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M ETAFORE CON GRADO DI IMPROPRIETAS EQUIVALENTE 1 Inferno

parte II le schede arco, bersaglio e strale.

3. M ETAFORE CON GRADO DI IMPROPRIETAS EQUIVALENTE 1 Inferno

Seppur in misura minore rispetto alla precedente categoria (qui, come nel paragrafo successivo, non sono incluse oscillazioni tra metafora e senso letterale), gli episodi nei quali si verifica l’alternanza tra due metafore caratterizzate dal medesimo grado di improprietas permettono di effettuare interessanti analisi sulle varianti coinvolte. Anche l’osservazione dei commenti antichi può essere, in tal senso, un utile supporto, questa volta non per andare alla ricerca di curiosi errori o cortocircuiti esegetici, quanto piuttosto per individuare delle tendenze interpretative: spesso, in casi come questi, più che l’obscuritas dei versi è il peso delle fonti chiamate in causa a determinare la prevalenza di una variante sull’altra.

Il primo luogo, Inf., III 31, testimonia adeguatamente la situazione appena descritta. Ci troviamo infatti alle prese con due varianti, «error»/“orror”, perfettamente equivalenti tra loro, innanzitutto dal punto di vista semantico:

Diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d’ira,

voci alte e fioche, e suon di man con elle facevano un tumulto, il qual s’aggira sempre in quell’aura sanza tempo tinta, come la rena quando turbo spira.

E io ch’avea d’error la testa cinta, dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo? e gent’è che par nel duol sì vinta?».

(Inf., III 25-33)

Per quanto concerne il livello stemmatico, Petrocchi propende per la variante «error» perché è «espressa dai testimoni più puri e autorevoli della primitiva bipartizione», riferendosi pertanto a Urb («sostenuto da Mad e Rb») e Mart Triv («appoggiati da Ash Ham»),75 cui andranno aggiunti Pa Parm Po Pr e Rb. D’altro canto però anche la lezione orror, parimenti trasversale ai due rami della tradizione grazie alla testimonianza del Landiano, è attestata da non pochi codici: Cha Co Eg Fi La Lau Lo Ricc Tz e Vat; ma l’equilibrio tra le due varianti si accentua se possibile ancor più ampliando il novero dei codici verificati entro l’antica vulgata: hanno

error Ricc 1025, Plut. 40.12, Plut. 40.35, Plut. 90 inf. 42, Plut. 90 sup. 125a, e la

forma con la scempia eror Bud e il seriore Ph.76 Presentano la lezione orror: Vitrina

23.3, Ricc 1048, Strozzi 152, Plut. 40.11, Plut. 40.13, Plut. 40.14, Plut. 40.15, e la forma con la scempia oror BNCF II.I.39.

Nonostante questo articolato quadro, non si riscontrano posizioni divergenti rispetto a Petrocchi nelle soluzioni editoriali avanzate da Lanza, Sanguineti e Inglese, se si eccettua la diversa congiunzione posta a inizio verso da Sanguineti in linea con il testo di Urb («Ond’io, ch’avea d’error la testa cinta»).

Di certo, a favore di orror giocano varie reminiscenze virgiliane, su tutte

Aen., II 559: «At me tum primum saevus circumstetit horror», oltre che ivi, IV 280 o

VI 559, spesso citate dai commentatori quali prove inconfutabili dell’origine di questo traslato.77 Ma andrà detto che la tipologia della metafora è ben definita in entrambi i casi: incertezza o sgomento, confusione e dubbio o paura, si tratta sempre di un passaggio astratto-concreto, o meglio di una concretizzazione di sensazione psicologica o processo mentale, non infrequente nel sistema figurativo dantesco.

Nei commenti antichi (peraltro, si noti bene, senza richiamarsi all’auctoritas dei suddetti versi virgiliani), la scelta ricade su orror in Guido da Pisa, Boccaccio (la sua spiegazione pone l’accento sul “moto” seguito dall’orribile suono prodotto dai dannati, quasi che quest’ultimo particolare si ripercuotesse sulla stessa sensazione provata da Dante: «Ed io ch’avea d’orror, cioè di stupore, la testa cinta, cioè intorniata: e questo dice per lo moto circulare di quel tumulto; Dissi: maestro, che è

quel ch’i’ odo?, che fa questo tumulto»),78 e l’Anonimo Fiorentino. Per converso, «error» viene preferito nella prima e terza redazione del Comentum di Pietro Alighieri, in Guglielmo Maramauro e Francesco da Buti. Benvenuto da Imola, con la consueta completezza che lo contraddistingue, riporta «error» ma non manca di dar conto anche dell’altra variante: «E io. Hic autor ostendit quomodo petiverit a

76 Ha la lezione error anche Plut. 40.25.

77 Tra gli altri, appare risoluto il Tommaseo, che cita i passi dell’Eneide affermando nel contempo:

«Meglio qui orror, che error, debole e indeterminato» (TOMMASEO, vol. I, p. 168). Successivamente, numerosi e autorevoli commentatori novecenteschi hanno legittimato la lezione orror con Virgilio, tra questi Barbi, Sapegno, Mazzoni e Chiavacci Leonardi. Decisamente a favore di orror anche G. BRUGNOLI, «Orror»-«error» (‘Inf.’ III 31), in «Studi Danteschi», LIV, 1982, pp. 15-30, con un congruo dossier di auctoritates aggiunto ai riscontri virgiliani già menzionati (integrati con la similitudine delle api di Aen., VI 707-709), in cui appaiono particolamente degni di nota i rimandi ad alcuni loci scritturali che descrivono «l’horror come effetto della visio durante il sopor dell’incubatio sacra» (ivi, p. 20). Sui riscontri virgiliani cfr. da ultimo anche la nota ad locum di INGLESE, Inf., p. 63.

Virgilio qui essent isti tam dolorati dicens: et io ch’avea la testa cinta d’error, idest qui habebam fantasiam turbatam tanta confusione; vel secundum aliam literam,

d’orror, propter horribilem clamorem».79 Sta dunque soprattutto a Boccaccio il

merito di aver rimarcato la presenza di una continuitas, uditivo-psicologica, con il moto del tumulto che si diffonde nell’aria circostante («il qual s’aggira / sempre in quell’aura sanza tempo tinta, / come la rena quando turbo spira») e, infine, giunge ad “avvolgere” il Dante agens. Inoltre, ancora Boccaccio parla di una testa «di stupore […] intorniata», il che sottintende il procedimento della concretizzazione di astratti menzionato poco fa; sottolineare l’appartenenza a tale categoria da parte di questa metafora potrebbe essere utile per ricostruirne la natura.

Nella Commedia vi sono più episodi di concretizzazione del dubbio o del terrore? Un rapido spoglio di alcuni casi affini non consente di dirimere del tutto la questione: il dubbio spesso avvolge, “inviluppa” il pensiero, ma anche il timore (ad esempio Inf., X 95-96: «solvetemi quel nodo / che qui ha ’nviluppata mia sentenza»;

Purg., XXXIII 31-32: «Da tema e da vergogna / voglio che tu omai ti disviluppe»);

lo stupore e lo sgomento, e proprio per un suono fortissimo che giunge alle orecchie inaspettato, possono inoltre “opprimere” l’agens, portandolo istintivamente a rivolgersi (come in Inf., III) alla sua guida, in questo caso Beatrice: «Oppresso di

stupore, a la mia guida / mi volsi, come parvol che ricorre / sempre colà dove più si

confida» (Par., XXII 1-3). Se poi, in uno scenario non dissimile da Inf., III, il senso principalmente coinvolto è la vista (significativamente, però, sempre dopo un forte suono), incertezza e sgomento non potranno coincidere perfettamente, ma, ancora una volta concretizzati, si avvicenderanno nell’animo: «Come quando la nebbia si dissipa, / lo sguardo a poco a poco raffigura / ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa, / così forando l’aura grossa e scura, / più e più appressando ver’ la sponda, / fuggiemi

errore e cresciemi paura» (Inf., XXXI 34-39). La consapevolezza di ciò che ha di

fronte spaventa o meraviglia il Dante agens, il che è logica conseguenza di un iniziale «error». Pertanto, nonostante queste verifiche parallele, la sostanziale equivalenza tra le due varianti continua a sussistere. Tuttavia la prevalenza di «error», rafforzata come visto dalla situazione stemmatica, si conferma, anche

79 BENVENUTO DA IMOLA, vol. I, p. 112. Di fatto qui lo stesso «Benvenuto inaugura, per così dire, una

vexata quaestio della critica dantesca» (MAZZUCCHI, La discussione della “varia lectio”, cit., p. 961).

perché, ed è questo un particolare cui va dato il giusto peso, la lezione orror costituirebbe un hapax nel poema dantesco.80

3.2 Purgatorio

La variante di Purg., XXI 37 è piuttosto curiosa, soprattutto per il contesto nel quale è inserita: una metafora singolare, seguita dalla più frequente ma sempre significativa tramsumptio della sete per indicare il desiderio di conoscenza:

Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli diè dianzi ’l monte, e perché tutto ad una parve gridare infino a’ suoi piè molli».

Sì mi diè, dimandando, per la cruna del mio disio, che pur con la speranza si fece la mia sete men digiuna.

(Purg., XXI, 34-39)

Dante è oltremodo impaziente di sapere l’effettiva origine dei terremoti purgatoriali (accompagnati dal Gloria intonato dalle anime), e Virgilio ne previene la domanda con estremo tempismo, infilando con precisione la «cruna» del suo acuto desiderio di conoscenza (in proposito, basti pensare alla nota metafora della «punta del disio» in Par., XXII 26). Non molti versi prima di quest’immagine, il canto era già stato introdotto dalla duplice occorrenza delle metafore della sete e del pungere (vv. 1-6: «La sete natural che mai non sazia / se non con l’acqua onde la femminetta /

samaritana domandò la grazia, / mi travagliava, e pungeami la fretta / per la ’mpacciata via dietro al mio duca, / e condoleami a la giusta vendetta»). Prima dell’incontro con l’anima di Stazio, cui Virgilio rivolge appunto la domanda sui terremoti, questi due topoi relativi al desiderio umano del sapere sono dunque evidentemente di importanza centrale, è ciò basterebbe ad escludere eventuali alternative. Tuttavia, a fronte della lezione maggioritaria cruna (data comunque dai

80 Anche se si amplia l’indagine alle altre opere di Dante, il sostantivo “orrore” rimane un hapax:

occorre infatti soltanto in VN, III 11 8: «cui essenza membrar mi dà orrore». Ancora Giorgio Brugnoli, dopo aver constatato come Servio (non seguito in tal senso dai successivi scoliasti) commenti Aen., II 559 senza comprendere «l’enallage virgiliana», facendo così intendere che «horror debba essere comunque qualificato da un epiteto, a seconda che si tratti di horror, o “bonus”, o “malus”», del passo dantesco di VN scrive: «Dante […] usa orrore senza epiteto discostandosi dalla norma serviana. Se avesse usato orrore con l’epiteto, questo sarebbe stato un buon argomento a difesa della lezione error a Inf. III 31, dove il proposto orror è appunto senza epiteto» (BRUGNOLI,

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