr. Senis, B., Κοῦραι ἀρτιέπειαι. Le Muse e i loro nomi nella Teogonia di

Esiodo, in Σύγκρισις, Genova 1984, pp. 66-83; Arrighetti, op. cit., p. 24; Gambarara D., Alle fonti della

(18)

~ 18 ~

termine vede contemporaneamente realizzate entrambe le proprie valenze semantiche. L’utilizzo dell’ambiguità semantica di un segno linguistico costituisce sempre un momento di particolare consapevolezza linguistica del poeta. Tale operazione presuppone infatti, in chi trasmette il messaggio, una riflessione sulle possibilità di significato del termine preso in sé e per sé, riflessione che, una volta realizzato il messaggio, perdura in esso come riferimento più o meno esplicito al codice di comunicazione. Quando questo riferimento consiste in una valutazione positiva che inserisce l’ambivalenza lessicale nello spazio dell’etimologia, ciò testimonia sia l’estremo interesse del poeta nei confronti del fatto polisemico, sia la sua volontà di renderlo esplicito mediante il solo strumento metalinguistico che egli conosca: la terminologia etimologica. Ma, al tempo stesso, legare l’interesse per l’ambiguità semantica al momento etimologico significa scoprire anche nella realtà la dimensione dell’ambiguità. Un esempio è il caso di σῆμα che ricorre per due volte nei Sette contro Tebe (v. 387 e 404 s.) con significato differente. Siamo nel secondo episodio in cui vengono descritti gli eroi che si affronteranno nell’imminente battaglia e, in questo clima particolare, dove la sensibilità linguistica del poeta si fa più acuta, il motivo dell’insegna sullo scudo esercita un notevole peso. Dapprima, σῆμα indica l’insegna superba che Tideo porta sullo scudo, il cielo che brucia di stelle e la fulgida luna, ma, nei versi successivi, Eteocle ribalta quest’immagine di splendore in una visione di tenebra e di morte, con le parole ‘καὶ νύκτα ταύτην ἣν λέγεις ἐπ᾽ ἀσπίδος ἄστροισι μαρμαίρουσαν οὐρανοῦ κυρεῖν, τάχ᾽ ἂν γένοιτο μάντις ἡ ἀνοία τινί. εἰ γὰρ θανόντι νὺξ ἐπ᾽ ὀφθαλμοῖς πέσοι, τῷ τοι φέροντι σῆμ᾽ ὑπέρκομπον τόδε γένοιτ᾽ ἂν ὀρθῶς ἐνδίκως τ᾽ ἐπώνυμον,

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~ 19 ~

καὐτὸς καθ᾽ αὑτοῦ τήνδ᾽ ὕβριν μαντεύσεται’.43

In questo modo Eteocle capovolge la descrizione dell’insegna e la correttezza etimologica consiste nella complessità del paradigma semantico di σῆμα, il quale ammette anche il significato di “sepolcro”44. In altre parole l’immagine portata sullo scudo di Tideo e la realtà racchiusa nel nome potrebbero essere contemporaneamente la notte della morte e l’insegna che si fa tomba45.

Nell’etimologia per interpretazione sintagmatica il poeta procede con il sottolineare le componenti lessicali individuate nell’ ὄνομα ridistribuendole lungo il testo, ora lasciandole invariate, ora sostituendole con sinonimi. Un esempio è il secondo episodio dei Sette contro Tebe, vv. 576-79

‘καὶ τὸν σὸν αὖθις προσθροῶν ὁμόσπορον, ἐξυπτιάζων ὄμμα, Πολυνείκους βίαν, δίς τ᾽ ἐν τελευτῇ τοὔνομ᾽ ἐνδατούμενος, καλεῖ. […]’46

In questo passo l’allusione etimologica circola nell’aria senza esprimersi compiutamente in una spiegazione, mentre il testo è integralmente occupato dall’operazione di scomposizione e manipolazione del nome. Ciò dimostra quanto fosse profondo l’interesse del poeta per l’indagine etimologica e quanto viva la familiarità con i problemi posti dall’etimologia, ivi compresi quelli di metodo. Qui il discorso sul linguaggio si sposta dal segno linguistico ai modi con cui indagare questo segno, attingendo ad un livello superiore di analisi metalinguistica che

43 “E questa notte che dici trovarsi sullo scudo,/ risplendente di stelle del cielo…/ebbene, il folle vanto

potrebbe forse indicare il futuro per qualcuno:/ infatti, se la notte calasse sui suoi occhi nel momento del trapasso, allora,/ per chi la porta, quest’insegna troppo orgogliosa/ giusto e corretto avrebbe il nome,/ ed egli avrà rivolto verso sé stesso quest’oracolo di dismisura”.

44

La possibilità di utilizzare la doppia accezione di σῆμα come “segno per cui si riconosce un sepolcro” e “tomba”, è confermata da Platone in Crat. 400c.

45

Per ulteriori approfondimenti vedi Reinberg, op. cit., p. 48-57.

46

“E inveisce contro tuo fratello, il possente Polinice,/ rovesciando, spezzando e raddoppiando alla fine il suo nome […]”.

(20)

~ 20 ~

sfocia nella ricerca del nomoteta, cioè di colui che pone i nomi alle cose e alle persone. Questo è esplicito in Ag. 681, dove Eschilo riconosce l’intervento linguistico di un’entità divina, consapevole del destino dell’uomo e forgiatore di denominazioni corrette: ‘τίς ποτ᾽ ὠνόμαζεν ὧδ᾽ ἐς τὸ πᾶν ἐτητύμως— μή τις ὅντιν᾽ οὐχ ὁρῶμεν προνοί- αισι τοῦ πεπρωμένου γλῶσσαν ἐν τύχᾳ νέμων;’47

Nel passo, come risulta evidente, si riprende la tradizione omerica ed esiodea48. Infatti il verbo ὀνομάζω, insieme a τίθημι, è usato dai due poeti epici per indicare l’imposizione dei nomi da parte di dèi o uomini che li scelgono con consapevolezza e veridicità. Inoltre, abbiamo già visto come sia per Omero che per Esiodo il nome abbia un valore “magico” nel determinare il destino di chi lo porta. Ma Eschilo non rimane insensibile all’influsso delle nuove idee del suo tempo sulla lingua e, a mio parere, mette in dubbio l’univocità del linguaggio nel momento in cui adotta dei termini dal significato ambiguo. Questa nuova consapevolezza esplode con estrema chiarezza nell’Agamennone, sempre nel secondo stasimo, luogo privilegiato di riflessione, anche linguistica. La vicenda di Elena, vista dagli occhi dei Troiani, appare come un contrapporsi di gioia e pianto: il termine κῆδος, nella sua duplice accezione di “lutto” e “matrimonio” è definito ὀρθώνυμον proprio per questa sua capacità di caratterizzare, nell’unità del segno, la contraddittorietà del reale49. Un’altra etimologia che esprime questa complessità della realtà è quella

47

“Chi mai le dette questo nome, completamente veritiero/ forse qualcuno che non vediamo, che prevedendo il destino/ dirige la lingua al bersaglio?”. Si fa riferimento ad Elena il cui nome è etimologizzato (e di questo parleremo più avanti).

48

Sul rapporto Esiodo-Eschilo vedi Solmsen F., Hesiod and Aeschylus, Ithaca 1949.

49 Come già in Eraclitonei passi che abbiamo sopra esaminato. Cfr. Gambarara, op. cit., p. 195. Lo studioso

afferma che la contraddittorietà dei nomi garantisce il legame con la realtà, in quanto valgono contemporaneamente i due diversi significati.

(21)

~ 21 ~

che troviamo in Pers. 714, dove il nome del popolo è associato al verbo πέρθω e l’esplicito richiamo all’identità fonica di πέρσαι e Πέρσαι si configura come un “ossimoro etimologico” dove la forma passiva e quella attiva dello stesso verbo si trovano collegate. In questo modo la realtà si rivela determinata da eventi contrari che si susseguono nel tempo. Dunque i Persiani da ‘distruttori’ risultano ‘distrutti’. Le etimologie di Eschilo sono ben note nel complesso, ma non si collocano tutte sullo stesso piano; alcune appartengono a quella che ormai abbiamo considerato una tradizione letteraria che ha origine nell’epica, cioè la spiegazione di nomi di eroi e luoghi, ma altre hanno un diverso carattere. Il poeta si rivolge al dio per chiedere di svolgere la funzione che un epiteto gli attribuisce come propria, ad esempio in Sept. 8-9 ‘Ζεὺς ἀλεξητήριος/ ἐπώνυμος γένοιτο’ e Eu. 90-1 ‘Ἑρμῆ, φύλασσε: κάρτα δ᾽ ὢν ἐπώνυμος/ πομπαῖος ἴσθι’. Da questi due esempi non sorgono dubbi sul nome proprio del dio, come accadeva all’inizio dell’epoca arcaica, ma in Ag. 160 ss. tutto ciò viene messo in discussione quando il coro si chiede ‘Ζεύς, ὅστις ποτ᾽ ἐστίν, εἰ τόδ᾽ αὐ/τῷ φίλον κεκλημένῳ’50. Un altro caso significativo è il fr. 281 Radt in cui il coro si rivolge a Δίκη, chiedendo a lei stessa come debba chiamarla:

{<ΧΟ.>}.[..]οῦ[. προ]σ ε ν ν έποντες εὐ.[].ήσομε [ν; {<Δ .>} Δίκην μ.[...]ο ν π ρ εσβο .η.ε ...ρο .[

Dunque in Eschilo si attesta il problema di quale nome divino si debba utilizzare, in particolare per le due figure di Zeus e Dike.

Nell’analisi etimologica eschilea grande rilievo ha il termine metalinguistico ἐπώνυμος “nome ben posto, corrispondente”, che ricorre frequentemente con termini di “dire” a costituire la base delle esplicitazioni, come in Suppl. 252 per il nome dei Pelasgi o Prom. 850 s. per quello di Epafo o in Eum. 90 riferendosi ad Ermes. Rispetto all’ ὄνομα, l’ἐπωνυμία si distingue per un implicito riferimento a

50

(22)

~ 22 ~

quel qualcosa di cui il nome è conseguenza. Perciò si traduce meglio come “denominazione”. L’accostamento del nome proprio ad un secondo termine consente di scoprire la realtà ad esso sottostante e di riconoscere l’ὄνομα come segno linguistico dotato di una ragion d’essere che affonda le sue radici nel mondo delle cose. In tale riconoscimento significativa è la serie di avverbi tecnici che connotano la spiegazione del nome come vera, corretta, giusta (ἀληθῶς, ἐτητύμως, ἐνδίκως, πανδίκως, εὐλόγως, ὀρθῶς).

Nel momento in cui Eschilo passa ad analizzare i nomi divini, rinnova e mette in discussione, attraverso il linguaggio, gli antichi temi religiosi recuperati per influsso della speculazione onomatologica (soprattutto pitagorica)51. Se ci si domanda quale sia il nome corretto per chiamare qualcuno, si sostiene che esistano nomi che non lo siano e capire qual è la differenza richiede saggezza. Proprio la capacità di saper comprendere il significato del nome che rispecchia di più la natura del soggetto nominato sarà uno dei temi del nostro lavoro. Possiamo desumere da quest’analisi che la concezione eschilea del segno linguistico riprende quella arcaica e sostanzialista, dove ogni cosa ha soltanto il suo nome ed il nome ha la sorte e il valore della cosa52, ma non manca un certo spirito innovativo, seppur lieve, dovuto alle nuove teorie linguistiche. Egli si serve della tradizione per dare maggior rilievo e forza al messaggio che vuole tramandare attraverso le sue tragedie, ponendo in parti strategiche delle sue opere (vedremo ad esempio nel canto corale) etimologie che mettano in risalto il legame con la realtà e veicolino, necessariamente, un discorso veritiero.

51

Cfr. Gambarara, op. cit. p. 196.

52

La posizione di Eschilo ricorda il fr. 22 B 67 DK di Eraclito: ‘ὁ θεὸς ἡμέρη εὐφρόνη, χειμὼν θέρος, πόλεμος εἰρήνη, κόρος λιμός [τἀναντία ἅπαντα˙ οὗτος ὁ νοῦς], ἀλλοιοῦται δὲ ὅκωσπερ <πῦρ>, ὁπόταν συμμιγῇ θυώμασιν, ὀνομάζεται καθ’ ἡδονὴν ἑκάστου’.

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~ 23 ~

I.III: Lo stile di Eschilo nelle Rane di Aristofane

Dopo la rassegna dei modi più vistosi con cui Eschilo manifesta un uso raffinato degli strumenti linguistici, usiamo il punto di vista di Aristofane per scoprire altre caratteristiche dello stile di Eschilo53. Con questo bagaglio di consapevolezza e con le luci che Aristofane accende su Eschilo, entreremo nell’Agamennone per scoprire le peculiarità espressive, funzionali al contenuto che il poeta vuole trasmettere54. Attraverso il dialogo che Eschilo ed Euripide tessono e le accuse che il secondo muove al suo rivale, siamo in grado di capire, almeno in parte, come veniva recepito lo stile di Eschilo. Nell’agone delle Rane il commediografo rappresenta lo scontro poetico tra i due tragici, in lotta per il premio di miglior poeta e la possibilità di ritornare in vita. Al v. 836 ss., Euripide definisce così il linguaggio eschileo:

‘ἐγᾦδα τοῦτον καὶ διέσκεμμαι πάλαι, ἄνθρωπον ἀγριοποιὸν αὐθαδόστομον, ἔχοντ᾽ ἀχάλινον ἀκρατὲς ἀπύλωτον στόμα, ἀπεριλάλητον κομποφακελορρήμονα’55

Eschilo è dunque accusato di comporre versi dallo stile grave con un linguaggio presuntuoso, tronfio, una lingua che non conosce freno, non ha misura né barriere. Ed analizzando l’Agamennone capiamo bene a cosa Euripide/Aristofane si riferisca: basta scorrere il prologo per leggere molti neologismi e composti

53

Sullo stile di Eschilo vedi Earp F.R., The style of Aeschylus, Cambridge 1948; Stanford W.B., Aeschylus in

his style. A study in language and personality, Dublin 1942, in particolare pp. 1-4 sul criticismo di Aristofane.

54

Per uno sguardo generale vedi Totaro P., Eschilo in Aristofane (Rane 1026-1029, 1431a-1432), <<Lexis>> 24, 2006, pp. 95-125.

55

“Lo conosco costui: è da tanto tempo che lo studio,/ questo arrogante creatore di selvaggi. Ha una bocca sfrenata,/ intemperante, sguaiata,/ non sa far uso di circonlocuzioni, è un oratore che affastella spacconate”.

(24)

~ 24 ~

roboanti che arricchiscono le parole del φύλαξ56, risaltando il messaggio che egli trasmette, come al v. 11 ‘ἀνδρόβουλον’ “di virili propositi”57 riferendosi al desiderio di una donna, Clitemestra, di sapere Troia caduta, oppure al v. 62 ‘πολυάνορος’ in riferimento ad Elena, la donna “dai molti mariti”, causa della guerra58. Ella è ‘ἕλανδρος’, “distruttice di uomini”, e in questo si rivela la negazione di Ἀλέξανδρος, loro protettore59. Da tali esempi capiamo come nell’Agamennone i composti con ἀνήρ siano associati alle donne, sottolineando il ruolo decisivo che esse svolgono nella trama. Un altro esempio significativo è al v. 1465 ‘ἀνδρολέτειρα’, “sterminatrice di uomini”, aggettivo usato da Clitemestra nel ricordare le accuse che il coro rivolge ad Elena nell’intento di discolparla: è come se con questo composto Eschilo associasse le due sorelle destinate ad essere la rovina degli uomini, una indirettamente, l’altra con le sue stesse azioni.

Un’ulteriore accusa di Euripide riguarda la drammaticità delle parole usate da Eschilo, l’effetto di paura e terrore che esse provocano nell’uditorio:

‘[…] ὅτι αὐτὸν ἐξελέγχω. κἄπειτ᾽ ἐπειδὴ ταῦτα ληρήσειε καὶ τὸ δρᾶμα ἤδη μεσοίη, ῥήματ᾽ ἂν βόεια δώδεκ᾽ εἶπεν, ὀφρῦς ἔχοντα καὶ λόφους, δείν᾽ ἄττα μορμορωπά, ἄγνωτα τοῖς θεωμένοις’ (vv. 922-6)60 56

Certamente non mancano i riferimenti al fuoco e alle fiaccole (φρυκτὸς… φρυκτωρίας) dal momento che la vedetta avvista il segnale che annuncia la presa di Troia. Cfr. il discorso di Clitemestra ai vv. 281-316 in cui ricorrono i termini λαμπρός, λαμπάς, πῦρ, πανός, πεύκη, σέλας, φρυκτοῦ φῶς, φάος, φλόξ, φλέγω, λαμπαδηφόρος.

57

Cfr. Earp, op. cit., p. 16 dove lo studioso sottolinea l’importanza di questo composto.

58 Tale composto ricorre solo una seconda volta in Eur. IT 1281, ma in questo caso ha il significato di

“popoloso”.

59

Vedremo meglio più avanti.

60

“Perché lo sto smascherando./ E in seguito, dopo tutte queste sciocchezze, quando il dramma era ormai/ a metà, diceva una dozzina di parole pesanti come buoi,/ di quelle con fiero ciglio e alti cimieri, terribili, spaventevoli,/ sconosciute agli spettatori”.

(25)

~ 25 ~

Eschilo riesce ad enfatizzare il pathos del dramma con il mezzo linguistico, focalizzando l’attenzione degli spettatori su alcune parole che risaltano il messaggio che egli vuole tramettere, come ai vv. 154-6 dove il poeta pone in successione due composti ‘οὐ δεισήνορα…τεκνόποινος’ per indicare il funesto destino che attende la casa di Atreo. Ed è soprattutto il coro capace di adempiere a questo compito. A metà della tragedia si parla di Elena e delle cause che la sua venuta a Troia ha comportato. Dopo aver etimologizzato il nome (come vedremo più avanti), i vecchi Argivi narrano la sua storia servendosi di hapax61 e neoformazioni che contrappongono aspetti piacevoli, felici, a quelli terribili e funesti: insieme a εὐφιλόπαιδα, φαιδρωπός leggiamo πολυκτόνον, δηξίθυμον e molti composti con δυσ- e νυμφο- che richiamano al ruolo funesto che le nozze di Elena e Paride giocano nella sorte dei Greci e Troiani62. E proprio per aver creato questi neologismi che Eschilo viene annoverato fra i più grandi poeti Greci:

‘ἀλλ᾽ ὦ πρῶτος τῶν Ἑλλήνων πυργώσας ῥήματα σεμνὰ

καὶ κοσμήσας τραγικὸν λῆρον, θαρρῶν τὸν κρουνὸν ἀφίει’(v. 1004 s.)63

Ma chi è il poeta? Qual è il suo fine? Sicuramente quello di rendere migliori i cittadini ed Eschilo si può ben definire poeta perché ha avuto il pregio di saper insegnare agli uomini la guerra, a vincere i nemici, presentando personaggio virtuosi, come nel nostro caso il re Agamennone (vv. 1008-36). Egli ha reso gli uomini generosi e ligi al dovere:

‘σκέψαι τοίνυν οἵους αὐτοὺς παρ᾽ ἐμοῦ παρεδέξατο πρῶτον, εἰ γενναίους καὶ τετραπήχεις, καὶ μὴ διαδρασιπολίτας,

μηδ᾽ ἀγοραίους μηδὲ κοβάλους ὥσπερ νῦν μηδὲ πανούργους,

61

Earp, op. cit., pp. 6-38 parla degli ἅπαξ λεγόμενα e dei lunghi composti creati da Eschilo.

62

v. 746 δύσεδρος καὶ δυσόμιλος, v.749 νυμφόκλαυτος, v. 790 δυσπραγοῦντι. Vedremo più avanti che anche Paride è associato alla rovina (Δύσπαρις).

63

“O tu che primo fra gli Elleni, hai innalzato torri di solenni parole,/ e hai abbellito le fole tragiche, fatti coraggio: dà corso al torrente che è in te”.

(26)

~ 26 ~

ἀλλὰ πνέοντας δόρυ καὶ λόγχας καὶ λευκολόφους τρυφαλείας καὶ πήληκας καὶ κνημῖδας καὶ θυμοὺς ἑπταβοείους’ (vv. 1013-17)64

Qualche verso più avanti ritroviamo lo stereotipo comico della disapprovazione dei costumi contemporanei degenerati e la caratterizzazione di Eschilo come portavoce di queste lamentele. Affermando la sua opera demagogica verso i suoi concittadini, Eschilo sostiene di aver insegnato agli Ateniesi della sua generazione ad essere ordinati, disciplinati e quindi "ben educati" (γενναῖοι v. 1011 e 1019). Queste qualità di disciplina e di obbedienza sono, nella sua argomentazione, infinitamente preferibili all’insubordinazione incontrollata e alla spossatezza dell'attuale generazione di buoni a nulla. A differenza di Euripide, Eschilo insegna ai giovani l’onestà, esprimendo giuste sentenze e grandi pensieri attraverso sublimi parole che si adattano, di volta in volta, al messaggio e al personaggio che lo trasmette: ‘[…] ἀλλ᾽ ὦ κακόδαιμον ἀνάγκη μεγάλων γνωμῶν καὶ διανοιῶν ἴσα καὶ τὰ ῥήματα τίκτειν. κἄλλως εἰκὸς τοὺς ἡμιθέους τοῖς ῥήμασι μείζοσι χρῆσθαι: καὶ γὰρ τοῖς ἱματίοις ἡμῶν χρῶνται πολὺ σεμνοτέροισιν. ἁμοῦ χρηστῶς καταδείξαντος διελυμήνω σύ’(vv. 1058-62)65

Qui Aristofane sembra riprendere un frammento di Ferecrate, Krapataloi (fr. 100 PCG), in cui Eschilo dice di aver "consegnato davanti a loro [cioè ai tragici più tardi] una grande arte che ho stabilito" (‘ὅστις <γ’> αὐτοῖς παρέδωκα τέχνην μεγάλην ἐξοικοδομήσας’)66. Dunque era condivisa l’immagine di Eschilo che promuove i

64

“Pensa dunque a come erano quando li ha presi in eredità da me:/ nobili e forti, e non disertori, / nè triviali e imbroglioni- come sono ora!-, e neanche furfanti,/ ma spiravano aste e lance e caschi dai bianchi cimieri/ ed elmi e schinieri e cuori a sette strati di…cuoio”.

65

“Ma, sventurato, occorre/ dar vita a parole che siano all’altezza di concetti e pensieri grandi./ D’altra parte, è naturale che i semidei facciano uso di parole di maggior caratura,/ così come vestono abiti di molto più splendidi dei nostri./ Quanto io avevo insegnato egregiamente, tu l’hai completamente rovinato”.

66

Cfr. Scharffenberger E.W., "Deinon Eribremetas": The Sound and Sense of Aeschylus in Aristophanes'

(27)

~ 27 ~

suoi successi nella costruzione di drammi con un linguaggio che risalta grandi sentimenti ed idee. Così nel discorso di Cassandra, in cui si alternano momenti di furore mantico ad altri di razionale lucidità, il linguaggio profetico è arricchito con nuovi composti che esaltano la veridicità del suo messaggio: ‘ὀρθομαντείας’ al v. 1215, ‘ἀληθόμαντιν’ al v. 1241. Ma oltre all’autenticità delle sue parole, la profetessa sottolinea la drammaticità della visione che il dio Apollo le trasmette, narrando il delitto di Clitemestra ed Egisto attraverso l’uso di termini che rievocano l’uxoricidio: ‘ἀνδροσφαγεῖον καὶ πεδορραντήριον’ al v. 1092, ‘δολοφόνου’ al v. 1129.

Riguardo a Cassandra, è interessante vedere come Eschilo, accusato nelle Rane di non essere capace di rispondere alle domande che gli vengono poste, ricordi la profetessa nell’Agamennone. Vediamo meglio: all’inizio dell’agone (Rane, 832) Dioniso chiede al tragediografo ‘Αἰσχύλε τί σιγᾷς; αἰσθάνει γὰρ τοῦ λόγου’ riferendosi alle calunnie che gli vengono mosse dall’avversario, ed Euripide ribatte ‘ἀποσεμνυνεῖται πρῶτον, ἅπερ ἑκάστοτε/ ἐν ταῖς τραγῳδίαισιν ἐτερατεύετο’. Da questi versi di Aristofane capiamo che portare un carattere muto in scena è un mezzo artistico con cui Eschilo cerca di attrarre l’attenzione del pubblico su quel personaggio67 e, paradossalmente, dargli maggior visibilità dal momento che si rivela tutt’altro che silenzioso68. E proprio questo accade con Cassandra:

‘Κλ.: ἔκβαιν᾽ ἀπήνης τῆσδε, μηδ᾽ ὑπερφρόνει […] ἀλλ᾽ εἴπερ ἐστι μὴ χελιδόνος δίκην ἀγνῶτα φωνὴν βάρβαρον κεκτημένη, ἔσω φρενῶν λέγουσα πείθω νιν λόγῳ[…] εἰ δ᾽ ἀξυνήμων οὖσα μὴ δέχῃ λόγον, σὺ δ᾽ ἀντὶ φωνῆς φράζε καρβάνῳ χερί. 67

Ciò viene ribadito anche ai vv. 911-3 riportando il caso di Achille nei Mirmidoni e nei Frigi. Cfr. Di Benedetto V., Il silenzio di Achille nei Mirmidoni di Eschilo, <<Maia>> 19, 1967, pp. 373-86.

68

Vedi Mastromarco G.- Totaro P., Commedie di Aristofane, vol. 2, Torino 2006, p. 648 s.; Montiglio S.,

(28)

~ 28 ~

Χο.: ἑρμηνέως ἔοικεν ἡ ξένη τοροῦ δεῖσθαι […]’ (vv. 1039-63)69

Il silenzio è inteso come atto di superbia (‘ἀποσεμνυνεῖται’ e ‘ὑπερφρόνει’) o indica il non voler rispondere alle domande. Tutta l’attenzione è rivolta su Cassandra, posta sul carro, in preda al delirio profetico. Sia il coro che Clitemestra cercano di rompere il suo silenzio, o almeno di trovare una buona spiegazione al mutismo della Troiana; pensano che la sua difficoltà consista nel comprendere la lingua greca, possedendo una lingua “barbara”. Appare qui, per la prima volta in senso linguistico, il confronto con il linguaggio degli uccelli, incomprensibile alla mente umana come lo è la lingua straniera70. Il lunghissimo silenzio di Cassandra viene rotto soltanto al v. 1072 da un grido inarticolato e dall’invocazione ad Apollo (‘ὀτοτοτοῖ πόποι δᾶ./ Ὦπολλον Ὦπολλον’), il dio che con il suo doloroso dono ha condizionato tutta l’esistenza della giovane troiana. La presenza silenziosa della donna durante il colloquio fra Agamennone e Clitemestra e il suo ostinato rifiuto di rispondere alle domande della regina risultano di grande efficacia drammatica, accrescendo l’atmosfera di inquietudine in cui si muove il coro, che resterà sgomento di fronte alle rivelazioni fatte dalla profetessa sulle vicende passate e presenti della casa degli Atridi.

Procedendo con l’analisi delle Rane, Euripide continua a muovere accuse pesanti contro Eschilo

69

“Su, scendi dal carro! Non fare la superba[…]/ A meno che non possieda, come le rondini,/ un’ignota lingua barbarica,/ la persuaderò con un discorso che le penetri nell’animo[…]/ se non puoi comprendere,/ né accogliere le mie parole, fatti capire/ con gesti della mano straniera, al posto della voce./ Per la straniera sembra che ci voglia un interprete,/ e acuto[…]”.

70

Gambarara, op. cit. p. 61 s. ricorda che dopo le Guerre persiane si ritrovano specifiche denominazioni per la lingua greca e per quella straniera. Uno dei primi passaggi significativi sono i Persiani, 401-7 e 633-6, oltre ai passi dell’Agamennone sopra indicati.

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