Perché formò natura
animali cotanto velenosi,
se della nostra vita ha tanta cura? 538
Prima di considerare i possibili colpevoli della morte di Druso, bisognerebbe essere certi che sia morto avvelenato. 539 Non solo nel caso del figlio di Tiberio, ma, più in generale, quando abbiamo a che fare con il veleno, le cose nei tempi antichi sono alquanto ingarbugliate.
538
V. Cecco d’Ascoli, L’Acerba, ed. A. Crespi, Ascoli Piceno, 1927, p. 376.
539
Che vi fosse una certa tendenza ad attribuire al veleno la morte dei grandi, anche in assenza di prove, credo possa essere ben esemplificato dalla vicenda della morte di Scipione, per la quale vennero incolpate la moglie Sempronia e la suocera Cornelia. Scipione fu rinvenuto morto, senza segni di ferite. Oggi penseremmo ad un evento vascolare, infarto, ictus o una aritmia fatale. V. Livio, Periocha LIX: “Cum P. Scipio Africanus adversaretur fortisque ac validus pridie domum se
recepisset, mortuus in cubiculo inventus est. Suspecta fuit, tamquam ei venenum dedisset, Sempronia uxor hinc maxime, quod soror esset Gracchorum, cum quibus simultas Africano fuerat. De morte tamen eius nulla quaestio acta.” (“Si opponeva a loro Publio Scipione Africano il quale,
tornato un giorno a casa sua pieno di forze ed energie, fu trovato all’indomani morto nella sua stanza da letto. Fu sospettata di averlo avvelenato sua moglie Sempronia, soprattutto per il fatto di essere sorella dei Gracchi, dai quali l’Africano era diviso da fiera rivalità. E tuttavia sulla sua morte non fu svolta alcuna inchiesta”). V. anche Appiano, Storia Romana, I, 20 (ed. a cura di E. Gabba e D. Magnino, Torino, 2001, pp. 84 – 85): “ὁ Σκιπίων νεκρὸς ἄνευ τραύματος εὑρέθη, εἴτε
Κορνηλίας αὐτῷ, τῆς Γράκχου μητρός, ἐπιθεμένης, ἵνα μὴ ὁ νόμος ὁ Γράκχου λυθείη, καὶ συλλαβούσης ἐς τοῦτο Σεμπρωνίας τῆς θυγατρός, ἣ τῷ Σκιπίωνι γαμουμένη διὰ δυσμορφίαν καὶ ἀπαιδίαν οὔτ' ἐστέργετο οὔτ' ἔστεργεν” (“Scipione … fu rinvenuto morto, senza alcun segno di
ferita, sia che ne fosse stata causa Cornelia, madre di Gracco, perché la legge del figlio non fosse annullata e l’avesse aiutata in ciò la figlia Sempronia che, maritata a Scipione, per la bruttezza e la sterilità non ne era amata né lo amava …”). V. anche Paolo Orosio, Historiae adversus paganos, V, 10, 10 (ed. a cura di A. Lippold, trad. it. A. Bartolucci, II, pp. 46 – 47): “hunc quidam uxoris suae
Semproniae, Gracchorum autem sororis, dolo necatum ferunt, ne scelerata ut credo familia ad perniciem patriae suae nata inter impias seditiones virorum non etiam facinoribus mulierum esset immanior.” (“ Alcuni raccontano che fu ucciso con inganno da Sempronia, moglie sua, ma anche
sorella dei Gracchi: questo, io credo, affinchè quella sciagurata famiglia nata per la rovina della sua patria, già così mostruosa per le empie rivolte degli uomini, lo fosse anche più per le scelleratezze delle donne”).
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In sé, la definizione del crimen detto veneficium è semplice: si tratta evidentemente di un reato perpetrato mediante venena; ma, dal punto di vista sostanziale, sorgono immediatamente dei problemi, perché la nozione di venenum è quanto mai complessa, non univoca, e per vari aspetti lontana dalla mentalità moderna. “ … Venenum sembra connotarsi in primo luogo in senso magico ed esplicarsi soprattutto nel campo di Venus, al cui campo semantico appartiene. Lo si trova così impiegato nel senso di “filtro amoroso”, propinato per far nascere la passione, allontanare o eliminare il rivale, rinvigorire o annientare l’amato; o più genericamente nell’accezione di “incantesimo, sortilegio”, costituito da una componente fisica (un decotto di erbe, un sucus, un liquor) e da una verbale, ambedue cooperanti a raggiungere un determinato risultato.” 540 Nel tempo, lo spettro semantico si arricchisce: rimedio, farmaco, oppure, all’opposto, veleno, sostanza abortiva, ed anche belletto, tintura. “Qui venenum dicit, adicere debet, utrum malum an bonum: nam et medicamenta venena sunt, quia eo nomine omne continetur, quod adhibitum naturam eius, cui adhibitum esset, mutat. Cum id quod nos venenum appellamus, Graeci dicunt, apud illos quoque tam medicamenta quam quae nocent, hoc nomine continentur: unde adiectione alterius nomine (corrige. Nominis) distinctio fit. Admonet nos summus apud eos poetarum Homerus: nam sic ait: “ϕάρμακα, πολλὰ μέν ἐσθλά μεμιγμένα, πολλὰ δέ λυγρά.” 541 Dunque, venenum che può essere preso in bonam come in malam partem. Sinonimo di mistero, irrazionalità, magia, sostanza che opera in modi inesplicabili, che agisce indipendentemente dalla volontà e dal controllo di chi la somministra: significativa la parentela con Venus e vinum, parole che si riferiscono alla perdita del controllo di sé.
Consideriamo adesso il problema dal punto di vista più squisitamente medico. L’elenco degli autori antichi che si sono occupati di veleni ed antidoti è alquanto lungo, e ci consente di farci un quadro abbastanza esatto delle conoscenze in questo campo nel periodo di cui ci stiamo occupando. 542 Esistevano sostanze tossiche, a volte altamente tossiche, di cui si ignorava la pericolosità. Sono noti i casi della segale cornuta, del piombo, del solfato di rame, per limitarsi a qualche esempio. Viceversa, sostanze innocue o quasi erano reputate velenose, per cui accadeva che si propinasse qualcosa a
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V. F. Cavaggioni, Mulier rea, cit., p. 54.
541
V. Gaio, Institutiones, cit. da F. Cavaggioni, Mulier rea, cit., ibidem.
542 G. Squillace (I balsami di Afrodite – Medici, malattie e farmaci nel mondo antico, Sansepolcro,
2015, p. 143), nomina per il IV – III secolo a. C. Diocle di Caristo (Rhizotomikon, Sui farmaci
mortali), Prassagora di Cos (Terapie), Teofrasto (frammenti); per il III secolo a. C. Apollodoro di
Alessandria (Sugli animali, Sui farmaci mortali), Erasistrato di Ceo (Sulle proprietà), Stratone di Alessandria (frammenti), Apollonio di Menfi (frammenti), Filino di Cos (Teriaca), Andreas (Sulle
bestie feroci, Nartex), Numenio di Eraclea (Teriaca, Alieutica); per il III – II secolo a. C. Apollofane
di Seleucia (frammenti), Petrico (Ofiaca); per il II – I secolo a. C. Nicandro (Teriaca e
alessifarmaci); per il I secolo d. C. Celso (Sulla medicina), Scribonio Largo (Ricette mediche), Plinio
il Vecchio (Naturalis Historia), Dioscoride (Materia Medica). Nel II – III secolo scrissero Galeno (Antidoti) e lo Pseudo-Dioscoride (Euporista).
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qualcuno con l’intento di ucciderlo, ma il presunto veleno non si rivelasse efficace. 543 Poco si sapeva su come confezionare le pozioni, poco sulle dosi necessarie ad ottenere un effetto: questo è un punto importante, non solo perché una sostanza può essere più o meno pericolosa a seconda delle modalità con cui viene preparata e delle quantità impiegate, ma perché al tempo di Livilla alcuni dei veleni in uso erano solo moderatamente tossici; alcune delle sostanze più letali oggi note, come il curaro o il cianuro, erano sconosciute. I veleni usati nell’antichità erano soprattutto tre: 1) l’aconito: l’aconitum napellus contiene, specialmente nelle radici, un potente alcaloide, l’aconitina, che ha effetti sulla circolazione sanguigna, l’apparato respiratorio, il sistema nervoso, provocando un brusco calo della pressione, blocco della respirazione e arresto cardiaco. I sintomi sono torpore alla bocca, bruciore all’addome, vomito; entro un’ora sopravviene l’arresto del respiro e del battito cardiaco. Il paziente resta lucido, perché il veleno non ha effetto sul cervello. Anche il semplice contatto con le foglie di aconito può provocare formicolii e disturbi cardiaci transitori; 2) la cicuta, conium maculatum, che contiene vari alcaloidi tossici: conina, conidrina, pseudoconidrina e metilcinconina, con azione su midollo spinale e bulbo, fino alla paralisi respiratoria; una buona descrizione dei sintomi è offerta da Platone, nel racconto della morte di Socrate; 3) l’arsenico (simbolo chimico As). Il protagonista di tanta letteratura gialla era noto fin dal V secolo a.C.; si trova in natura allo stato libero, più spesso combinato a zolfo o metalli, ed è un potente veleno del protoplasma, con effetti su sistema cardiovascolare, intestino, cute, rene, sistema nervoso, sangue, fegato. I sintomi sono bruciore alla bocca, costrizione alla gola (utile nei film per drammatici primi piani della vittima che si sente soffocare), dolore gastrico, vomito, diarrea; si può giungere a convulsioni, coma e morte. Aggiungo alcuni dati sull’avvelenamento da arsenico, che possono fornire qualche ulteriore elemento a supporto dell’ipotesi che Druso sia stato avvelenato con questa sostanza. L’arsenico, nella forma di As2O3 è da sempre stato causa di avvelenamenti, data la sua
facile reperibilità, l’assenza pressochè totale di gusto e l’aspetto simile a quello dello zucchero.544 Solitamente, i disturbi gastrointestinali compaiono entro un’ora dall’assunzione, benchè si possa verificare un ritardo fino a dodici ore dopo ingestione orale, in caso di presenza di cibo nello stomaco. Tale intervallo di tempo può servire, per chi somministra il veleno, a non far immediatamente correlare i sintomi con l’assunzione di un pasto o di una particolare bevanda. I primi sintomi possono essere un senso di
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Ad esempio, Giovenale fa riferimento due volte (Satira I, 70, e Satira VI, 659) al veleno del rospo come mezzo sicuro di sbarazzarsi di un marito ingombrante; in realtà il rospo possiede ghiandole velenose, ma il loro secreto è innocuo per l’uomo. L’esempio più eclatante, in tempi molto più recenti, è forse quello del cuoco di George Washington, pagato dagli inglesi per avvelenare il suo padrone; il cuoco tentò di ucciderlo mettendogli nel cibo del sugo di pomodoro, solanacea considerata, all’epoca, velenosa. Washington sopravvisse.
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Nei tempi moderni, il primo esempio risale al Settecento: “la marchesa de Brinvilliers era già entrata nella storia del delitto, nel XVIII secolo, adoperando per la prima volta l’arsenico per avvelenare prima alcuni pazienti nell’ospedale (dei quali si servì a scopo sperimentale) e in seguito molti membri della sua stessa famiglia”. (V. H. Mannheim, Tratttato di criminologia
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bruciore delle labbra o di costrizione della gola, accompagnati da difficoltà ad inghiottire, seguiti da dolore gastrico, vomito e diarrea. Di norma, si manifestano oliguria, proteinuria, ematuria e, infine, anuria. Talora il paziente lamenta crampi ai muscoli scheletrici e sete intensa. Col progredire della perdita di fluidi compaiono i sintomi dello shock ipovolemico. Nella fase terminale si possono verificare convulsioni ipossiche, finchè non sopraggiungono coma e morte. L’intervallo temporale fra comparsa dei sintomi e morte può essere modulato dall’avvelenatore, in base al dosaggio e alle reazioni del paziente. 545 Ovidio (Ars Amandi, III, 465) adombra la possibilità di somministrare più veleni insieme, per aumentarne l’efficacia: “dare mixta viro tritis aconita cicutis”. Sappiamo inoltre che l’oppio era comunemente usato, ed in dosi elevate può essere mortale. Celso cita la mandragora (mandragora officinarum), l’atropa belladonna, il giusquiamo (Hyosciamus niger), sedativo e antispastico (contiene due alcaloidi depressivi del sistema nervoso centrale, la josciamina e la scopolamina), la dulcamara (Solanum dulcamara) e lo stramonio (Datura stramonium), solanacee neurosedative ed anestetiche. Anche Plinio descrive lo stramonio (secondo lui, alla dose di circa 4 g provoca allucinazioni, 8 g causano la pazzia, dosi maggiori la morte) e l’halicabon (Physalis Alkengi), un’altra solanacea che sarebbe in grado di uccidere più efficacemente dell’oppio. 546
Un elenco dettagliato dei veleni degli antichi è stato compilato da David Kaufman: “let us turn our attention to the poisons and their effects. Possibly the most familiar is hamlock (cicuta). Lucretius makes a statement that goats often fatten on hamlock wich for man is rank poison. Pliny says it is a plant whose seed is noxious, while the stalk is eaten by many people, either green or cooked (Naturalis Historia, XXV, 151 - 154). Its stem is smooth, often as much as three feet in height, and branching at the top. The leaves have a strong odor; the root is never used; the seeds and leaves passen refrigerating properties which are so fatal because they coagulate the blood. In diluited form it has benefical qualities. The best antidote, provided it has not reached the bowels, is wine, says our author; but if it is taken in wine, it is irremediably fatal. The bodies of those poisoned by it are covered with spots. Hemlock was grown at Susa in Assyria, in Parthia, Laconia, Crete, Megara, and Attica. Another poison was henbane (hyoscyamos), found in four varieties. The oil extracted from the seed caused insanity, if injected into the ears, and, according to Pliny, even the leaves exercised a deleterious effect upon the mind. This plant was found in maritime regions. Aconite (aconitum) was commonly used at Rome. It was the most prompt, of all poisones in its effects. Aconite has leaves like a cucumber, never more than four; they are hairy and rise from near the root. It grew on bare rocks, especially in Pontus. Its odor kills mice ata a considerable distance, so we are told. On the other hand, aconite is a useful ingredient, in composition, for the eyes, and,
545 V. AA. VV., Goodman & Gilman – Le basi farmacologiche della terapia, ed. italiana a cura di C.
Sirtori e S. Govoni, Milano, 1997, sub voce “arsenico”.
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taken in mulled wine, neutralizes the venom of the scorpion. The ancients inform us that the ellebore (elleborum or vetratum), especially the black variety, kills animals but was much used by man as a purgative, a remedy for mental diseases, epilepsy, etc. It was found on high mountains. Pliny says (Naturalis Historia, XXVI, 47 – 61) that the people who gather it should eat garlic and drink wine to avoid its effects. Some famous men like Carneades and Chrysippus used it to sharpen their intellectual powers. Pliny ( Naturalis Historia, XXII, 92 – 99) warns against mushrooms because the poisonous cannot always be distinguished from the non-poisonous. He asserts that any become noxious if they grow near a hobnail, a piece of rusty iron, a bit of rotten cloth, or a hole of a serpent, or if they are breathed upon by a serpent. Their medicinal uses, in his day, were for stomach ailments, freckles, and spots on women’s faces, maladies of the eyes, ulcers, eruptions, and bites. Opium, made from the juice of the white poppy,was known to the Romans and was used by them in large doses for suicidal purposes. Small quantities were said to cause blindness, but, if mixed with other matherials, it was considered beneficialfor headache, earache, gout, and erysipelas (Naturalis Historia XX, 198 – 203). Thapsia (Naturalis Historia, XIII, 124 – 126) was very poisonous but little used. It was so noxious that those who gathered the plant waxed their faces. The berries of the yew tree (taxus, v. Naturalis Historia, XVI, 50 – 51) were considered poisonous, and even the wood was thought to be so noxious that it killed those who drank from vessels carved from it. Pliny adds that anyone who sleeps beneath a yew tree, or only takes food there, is sure to meet his death. Arrows may have been dipped into its juice to give them a poisonous coat. The same author claims that the poisonous qualities are entirely neutralized by driving a copper nail into the wood of the tree. One of the varieties of nightshade (strychnos or trychnos) was supposed to cause insality if only a few drops were taken, and istant death from larger quantities. Weapons that were used in battle were poisonned with it. The Greeks maintained that it was productive of delusive and preirient fancies and of vain, fantastic visions. Its antidote was mulled wine. When placed near an asp, it was said to cause torpor in the serpent. It is to be noted that all the poisons which have been mentioned so far are vegetable products.” Kaufman prosegue elencando cantaridi, insetti, nitrum, scorpioni, creature marine (lepus, araneus, trygon), serpi, vipere, salamandre, minerali: gypsum, cerussa, sulphur, argentum vivum, le loro vie di somministrazione, gli antidoti. 547
Impossibile, poi, tener conto delle reazioni individuali: Mitridate aveva dimostrato che si possono ingerire dosi mortali senza risentirne, o quasi. 548 Gli esperti erano i medici, gli apotecari, le erboriste. Sicuramente, uccidere è cosa più facile che guarire, e una certa conoscenza empirica non mancava: se è lecito dubitare che un medico dell’antichità sia mai riuscito a guarire un malato, possiamo invece credere che sia riuscito a spacciarne
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V. D.B. Kaufman, Poisons and poisoning among the Romans, Classical Philology, 27, 2 (aprile 1932), pp. 156 – 167.
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Il fenomeno è noto in medicina come tachifilassi. In epoca moderna, pare che Rasputin sia sopravvissuto a una dose di veleno sufficiente ad uccidere una legione.
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qualcuno col veleno. Anzi, il caso non doveva essere raro, se fu necessario impegnare con giuramento il medico ad astenersi da tale pratica.549 Rimane il fatto che la scienza medica muoveva soltanto i primi passi, ed i casi dubbi, come quello di Druso, sono, credo, destinati a rimanere tali.
Se la scelta tra le sostanze velenose appare ampia, altrettanto possiamo dire dei contravveleni. Per offrire qualche esempio, piuttosto che testi più specialistici, quali il De animalibus venenatis o il De deleteriis pharmacis, dello Pseudo Dioscoride, riferisco qualche passo di Plinio, tratto dalla casistica vastissima accumulata nella Naturalis Historia: “sanguine canino contra toxica nihil praestantius putant” (“contro i veleni delle frecce niente è considerato più attivo del sangue di cane”); “adversus serpentium ictus efficacia habentur fimum pecudis recens in vino decoctum inlitumque, mures dissecti impositi. Quorum natura non est spernenda, praecipue in adsensu siderum, ut diximus, cum lunae lumine fibrarum numero crescente atque decrescente” (“contro i morsi di serpente si considerano efficaci lo sterco fresco di ovino cotto nel vino e spalmato, i topi squartati e applicati sulla ferita. Non bisogna sottovalutare le proprietà naturali dei topi, soprattutto in connessione con gli astri, come dicemmo, dal momento che il numero dei lobi del loro fegato aumenta e diminuisce con la luna”); “quaedam pudenda dictu tanta auctorum adseveratione commendantur, ut praeterire fas non sit, siquidem illa concordia rerum aut repugnantia medicinae gignuntur, veluti cimicum, animalis foedissimi ut dictu quoque fastidiendi, natura contra serpentium morsus et praecipue aspidum valere dicitur, item contra venena omnia, argumento, quod dicant gallinas, quo die ederint, non interfici ab aspide, carnesque earum percussis plurimum prodesse”; (“certi rimedi ripugnanti a descrivere sono raccomandati con tanta insistenza e garantiti da fonti così serie, che non è possibile lasciarli da parte; d’altronde alla base della medicina sta la ben nota simpatia e antipatia delle cose. Per esempio, delle cimici, animali schifosi e tali che si prova ribrezzo solo a nominarle, si cita lo spiccato potere naturale contro i morsi di serpente e soprattutto degli aspidi, similmente contro tutti i veleni: prova ne sarebbe la diceria secondo cui le galline nel giorno in cui hanno mangiato cimici non vengono uccise dagli aspidi e le loro carni sono utilissime ai soggetti morsi da quei rettili”). 550
Il testo prosegue parlando di aspidi, basilischi, 551 pitoni, vipere, antidoti, amuleti, unzioni con ortiche, teriache, bisce che diventano velenose quando sono eccitate dalla
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Recita il Giuramento di Ippocrate: “non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio”.
550 V. Plinio, Naturalis Historia, XXIX, 58, sgg. 551
Per essere un animale inesistente, il basilisco ha avuto vita eccezionalmente lunga. Mille anni dopo, Brunetto Latini lo descrive così: “Basilischio si è una generazione di serpenti: ed è lo re dei serpenti. È sì pieno di veleno, che ne riluce tutto di fuori: eziandio, non che solo il veleno, ma il puzzo avvelena da presso e da lungi, perché egli corrompe l’aria e guasta gli arbori, e il suo odore uccide gli uccelli per l’aria volando”. V. B. Latini, Il Tesoro, in P. Chabaille – L. Gaiter, Il Tesoro di
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luna, scorpioni, e l’animale peggiore di tutti, la salamandra: “salamandra populos pariter necare improvidos potest. Nam si arbori inrepsit, omnia poma inficit veneno et eos, qui aderint, necat frigida vi, nihil aconito distans” (“la salamandra invece è capace di sterminare in una sola volta a loro insaputa interi popoli. Infatti se si arrampica su un albero contamina tutti i frutti e uccide coloro che li abbiano mangiati con l’effetto refrigerante del suo veleno, esattamente come l’aconito”). 552 Plinio elenca altri rimedi, piume di avvoltoio, brodo di pollo, carne di piccione appena strappata, zampe di gufo, sangue di pipistrello con i cardi … c’è da stupire che, con tanti antidoti a disposizione, ci fosse ancora qualcuno che si ostinava a morire di veleno. In questo caso, la colpa andava attribuita ai medici: “discunt periculis nostris et experimenta per mortes agunt, medicoque tantum hominem occidisse impunitos summa est.” (“I medici imparano a nostro rischio e pericolo e fanno le loro esperienze sulla pelle dei malati; solo al medico è garantita l’assoluta impunità nel commettere un omicidio”). 553 Qualche sospetto che quanto esposto sia solo un assortimento di sciocchezze viene anche a Plinio: “Mithridatum antidotum ex rebus LIIII componitur, inter nullas pondere aequali, et quarundam rerumsexagesima denarii unius imperatur, quo deorum, per Fidem, ista monstrante! Hominum enim subtilitas tanta esse non potuit; ostentatio artis et portentosa scientiae venditatio manifesta est.” (“L’antidoto di Mitridate si compone di 54 sostanze, tutte in dosaggio diverso e di alcune se ne prescrive la sessantesima parte di un denario, dietro indicazione di quale dio, in fede mia? L’acume umano non avrebbe