• Non ci sono risultati.

I LUOGHI DELLA VENDITA

COS’È IL MERCATO DELL’ARTE

I LUOGHI DELLA VENDITA

Le botteghe dei pittori. Le botteghe rappresentavano l’unico luogo dove era sempre lecito produrre e vendere i quadri, ad eccezione delle feste comandate. Come si è detto precedentemente, la bottega internamente doveva esser divisa in uno spazio di laboratorio e uno di negozio vero e proprio, dove vi si trovavano diverse opere in mostra come ci confermano più volte i regolamenti (cap. XXXI, XLV).

La presenza sicuramente più importante, in termini di quantità, che occupava questo spazio espositivo era certamente quella di dipinti già pronti per la vendita, con soggetti devozionali oppure di generi che non richiedevano personalizzazioni, e prezzi abbastanza standardizzati, quindi una scelta adatta per tutte quelle persone veneziane che non potevano permettersi di commissionare un’opera, oppure per i numerosi forestieri che ogni giorno giravano per le calli di Venezia. Alcuni inventari di botteghe e case redatti alla morte dei pittori regolarmente iscritti all’Arte, rivelano infatti l’esistenza di molte opere finite, e la loro scelta dà un’idea più chiara di cosa avrebbe potuto trovare un possibile acquirente. Gaspare Segizzi, iscritto all’Arte come figurer, nel 1576 lascia un elenco topografico delle stanze della propria abitazione, dal quale emerge un numero altissimo di opere d’arte: nelle due stanze accanto al portego del piano superiore tre casse semivuote con «carte da disegno», mentre nel portego del piano sottostante e in una stanza adiacente si trovavano ben venticinque dipinti con ritratti di famiglia, l’effige di un imperatore antico, una Carità romana, un Nerone, probabilmente una Cleopatra con altri imperatori40;

ricordo che l’abitazione ovvero la caxa nei regolamenti corporativi equivale alla bottega, pertanto vi è un’alta probabilità che queste opere, o buona parte di esse, fossero disponibili anche per la vendita. Altri casi, come quelli a proposito di Palma il Vecchio e di Jacopo Bassano lasciano invece ben poco spazio ai dubbi: il prezioso inventario redatto dopo la morte di Jacopo Negretti nel 1528 alla presenza di un mercadante de vin, un tentor e un

39 F. Pitacco, Dal secolo d’oro ai secoli d’oro. I collezionisti stranieri e i loro agenti, in Il collezionismo

d’arte a Venezia. Il Seicento, a cura di Borean L. e Mason S., Venezia, Marsilio, 2007, pp. 103-123:104.

40 L. Borean, Inventari e testamenti d’artista nel Cinquecento, in Il collezionismo d’arte a Venezia. Dalle

origini al Cinquecento, a cura di M. Hochmann, R. Lauber, S. Mason, Marsilio Editori, Venezia, 2008., pp.

frutarol41 ne rivela innanzitutto una situazione patrimoniale positiva, anche dopo il ripianamento dei suoi pochi debiti, come da volontà testamentarie, con un attivo di quattrocentonovanta ducati; tuttavia, la parte più interessante è la seconda, stilata tra l’aprile ed il giugno dell’anno successivo, consistente in un preciso inventario dei suoi beni, compresi quelli nello studio del pittore. Stupisce l’impressionante quantità di opere pronte presenti nella bottega: dieci dipinti di uomini, undici «Madonne e Santi», sette quadri di Gesù benedicente o di singoli santi, due piccole pale d’altare, cinque composizioni religiose (Battesimo di Gesù, Giudizio di Salomone, «Gesù e la Donna di Cana», L’adultera davanti a Gesù e la Fuga in Egitto), due dipinti abbozzati con edifici e paesaggi e altri dodici supporti non dipinti, dei quali dieci preparati a gesso, ed uno di essi recava un abbozzo a carboncino; di queste, soltanto circa il 25% era realizzato su commissione in quanto recante il ritratto del committente42, mentre il resto era destinato di

conseguenza al mercato libero: si tratta infatti per la grandissima parte di composizioni religiose, ovvero soggetti sempre richiesti i quali potevano esser completi senza alcun accordo preventivo con eventuali clienti, molto facile di conseguenza, da vendere al minuto. Nell’inventario di Jacopo Bassano, già menzionato più volte, si può leggere che il notaio registrava che «item per raggion di legato ha lassato tutti li quadri et opere si fatte et finite» ai suoi figli Battista e Geronimo, in quanto gli altri due suoi figli non avevano bisogno di «copie, invention…»43: proseguendo quindi ciò che si era detto e proposito della produzione dunque, le opere realizzate in serie dalla bottega sfociavano per una parte in dipinti pronti per il mercato libero, mentre invece si può pensare che altre opere pronte e probabilmente standardizzate ovvero modelli venissero tenute in bottega per fungere da riferimento per eventuali ordini, dando quindi la possibilità all’ipotetico acquirente di sceglierne una di esse.

Le aste, o incanti. Uno dei circuiti di vendita più interessanti nel contesto veneziano del Cinquecento è quello degli incanti.

Dalle carte della Giustizia Vecchia, emerge che dal XVI secolo le aste erano un comunissimo mezzo di vendita, tanto da avere una frequenza giornaliera come si legge in un atto del 157844, e dal fatto che ancora nel Seicento venivano emesse disposizioni per

41 E. Bernardi, Jacopo Negretti detto Palma il Vecchio, Bergamo, 2009, p. 7. 42 P. Rylands, Palma il Vecchio. L’opera completa, Milano, 1988, pp. 34-35.

43 L. Alberton Vinco da Sesso, F. Signori, Il testamento di Jacopo dal Ponte detto Bassano, «Arte Veneta»,

32, 1979, pp. 161-164:163.

regolamentarle45. Gli incanti avevano luogo in Campo San Giacomo a Rialto, dove dovevano tenersi esclusivamente all’aperto, e non sotto i porteghi a meno che non piovesse46 oppure non si trattasse di incanti di magistrati47.

Chi voleva mettere all’asta i propri beni, avrebbe innanzitutto dovuto recarsi presso la Giustizia Vecchia, dove sarebbe stato registrato dal notaio (nel caso fosse la sua prima vendita) e dove nel caso di un numero maggiore di 10 articoli da vendere sarebbe stato depositato un inventario con specificata la tipologia della merce, la quantità ed il valore di essa, con giuramento che questa non fosse stata prodotta per esser messa all’incanto; il richiedente avrebbe poi potuto richiedere uno o due comandadori, da estrarsi a sorte come si dirà fra poco. Inoltre la «povera gente» la quale avesse voluto mettere in vendita «minima cosa» per un numero inferiore a dieci articoli, che di conseguenza non richiedeva un incanto a sé stante, poteva senza alcun problema dar notifica alla Giustizia Vecchia, che avrebbe rilasciato un bollettino con elencata e descritta la merce da vendersi. Era assolutamente vietato ai membri di qualsiasi arte, produrre o risistemare merce da metter in vendita mediante incanto. Generalmente, chiunque voleva vendere doveva esser presente il giorno dell’incanto, oppure delegare qualcuno e notificarlo alla Giustizia Vecchia48. Gli ufficiali addetti a bandire la merce in vendita erano i comandadori, per un totale di 50, i cui nomi venivano scritti e «imbussolati», per poi esser estratti a sorte ed a turno (non dovevano esserci ripetizioni); come si è detto, chi metteva all’incanto più di dieci articoli aveva dirittto ad uno o due comandadori per sé, mentre invece coloro che avevano poca cosa potevano contare inizialmente su un numero di 4 comandadori (il cui nome veniva scritto in una tavoletta in loco) disponibili per sei giorni a settimana a Rialto, che sarebbero cresciuti a 8 nel 1602 ed addirittura 12 nel 1604 (da cui si evince che ne occorreva un numero sempre maggiore). A presenziare alle aste dovevano esser soltanto loro, mantenendo un atteggiamento imparziale, non accettando assolutamente merci fuori dagli inventari o rialzando i prezzi49.

La merce messa poi in vendita, che dunque poteva esser di qualsiasi sorte e valore, doveva esser elencata in un inventario esposto in pubblico, ed esser soltanto quella notificata50; per queste ragioni è assolutamente da escludersi l’ipotesi di aste specializzate soltanto in

45 A.S.V., Giustizia Vecchia, b. 2, reg. 6, cc. 21v-22r e I. Cecchini, Collezionismo e mondo materiale, in Il

collezionismo d’arte a Venezia. Dalle origini al Cinquecento cit., pp. 165-191:182.

46 A.S.V., Giustizia Vecchia, b. 23, carte sciolte. 47 B.N.M., IT VII 1572 (7642), c. 135r. 48 Ibidem, cc. 134v-138v.

49 Ivi.

quadri (delle quali non c’è alcun riscontro51), quanto piuttosto è da tenere in considerazione la presenza di dipinti insieme al mobilio e ad oggetti casalighi52 come lettiere, tappeti «et altre cose simili de vil precio»53; uno dei primi casi registrati ad esempio era quello del 1417, quando tra i vari articoli, venivano messi all’incanto i beni già di proprietà di Pietro Corner, tra i quali una «figura dantis picta in una tabula» acquistata da Jacopo Gradenigo54. I casi infatti in cui si può supporre la legittima presenza di dipinti ad un’asta sono in primis la morte di un pittore, emblematico il caso di Jacobello del Fiore: il pittore aveva infatti disposto che i suoi beni, che comprendevano numerose case, opere d’arte, un oratorio privato, specchi e orologi, argenterie, porcellane, vetri, tessuti, candelieri decorati e reliquie, al momento della sua morte sarebbero stati messi al «pubblico inchanto», ad eccezione della parte riservata alla moglie Lucia ed al figlio adottivo Ercole, anch’esso pittore, al quale Jacobello affidava gli strumenti del mestiere compresi «omnia et singula designamenta et colores»; nel 1439 venivano così battute all’asta casse di oggetti in distinti lotti, nelle quali oggetti di uso quotidiano si mescolavano ad opere d’arte55; a questa occorrenza partecipava anche Jacopo Bellini, il quale si aggiudicava durante una delle sette tornate, una tavola intarsiata del maestro56. Lorenzo Lotto invece, nel testamento del 1546 esprimeva la propria volontà a proposito delle proprie «cose che si haverà a vendere non voria fusse poste a l’incanto, pur si farà como parerà meglio e più brieve, per non darle per pochi precii a persone extrane che per li bassi precii più presto le havesse57». Altra occasione poteva esser la scomparsa di un collezionista, che dava così la possibilità ad altri collezionisti di aggiudicarsi le opere bramate: un caso molto noto è l’imbarazzante episodio che vede protagonista Isabella d’Este nel 1506: la marchesa, non appena appresa la notizia della morte del gioielliere (e suo intermediario per un dipinto di Giovanni Bellini) Michele Vianello nella notte del 1506, scomoda ben tre corrispondenti al fine di aggiudicarsi prima di tutti la Sommersione

del Faraone attribuita a Jan van Eyck; nonostante gli assillanti tentativi, i beni di Vianello

venivano messi all’incanto per risarcire i creditori del defunto, il quale aveva lasciato

51 Cecchini, Quadri e commercio cit., p.

52 I. Favaretto, “La memoria delle cose antiche….”: il gusto per l’antico e il collezionismo di antichità a

Venezia dal XIV al XVI secolo, in Il collezionismo d’arte a Venezia. Dalle origini al Cinquecento cit., pp. 83-

106:89.

53 A.S.V., Giustizia Vecchia, b. 23, carte sciolte. 54 Dal Pozzolo, Cercar quadri cit., p. 50.

55 R. Lauber, Memoria, visione e attesa. Tempi e spazi del collezionismo artistico nel primo Rinascimento

veneziano*, in Il collezionismo d’arte a Venezia. Dalle origini al Cinquecento cit., pp. 41-81:44.

56 Dal Pozzolo, Cercar quadri cit., p. 50.

57 Lorenzo Lotto. Il «Libro di spese diverse» con aggiunta di lettere e d’altri documenti, ed. P. Zampetti,

debiti per ben 2000 ducati; avendo un limite di 100 ducati, gli emissari di Isabella si fecero sfuggire il quadro che finì nelle mani del fratello del doge, il quale, dopo le numerose insistenze, lo cedette ad Isabella al prezzo di acquisto58. Sempre in occasione di quest’asta, sembra che anche Alvise Pasqualin, ricco mercante di seta nonché collezionista, si sia accaparrato un ritratto del gioielliere59. Al di la della tipologia della merce infine, se la quantità era così ingente da non esser venduta nell’arco di 15 giorni, si sarebbe chiamato un altro comandadore per rimetterla all’incanto per altri 1560.

La parte che si rivela più interessante tuttavia, è ciò che emerge dalle preziose righe che i giustizieri vecchi dedicavano agli illeciti commessi dai comandadori, i quali anziché attenersi al loro unico ed obbligatorio ruolo di banditori, si accordavano con bottegai i quali producevano quadri a basso valore che i comandadori acquistavano e rivendevano ad un prezzo rialzato agli incanti che indicevano a Rialto o in giro per la città, determinando un guadagno extra61. La conferma ti questa pratica truffaldina è riscontrabile in un caso inedito di denuncia del 1583 che riguarda proprio i dipinti: in quell’anno infatti, si denunciavano due comandadori ovvero Paolo Flaminio e Biasio Moretto, ed un tale Salvador di Beaggi i quali acquistavano ad un prezzo basso e standardizzato «quadri nuovi» che gli artigiani con bottega a Rialto avevano da mettere in vendita, mandavano i loro facchini a prenderla, ed indicevano in giro per la città due o tre incanti «per omo» con inventari evidentemente non autorizzati e in totale assenza dei (ormai ex) padroni della merce, ad un prezzo rialzato determinando dunque il proprio guadagno62; purtroppo non è presente la terminazione, ma possiamo ipotizzare che i comandadori siano stati condannati. Curioso notare che tra cosiddetti testes del processo vi era anche un Zuane Marchiori comandador, omonimo di quello stesso Zuane che nel 1611 sarebbe stata accusato, ed in seguito assolto, per aver messo all’incanto due quadri nuovi non inclusi nell’inventario di beni63.

Le lotterie.

Havendo di sopra scrito come al presente in questa terra in Rialto non si atende ad altro ch’a meter danari su lothi, idest precii che si metta a tanto per uno, zoè soldi 10, soldi 20, soldi 31, lire 3, ducati uno et ducati do

58 Lorenzo Lotto. Il «Libro di spese diverse» cit., p. 304. 59 Lauber, Memoria, visione e attesa cit., p. 45.

60 B.N.M., IT VII 1572 (7642), c. 135r. 61 Ibidem, cc. 42v-45r.

62 A.S.V., Giustizia Vecchia, b. 76, carte sciolte. 63 Favaro, L’Arte dei pittori cit., p. 71.

ad summum, e li precii montano chi più, chi mancho fino 1500 ducati, zoè pani de seda e di lana, quadri,

fodre di più sorte, argenti numero grandissimo, e di belle cosse, perle grosse et belle zoie di pù sorte, pater nostri di ambracan et fino un gato momon vivo, cavalli, chinee etc. fornide et tutto si mette a lotho, sichè tutta la Ruga di orexi da una banda e l’altra è a questo, et assa’ tapezarie, veste de seda, vesture de restagno e di seda, e altro. Item, la Ruga de’ zoielieri; sichè non si pol andar per questi lochi, tante persone è che par una Sensa; et ogni zorno si cava boletini con dire pacientia quando non si ha nulla, et quando si ha precio si crida

precio. Et aciò non siegua fraude, per li Capi di X fo comesso a li Provedadori di Comun sier Lunardo di

Prioli, sier Daniel Trivixan, sier Filippo da Molin che non si potesse meter lotho alcun senza sua saputa, et che fosse messo le robe a precio justo, et mandato uno scrivan a veder cavar li boletini64.

Come descrive il Sanudo, le lotterie nella Venezia Cinquecentesca erano un gioco che si era diffuso molto di recente e sin da subito aveva conosciuto una grande diffusione, probabilmente dovuta all’attrazione per lo svago da parte dei veneziani, popolo che scommetteva di tutto e su tutto, e così trovava il divertimento al di fuori delle ore di lavoro o di preghiera riunendosi ovunque, anche lungo le calli, assediando i passanti per persuaderli ad acquistare polizze di lotti. Questo «nuovo zuogo» si trovava in via eccezionale anche a San Polo e a Rialto, e consisteva da un lato di raccogliere fondi da parte di un privato con la vendita dei biglietti, e dall’altro dava la possibilità ai giocatori- compratori di vincere qualsiasi tipo di oggetto, quadri compresi65. Eventi di questo genere muovevano certamente molta gente «cum tante murmuratione» tanto che il Sanudo diceva che c’era così tanto afflusso di persone che sembrava «una Sensa», disturbando anche i commercianti realtini; senza dubbio avrebbe dato spazio anche ad inganni di ogni sorta66. Per tutti questi motivi il Consiglio dei Dieci ad inizio anni Venti aveva colto l’occasione per decretare la fine delle lotterie nate su libera iniziativa, facendone una propria prerogativa e disponendo che queste avrebbero dovuto esser allestite unicamente previa richiesta sotto il patronato dei provveditori di Comun67; questi eventi organizzati

pubblicamente, perlomeno tra gli anni trenta e quaranta, dovevano continuare ad attirare una grandissima affluenza di persone, come si può dedurre negli atti dei Provveditori di Comun, dove erano frequentissime le segnalazioni di ritrovamenti di bollettini del lotto «de la Copa doro», «de contadi», «de denari», de la «cadena doro» e del «lotho da ori et

64 M. Sanudo, I Diarii di Marino Sanuto, t. XXXII, (ripr. facs. dell’ed. Venezia, 1879-1903) Bologna, 1892,

pp. 500-501.

65 G. Dolcetti, Le bische e il giuoco d’azzardo a Venezia (1172-1807), Venezia, 1903 (rist. anast. a cura di D.

De Bastiani, Vittorio Veneto, 2010), pp. 12-13.

66 Sanudo, I Diarii cit., t. XXXII, p. 509. 67 Dolcetti, Le bische cit., p. 13.

arzenti»68. Com’è facilmente intuibile anche Rialto sarebbe rimasto «pien di lothi69» illegittimi, come lamentava ripetutamente il Conciglio dei Dieci in tutta una serie di atti emessi sino al Seicento inoltrato, mettendo in luce la diffusione di questi eventi non solo in città ma anche nel resto del Dominio, tanto che il 26 ottobre del 1526 le lotterie venivano vietate «per tutte le terre, castelli, et loci alla iuriditione nostra subietti70»; nonostante ciò le lotterie proseguivano tanto che nel 1603 veniva presa dal Consiglio una parte con severissimi ammonimenti anche per i Provveditori di Comun che autorizzavano questi «lotti particolari» obbligandoli anche a sequestrare tutta la merce sino a quando non fosse stato restituito alle persone partecipanti tutto il denaro speso per acquistare i bollettini71. I nuovi lotti ufficiali avrebbero dato opportunità di vincita molto importanti come un primo premio di 5000 ducati72, seguito da proprietà a Venezia ed in terraferma, gioielli e

argenterie, tessili di lusso e tappeti, animali vivi (come cavalli e gatti), e quadri; una meravigliosa quanto rara testimonianza di lotteria è l’incisione del Lotto dell’università de

creditori del Banco Dolfini73. Andrea Dolfin, affiancato dai figli Daniele e Benedetto74, era

uno dei privati che aveva intrapreso l’inizialmente fruttuosa attività dei banchi da scritta, che come anticipato nella parte introduttiva, fornivano servizio trasferimento di denaro, esercitavano il controllo sulla circolazione monetaria, particolarmente suscettibile visto il valore intrinseco, ed in alcuni casi effettuavano dei prestiti a favore dello stato; inoltre, approfittando della disponibilità, capitava che i banchieri reinvestissero parte del capitale per proprio conto. La stabilità ed il successo dei banchi era strettamente connessa alla situazione politica ed economica, ragion per cui nel corso del XVI secolo si erano intervallati momenti di crescita e di bancarotta75. Anche il banco della famiglia Dolfin, del quale non è nota la data di fondazione76, dopo anni sicuramente molto positivi aveva iniziato a conoscere il progressivo declino richiedendo un prestito statale di 40000 ducati nel 1567, e chiudendo i battenti per fallimento tre anni dopo, con grandissimo scalpore in

68 A.S.V., Provveditori di Comun, Atti, b. 10. 69 Sanudo, I Diarii cit., t. XXXII, p. 503. 70 B.M.C., Codice Cicogna, 2453, c. 253r. 71 B.M.C., Codice Cicogna, 3278, n. 6, c. 68r.

72 B.N.M., Miscellanea, CL VII cod. CCXIV, cc. 233r-236r. Si tratta di un documento redatto da Andrea

Mocenigo e Domenico di Grandi, i quali presenziano ad una seduta del Consiglio dei Dieci e redigono un ricordo delle modalità di organizzazione dei lotti, del numero di bollettini emessi con i premi (tutti in denaro) corrispondenti.

73 B.M.C., Opuscolo Cicogna, 686, n. 13.

74 F. Ferrara, Gli antichi banchi di Venezia, s.l., 1970, p. 57.

75 L. Pezzolo, La finanza pubblica, in VI. Dal Rinascimento al Barocco cit., pp. 713-773:751-754. 76 Ferrara, Gli antichi banchi cit., p. 57.

città77 nonché con la taglia sulla testa del principale scrivano, Bernardino Rotolo, il quale aveva rifiutato di presentarsi per dar conto «di tutti li beni, danari, zogie, mercantie, et altre robe pertinenti a detto banco», e la privazione della nobiltà per la famiglia78. Fortunatamente, i Dolfin avevano lasciato a senatori e creditori una situazione più che rassicurante, avendo investito in vari modi parte del capitale79. L’espressione di questo investimento è rappresentata, perlomeno in parte, dai beni che venivano messi al lotto il 9 aprile 1580 sotto forma di premi come «campi 107 in villa di Rusticha sotto Campo San Pietro, con un palazzo, chiesia, e torresela, case da lavoradori, stalle, colombare, vignali, horti, bruoli serradi de muro a zelosie, con una casetta in loco ditto», «un rubin in anello sun quattro cantoni» o un «razzo d’oro figurato alto braccia 4 ½ longo brazza 4», una «vestura raso bianco con oro», e moltissimi altri gioielli, cinture, vesti fino addirittura a tazze d’argento per un totale di ben 240 articoli al lotho80.

L’affluenza, visti i premi, era sempre alta, con la partecipazione anche di donne, suore e gruppi di investitori sotto nomi come “Li Trionphianti”, “Dio me manda bona ventura”,