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Tra Lucas e Sierra: maturazione e consolidamento delle avventure grafiche

Se da un lato si assiste negli anni Novanta alla nascita e al consolidamento di nuovi generi videoludici di ampio successo, come gli FPS appena trattati, dall’altro lato ce ne sono altri già esistenti che vanno incontro a modifiche strutturali di varia portata a causa dell’avvento della terza dimensione, che

177 Il parallelismo possibile tra il periodico rilascio di espansioni con il periodico rilascio degli episodi di un videogioco esplicitamente seriale verrà trattato nel capitolo successivo.

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diventa quindi una realtà con cui gli sviluppatori, volenti o nolenti, devono fare i conti se vogliono

stare al passo con questo settore d’intrattenimento, fermo restando che comunque l’impostazione in 2D non scompare assolutamente dalla circolazione (visto che ancora oggi persistono dei titoli bidimensionali). Per esempio, il genere platform negli anni Novanta mantiene intatte le sue caratteristiche identitarie principali, dettate da dinamiche rapide e mirate a superare vari ostacoli col giusto tempismo, ma lo fa implementando la nuova dimensionalità ludica all’interno di un gameplay dalle rinnovate possibilità esplorative rapportate anche alla profondità, come accade per esempio nella famosa saga di Crash Bandicoot, sviluppata da Naughty Dog a partire dal 1996, che cala i giocatori nei panni di un marsupiale geneticamente modificato impegnato a salvare la sua amata dalle grinfie di un dottore pazzo, Neo Cortex. La saga recupera quindi la semplicità narrativa tipica del genere di riferimento, tendenzialmente rivolto a un pubblico dalla fascia di età non adulta, e in certi livelli bonus abbandona la prospettiva tridimensionale per passare a una più classica in 2D, come a volerne rammentare le radici.

Se un genere come il platform ridefinisce alcune sue dinamiche sulla base di una rilettura ludica alla luce delle nuove possibilità prospettiche, mantenendo intatta la semplicità narrativa, un altro che invece cerca di riadattarsi sia a livello ludico che narrativo negli anni Novanta è quello delle avventure grafiche, per il quale è lecito soffermarsi molto di più anche per inquadrare il percorso in cui si collocano i videogiochi a episodi, tendenzialmente afferenti proprio a questo genere.

Gli anni Novanta seguono la scia duopolistica iniziata negli anni Ottanta, grazie a una serie di produzioni importanti firmate dalla LucasArts (ex LucasFilm Games) e dalla Sierra, con un rinnovato monitoraggio alle nuove possibilità espressive stabilite delle innovazioni tecnologiche del periodo. Un autentico caposaldo del genere è The Secret of Monkey Island (abbreviato con TSOMI d’ora in poi), immesso sul mercato nel 1990 e nato dall’estro di Ron Gilbert all’interno di LucasArts. L’utente impersona Guybrush Threepwood, un giovane ragazzo che sbarca su un’isola col sogno di diventare un pirata, fino a cadere all’interno di una spirale sempre più goliardica di eventi: combattimenti con le spade da affrontare selezionando come insultare l’avversario, oltre a enigmi ambientali risolvibili con una dose di ingegno necessariamente coadiuvata da una altrettanta dose di ironia, rappresentano il fulcro del primo capitolo di una saga destinata a diventare celebre. Da un punto di vista tecnico,

TSOMI è il primo esponente che implementa la possibilità di vedere aumentata o rimpicciolita la

grandezza dei personaggi sulla base del loro movimento sullo spazio, ripreso da una camera sempre fissa in un determinato punto. Sotto il profilo narrativo, oltre all’utilizzo di cut-scenes ogni qual volta è presente un dialogo importante che giustifica una particolare enfasi sui volti in primo piano dei personaggi, c’è da sottolineare che tutta la funzionale comicità dell’avventura non proviene soltanto dai filmati, ma in larga parte anche dalle interazioni dell’aspirante pirata con gli altri personaggi. Per

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esempio, durante i dialoghi, dove è possibile scegliere una risposta all’interno di una gamma multipla

di affermazioni, di solito soltanto una frase porta avanti il plot, mentre le altre frasi, pur non rappresentando materiale utile alla prosecuzione del racconto, donano spesso risultati irriverenti che possono stimolare il giocatore a ripetere il dialogo per la semplice curiosità di conoscere cosa avrebbe risposto l’interlocutore nel caso di una scelta diversa.

L’interazione con i personaggi che popolano gli ambienti diventa quindi la chiave essenziale per la manifestazione della comicità intrinseca al titolo, al punto tale da indurre una curiosità non soltanto relativa alla prosecuzione narrativa, ma anche alla ricerca di quei frammenti goliardici legati ad alcuni elementi sparsi per gli ambienti, con cui l’utente può interagire tramite la consolidata interfaccia SCUMM. Si tratta di un titolo denso di personaggi secondari e contenuti al punto da creare uno specifico universo di finzione a sé stante, dove spesso la logica tradizionale deve adattarsi a un contesto con le sue specifiche e irriverenti regole esistenziali, a cui il giocatore è chiamato ad abituarsi abbracciando una notevole dose di creatività man a mano che prosegue. TSOMI si basa dunque su un processo di adattamento nei confronti di ogni nuovo luogo da esplorare e conoscere nelle sue uniche norme esistenziali, proprio come accade all’intrepido protagonista.

Inoltre, il titolo viene suddiviso su tre diversi dischi, anticipando un fenomeno di larga diffusione negli anni Novanta, ovvero quello dei videogiochi dalle grandi dimensioni che necessitano l’utilizzo di più supporti ottici per immagazzinarne tutti i dati, necessariamente frammentati nella loro prosecuzione: in molti casi l’inserimento di un nuovo CD corrisponde a un momento di notevole tensione ludica o narrativa, proprio come potrebbe avvenire all’interruzione di una versione dimostrativa, accostabile come già visto a un cliffhanger di un qualsiasi racconto seriale con puntate interconnesse. La transizione tra un disco e l’altro tende ad avvenire in momenti particolari finalizzati a provocare l’inserimento immediato nel nuovo supporto nella piattaforma di gioco, mascherandone in tal modo la frammentazione, come potrebbe succedere a uno spettatore televisivo che dispone su un supporto ottico di variegate puntate afferenti a un determinato serial. Nel caso di TSOMI la suddivisione tra i dischi diventa anche frutto di enigmatiche sfide, proprio come accade in un momento che vede il videogioco bloccarsi del tutto e chiedere al giocatore di sostituire di continuo tutti i dischi. La rottura della metaforica barriera diventa una interessante fase metaludica, che spinge l’utente a giocare anche con la dimensione oggettistica esterna all’avventura, stimolando ancor di più il suo pensiero laterale e la sua interattività funzionale, in linea con quanto visto con le più remote avventure testuali.

TSOMI segna l’inizio di un periodo molto positivo per la compagnia fondata da George Lucas, sancito

dal seguito del titolo appena citato l’anno successivo, che ne mantiene intatto il gameplay, e quello (tra gli altri esposti in seguito) di Indiana Jones and the Fate of Atlantis nel 1992, su cui vale la pena

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spendere qualche parola. Il titolo fa riferimento alla famosa saga cinematografica per costruire una

vicenda originale che comunque mantiene intatta l’ironia caratterizzante il personaggio reso celebre da Harrison Ford sul grande schermo, ideale per enfatizzare il tono goliardico delle avventure grafiche sviluppate da LucasArts. In questo videogioco il famoso Indie è alle prese con un potente manufatto su cui mettono gli occhi dei soldati nazisti, capitanati da un suo ex amico; il manufatto conduce i contendenti nella città di Atlantide, in cui l’archeologo deve occuparsi di salvare la vita alla sua collega Sophia.

La particolarità della produzione risiede nella possibilità di scegliere una tipologia di approccio tra tre disponibili con cui affrontare una parte dell’avventura: c’è quella d’azione, che prevede degli enigmi ridotti ma varie scene in cui Indie dovrà scontrarsi a mani nude contro degli avversari; quella d’ingegno, che al contrario prevede un maggior numero di enigmi ambientali da superare ma toglie gli scontri; infine quella di squadra, che resta focalizzata maggiormente sui dialoghi, in particolar modo con quelli che riguardano Sophia, la cui collaborazione risulta fondamentale per l’attraversamento di determinati ambienti. Questa tripartizione, oltre a richiamare la classificazione di Romano esposta nel precedente capitolo, evidenzia una variabilità di approccio capace di assecondare una gamma di utenti più ampia, e allo stesso tempo garantisce al titolo una potenziale dilatazione visti i cambiamenti che i tre percorsi assicurano quanto meno sul piano ludico.

La narrazione incorporata, sebbene esperita tramite fasi ludiche variabili a seconda della modalità scelta, conduce comunque a una costante e accomunante fase finale in cui Indie si ritrova ad Atlantide per affrontare i soldati di fronte al macchinario che gestisce il potente manufatto. È in questa fase, quindi successiva ai tre percorsi, che l’utente può influenzare il finale dell’avventura sulla base della risoluzione di un enigma a cui segue un dialogo a scelta multipla: se svolto in modo tale da convincere i nemici ad attivare il manufatto, Indie e Sophia fuggiranno in tempo dall’isola prima della distruzione che ucciderà gli avversari; contrariamente, se il giocatore non sceglie le corrette frasi per convincere i nazisti a usare il manufatto, Sophia si getterà nel macchinario venendone risucchiata, lasciando Indie da solo a guardare verso l’orizzonte; altrimenti, potrà essere Indie a salire sulla macchina per poi esserne risucchiato insieme a Sophia. I tre variabili percorsi ludici dunque portano a una costante situazione conclusiva, che può andare incontro a tre finali variabili sulla base di scelte dialogiche. Il 1993 è l’anno che segna l’arrivo di Day Of The Tentacle, sequel di Maniac Mansion che mantiene lo stesso tono irriverente del predecessore e si svolge alcuni anni dopo gli eventi della mansione: stavolta l’utente prende il controllo di uno dei possibili personaggi conosciuti nella precedente avventura, ovvero il fisico Bernard, affiancato da uno studente, Hoagie, e una studentessa, Laverne. I tre si ritrovano a utilizzare una macchina del tempo difettosa per impedire a un professore maldestro di creare dei tentacoli dotati di personalità malvagie: invece di tornare tutti quanti indietro del tempo,

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Hoagie finisce duecento anni nel passato, Bernard rimane nel presente e Laverne viene catapultata

duecento anni nel futuro. Da questo momento in poi, il giocatore può alternare liberamente il controllo dei tre personaggi, che si muovono dunque in tre epoche diverse, avendo la possibilità di influenzarsi vicendevolmente lo spazio-tempo: alcune azioni di Hoagie nel passato per esempio aprono le porte al proseguimento dell’avventura presente per Bernard, che a catena può fare lo stesso per aiutare Laverne nel futuro. Si assiste dunque a una trama multilineare e interconnessa tra molteplici personaggi da un punto di vista sia ludico che narrativo, accostabile alla pluralità delle linee narrative caratterizzanti la narrativa seriale contemporanea. In tal caso, le diverse linee cercano di arrivare a un punto di convergenza, visto che l’obiettivo di Hoagie e Laverne è quello di tornare nel presente per sconfiggere, unendo le forze con Bernard, le creazioni del professore. A differenza di quanto esaminato per l’avventura del precedente anno incentrata sulle gesta di Indiana Jones, in Day Of The

Tentacle non è possibile avere dei finali differenti, ma soltanto un’unica conclusione comica in cui i

tre personaggi, dopo aver sconfitto con un intelligente stratagemma i tentacoli cattivi indossando una larga maglietta tutti insieme, vengono smascherati dal professore nel momento in cui tentano di fargli credere di essere una creatura aliena. Si tratta di un finale che racchiude il senso del percorso ludico e narrativo dell’intero titolo, basato sull’unione di tre personaggi verso un solo obiettivo comune, raggiungibile soltanto grazie alla loro cooperazione in epoche però ben diverse tra loro, che richiedono gli sforzi di questi tre protagonisti non visibili dunque come un unicum.

Sempre il 1993 segna un primo punto di svolta per la compagnia, visto che grazie a Sam e Max Hit

the Road, basato su una comica avventura investigativa di due animali parlanti, Sam e Max per

l’appunto, l’interfaccia SCUMM viene in parte modificata a causa di un ridefinito inventario, che non occupa più una cospicua parte dello schermo, ma viene chiamato in causa dall’utente tramite la pressione di un tasto, oltre alla possibilità di selezionare determinate azioni scorrendole una volta posizionato il cursore sugli oggetti interessati (Figura 9).

Figura 9. In Sam e Max Hit the Road, l’inventario viene richiamato a parte, e il cursore assume forme diverse sulla base dell’azione che può essere eseguita su ogni determinato oggetto.

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Una soluzione che dunque conferisce maggiore enfasi allo spazio rappresentato, relegato alla

delineazione grafica del surreale mondo di gioco entro cui sono collocati i personaggi, lasciando ai margini lo spazio rappresentante, quello che vive in una dimensione extra-diegetica e serve all’utente per interagire con il sistema178.

Si giunge al 1995, un anno in cui LucasArts ridefinisce parte delle sue direttive creative: Full Throttle infatti è un titolo che, pur non abbandonando il registro improntato sulla comicità che ha sempre contraddistinto le avventure grafiche della compagnia, presenta una trama orientata verso un pubblico tendenzialmente più adulto, improntata sul capo di una banda di motociclisti, impegnato a redimere il nome del suo gruppo da una ingiusta accusa di omicidio perpetrata da un politico senza scrupoli. Una caratteristica importante di Full Throttle è la presenza di fasi di guida e combattimento a bordo dei veicoli, in cui il protagonista si muove su una strada tridimensionale per poi raggiungere e affrontare degli avversari a mani nude o con armi contundenti. Si tratta di un segno evidente che l’avvento della terza dimensione, con le allegate nuove possibilità ludiche e narrative, tocca anche un genere come quello delle avventure grafiche, il quale, recuperando ancora la tripartizione citata nel precedente capitolo di Romano, si è sempre contraddistinto con una forte enfasi sugli atti del dialogo e della raccolta di oggetti, ma soltanto dagli anni Novanta abbraccia anche quello dell’azione. Il titolo in questione inoltre è importante perché, a differenza di tutti gli altri della compagnia sviluppati fino al 1995, alcune azioni ludiche errate possono condurre al game over, causando così la necessaria ripetizione al fine di riparare gli errori commessi: nonostante ciò, le reazioni sarcastiche del protagonista ai fallimenti, in cui si rivolge al giocatore chiedendogli di ricominciare, evidenziano ancora una volta una connotazione ironica della morte, scevra di qualsiasi senso permanente. Il ruolo della morte diventa una componente cruciale dell’ossatura narrativa di The Dig, titolo che segna un cambio di rotta per la compagnia a causa dell’intensità drammatica di alcuni momenti all’interno di una cornice che lascia poco spazio alla più volte menzionata comicità. The Dig viene immesso sul mercato alla fine del 1995, dopo una gestazione travagliata fin dagli anni Ottanta, come afferma lo sviluppatore Brian Moriarty in una recente intervista179. Nato da un’idea di Steven Spielberg, il titolo è denso di contenuti simbolici che non è possibile trattare con dovizia di particolari in questa sede, ma vale comunque la pena soffermarsi sugli eventi principali della narrazione incorporata: un gruppo di astronauti (il comandante Low, l’unico controllato direttamente dall’utente, la giornalista Maggie e l’archeologo Brink) vengono inviati a deviare la traiettoria dell’asteroide Attila, diretto sulla Terra, per poi scoprire che in realtà si tratta di un’astronave contenente al suo

178 Per una disamina precisa sulle rappresentazioni spaziali nei videogiochi, consultare: E. D’Armenio, op. cit.

179 Paco Garcìa, “Interview with Brian Moriarty”, AventuraYcia.com, https://www.aventuraycia.com/entrevistas/en/brian-moriarty/ (ultima visita: 22/12/2018).

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interno un portale per un Pianeta sconosciuto che imprigiona degli innocui alieni, schiavi inconsci

del loro stesso avanzamento tecnologico mirato a conquistare la vita eterna. Uno dei componenti dell’equipaggio, Brink, perisce inevitabilmente nel corso dell’avventura, e viene riportato in vita dai compagni con dei cristalli alieni in grado di sconfiggere la morte, diventando però instabile e pericoloso. Dopo una combutta, Brink cade da una rupe morendo una seconda volta e facendo disperare Maggie, che inizia a dubitare della reale utilità dei cristalli, portandola così a chiedere al comandante di non resuscitarla nel caso in cui anche lei dovesse morire. Ed è proprio ciò che accade all’attivazione del portale capace di riportare gli alieni al loro Pianeta d’origine: in questo momento, l’utente può decidere di mantenere la promessa fatta alla donna, proseguendo senza di lei, oppure scegliere di utilizzare dei cristalli per resuscitarla.

A seconda di questa scelta, il finale, in ogni caso focalizzato sul costante discorso di ringraziamento da parte di uno degli alieni al comandante, con il conseguente ritorno in vita di Brink (seppur da anziano) e Maggie, implica due possibili variabili all’interno di una brevissima cut-scene: se la promessa viene mantenuta, la ragazza sorride al comandante ringraziandolo per la sua onestà; se invece l’utente sceglie di usare i cristalli per salvarla, Maggie guarda in cagnesco e schiaffeggia il protagonista. The Dig, pur non contemplando la morte del protagonista su un piano strettamente ludico, poiché è impossibile ricorrere nel game over, riflette comunque su di essa all’interno di quello narrativo, evidenziando che nonostante la sua ipotetica sparizione dettata dall’avanzamento tecnologico, non può mai causare un ritorno dell’identico individuo precedente alla dipartita. Si tratta di una lettura negativa sul ritorno in vita capace di metaforizzare la prassi della generale ripetizione sottesa all’intero medium, in cui ogni nuova vita dell’avatar deve implicare una necessaria variabilità d’approccio per riuscire a vincere la sfida precedentemente perduta; prassi che, come evidenziato, non fa parte delle direttive creative della compagnia, salvo per il caso isolato di Full Throttle. Come sottolineato da Ron Gilbert nel 1989, infatti, tra le varie regole da seguire per creare un’avventura grafica di successo, è necessario che l’utente debba sentirsi libero di esplorare le più svariate combinazioni per risolvere determinati enigmi, senza che il sistema lo punisca per questa sua necessaria tendenza esplorativa causando la morte del protagonista controllato o l’impossibilità di proseguire per degli oggetti tralasciati precedentemente180.

LucasArts chiude gli anni Novanta con un ennesimo titolo destinato a rimanere negli annali del genere, ovvero Grim Fandango (prima avventura grafica della compagnia ad avvalersi dell’implementazione del 3D su sfondi pre-reindirizzati in 2D), una surreale avventura dai tratti investigativi, con toni alternativamente cupi e ironici, ambientata in un ipotetico mondo oltre la morte

180 R. Gilbert, “Why Adventure Games Suck”, Grumpygamer.com,

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in cui le anime dei defunti hanno le sembianze di scheletri. Prima di arrivare alla loro sistemazione

nell’Aldilà, le anime devono attraversare un percorso di redenzione nella Terra dei Morti della durata di quattro anni, eccezion fatta per quelle moralmente buone che possono andarci direttamente prendendo un treno in grado di compiere l’intero tragitto in quattro minuti. In questo contesto si colloca la vicenda che vede come protagonista Mannie, dipendente di un dipartimento che preleva e dona pacchetti di varia natura ai nuovi arrivati per sancire la durata del loro percorso verso l’Aldilà sulla base della condotta terrena, cercando al contempo di maturare abbastanza credito in modo tale da saldare i debiti che ha accumulato in precedenza, con l’obiettivo di compiere il grande passo verso il vero Aldilà.

Da queste premesse si snoda una narrazione incorporata molto densa di eventi, che coinvolgono l’arrivo di numerosi personaggi secondari con cui Mannie si confronta tramite dialoghi a risposta multipla, svelando un complotto dal quale deve sottrarsi prima di potersi concedere all’amore con Meche, una “donna” dal comportamento terreno encomiabile, che non può compiere il viaggio diretto verso l’Aldilà a causa di alcuni truffatori. Tralasciando i tanti dettagli della trama, che in tal caso non permette in nessun modo al giocatore di influenzarne determinati sviluppi, è necessario sottolineare in questa sede la struttura del titolo, suddiviso in quattro differenti capitoli corrispondenti al Giorno