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P OETRIE , ARTES DICTAMINI E ARTES DICTANDI MEDIEVAL

- 3.1- Scuola di Chartres e scolastica: posizioni teoriche a confronto

In una delle glosse al De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella attribuite a Bernardo Silvestre, si leggono alcune considerazioni tecniche di capitale importanza nel dibattito retorico medievale:

Genus doctrine figura est. Figura autem est oratio quam involucrum dicere solent. Hec autem bipertita est: partimur namque eam in allegoriam et integumentum. Est autem allegoria oratio sub historica narrationem verum et ab exteriori diversum involvens intellectum, ut de lucta Iacob. Integumentum vero est oratio sub fabulosa narratione verum claudens intellectum, ut de Orpheo. Nam et ibi historia et hic fabula misterium habent occultum, quod alias discutiendum erit. Allegoria quidem divine pagine, integumentum vero philosophice competit. Non tamen ubique, teste Macrobio, involucrum tractatus admittit philosophicus. Cum enim ad summum, inquit, deum stilus se audet attollere, nefas est fabulosa vel licita admittere. Ceterum cum de anima vel de etheris aeriisve potestatibus agitur, locum habent integumenta […] Notandum est integumenta equivocationes et multivocationes habere […] Ideoque distinguendum erit ad quot res subiectas integumentorum nomina equivocentur.29

La costitutiva nozione di figura-involucrum appare qui bipartita in allegoria, che pertiene per lo più a contenuti teologici e dunque all’esegesi scritturale, e

integumentum, proprio di argomentazioni filosofiche e coincidente con la narratio fabulosa che Macrobio (ripercorrendo le conclusioni già adombrate da Calcidio nel

29 SCOTO ERIUGENA - REMIGIO DI AUXERRE - BERNARDO SILVESTRE - ANONIMI, Tutti i commenti a

Marziano Capella, cit., pp. 1764-1766. Ma analoghi toni, parimenti orientati «circa philosophicam

veritatem» si riscontrano anche nel Commentum super sex libros Eneidos, laddove viene affermato che Virgilio: «Scribit ergo in quantum est philosophus humane vite naturam. Modus agendi talis est:

in integumento describit quid agat vel quid paciatur humanus spiritus in humano corpore temporaliter

positus. Atque in hoc describendo naturali utitur ordine atque ita utrumque ordinem narrationis observat, artificialem poeta, naturalem philosophus. Integumentum est genus demostrationis sub

fabulosa narratione veritatis involvens intellectum, unde etiam dicitur involucrum» (The Commentary of the first six books of the Aeneid of Vergil commonly attributed to Bernardus Silvestris, a new critical edition by J. W. Jones and E. F. Jones, Lincoln-London, University of

Nebraska Press, 1977, p. 3; su questo stesso brano e sulla effettiva conoscenza del presente commento di Bernardo Silvestre da parte di Dante cfr. ARIANI, I «metaphorismi», cit., p. 12, nota 37, e p. 16, nota 48, con bibliografia precedente).

suo commento al Timeo) assegnava di diritto al sermo platonico.30 Agli integumenta sono connesse le non trascurabili categorie della equivocatio e ancor più della

multivocatio, generate di necessità da qualsivoglia procedimento polisemico, in cui

il rapporto tra nomina e res subiectae si presenta decisamente sbilanciato in favore di queste ultime.

Ora, se le riflessioni retoriche elaborate nel contesto della scuola di Chartres ruotano in sostanza attorno a questi assunti basilari per quanto concerne il ricorso al linguaggio figurato, andrà subito specificato come il lessico tecnico dello stesso Bernardo Silvestre, ma ancor più di uno straordinario esegeta di Platone quale Guglielmo di Conches, sembrino effettivamente permeare le preziose considerazioni dantesche in merito ai meccanismi del sermo improprio e dell’aliud intelligere. Come si avrà modo di ribadire anche nel cap. II infatti, nel corso dello spoglio dei

loci metaletterari e dei rari tecnicismi retorici adoperati da Dante nelle proprie opere,

nell’Epistola a Cangrande si legge una neoconiazione, nonché hapax assoluto come

metaphorismus;31 questo capitale lemma viene associato in prima istanza alla consuetudine platonica di insinuare i più profondi sensi filosofici («que sermone proprio nequivit exprimere») «per assumptionem metaphorismorum», con lo scopo appunto di reagire alla inopia del sermo.

Tale luogo presenta notevoli punti di contatto con uno dei cardini teorici della medesima Commedia, ossia la già ricordata, ampia digressione metaletteraria affidata a Beatrice nel IV del Paradiso (vv. 28-63);32 la disputa in merito all’interpretazione delle asserzioni platoniche sulla creazione delle anime, la loro effettiva sede e i corrispettivi influssi astrali (vv. 28-39: «De’ Serafin colui che più s’india, / Moisè, Samuel, e quel Giovanni / che prender vuoli, io dico, non Maria, / non hanno in altro cielo i loro scanni / che questi spirti che mo t’appariro, / né hanno a l’esser lor più o meno anni; / ma tutti fanno bello il primo giro, / e differentemente han dolce vita / per sentir più e men l’etterno spiro. / Qui si mostraro, non perché sortita/ sia questa spera lor, ma per far segno / de la celestial c’ha men salita») si riaggancia alla meditazione di Ep., XIII tanto per il reiterato accenno all’auctoritas di Platone, e dunque a contenuti eminentemente filosofici (che a rigore

30 Cfr. CALCIDIO, Comm. in Tim., CXXXVIII; MACROBIO, Comm. in Somnium Scipionis, I 2, 9; sul

tema si rinvia ad ARIANI, I «metaphorismi», cit., part. alle pp. 11-16 e 26-49 e bibliografia.

31 Cfr. in questo stesso volume, cap. II, part. alle pp. 68-70.

32 Cfr. sopra la sezione dedicata alla teoresi dionisiana delle similitudines dissimiles, part. alle pp. 17-

richiederebbero l’adozione di integumenta), quanto per la definizione di quegli stessi procedimenti espressivo-gnoseologici, imperniati in sintesi sul meccanismo dell’aliud intelligere, e sovrapposti oltretutto metodologicamente alle figurazioni proprie delle scritture (vv. 40-61: «Così parlar conviensi al vostro ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d’intelletto degno. / Per questo la

Scrittura condescende / a vostra facultate, e piedi e mano / attribuisce a Dio e altro intende […] Quel che Timeo de l’anime argomenta / non è simile a ciò che qui si

vede, / però che, come dice, par che senta. / Dice che l’alma a la sua stella riede / credendo quella quindi esser decisa / quando natura per forma la diede; / e forse sua sentenza è d’altra guisa / che la voce non suona, ed esser puote / con intenzion da non esser derisa. / S’elli intende tornare a queste ruote / l’onor de la influenza e ’l biasmo, forse / in alcun vero suo arco percuote»).33

Ebbene, considerazioni sulla narratio fabulosa platonica, allusioni a profondi sensi filosofici, esigenza di applicare integumenta, involucra e velamina si fondono, talora con impressionanti analogie rispetto alle riflessioni dantesche appena ripercorse, in contesti esegetici quali ad esempio le Glosae super Platonem di Gugliemo di Conches.34

In ogni caso, nell’impossibilità di dare conto in questa sede di tutti i risultati degli spogli effettuati nei testi degli esponenti della scuola di Chartres (segnatamente Bernardo Silvestre, Guglielmo di Conches e Alano di Lilla), anche per la logica difficoltà di isolare precise definizioni affiancabili allo statuto di metafora in senso lato, mi pare utile concludere focalizzando rapidamente l’attenzione sull’autore che, in questo medesimo contesto, più si distingue per vis transuntiva e atipicità teorica: Alano di Lilla.

33 ARIANI, I «metaphorismi», cit., part. alle pp. 6-13. Ariani ha peraltro sottolineato al contempo

come su tutto l’impianto dell’argomentazione di Par., IV agisca, dal punto di vista stavolta strettamente gnoseologico, un orientamento aristotelico degno di notevole interesse in una sede di questo genere, che si ricava in prima istanza dalla lettura dei vv. 40-42 («Così parlar conviensi al vostro ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d’intelletto degno»): «Anche qui sorprende che Dante non ricorra affatto, come ci saremmo forse aspettati, ad argomentazioni di carattere retorico, ma organizzi invece il discorso intorno alla teoria della conoscenza attraverso i sensi che è il nucleo funzionale del De anima aristotelico, a segno della sua indifferenza ad una specifica teorizzazione letteraria della metafora in favore invece di una fondazione eminentemente filosofica e teologica dei mezzi verbali sostitutivi dell’irrappresentabilità del divino» (ivi, p. 7). Su

Par., IV cfr. inoltre il cap. II, part. alle pp. 58-59 e 112-115.

34 Per i puntuali riscontri testuali e la specifica discussione dei loci interessati, mi limito qui a rinviare

alle ipotesi formulate da ARIANI, I «metaphorismi», cit., part. alle pp. 8-16, ivi compresi i riferimenti bibliografici indicati.

Almeno in questo capitolo introduttivo, tuttavia, non saranno oggetto di interesse le pesanti e ormai riconosciute affinità topiche, persino strutturali tra opere quali l’Anticlaudianus, o ancora il Liber de planctu Naturae e la Commedia di Dante, bensì alcune delle considerazioni puramente tecnico-retoriche ricavabili dai testi di Alano.

Pur circoscritte spesso all’illustrazione di singoli topoi o alla esegesi di isolate espressioni scritturali, le attestazioni del sostantivo metaphora e dell’avverbio metaphorice, del verbo transumere o ancora del sostantivo translatio in Alano di Lilla dimostrano la sua notevole capacità nel selezionare e usare con pertinenza la terminologia tecnico-retorica a seconda dei diversi contesti. In tal senso, particolarmente densi di contenuti interessanti appaiono scritti meno noti quali le Theologicae regulae e le Distinciones dictionum theologicalium (suddivise a loro volta in lemmi, talora autentici microrepertori di metafore).

Se confrontate con la produzione eminentemente poetica (Anticlaudianus e

De planctu Naturae su tutti), le posizioni teoriche e le definizioni racchiuse nelle Theologicae regulae lasciano emergere con forza la «singolare schizofrenia» di

Alano di Lilla, «che come poeta-teologo esercita in pieno nell’Anticlaudianus una

vis metaforica radicalmente impregnata del neoplatonismo di Chartres» laddove, «in

veste di teologo», giunge a vietare «ogni discorso obliquo, designato come

verborum involucra».35 A fianco di aspre critiche mosse verso l’impiego di traslati nel sermo theologicus,36 non mancano infatti puntuali tentativi di fornire definizioni

35 Ivi, p. 27, nota 75.

36 Ariani (ibidem) si è soffermato in particolare sulla definizione di sermo theologicus contenuta in

ALANO DI LILLA, Theologicae regulae, XXIV, in PL, vol. CCX, col. 657: «Ut etiam intellectu sit perceptibilis, debet enim verborum involucra cavere. Ut etiam rei, de qua loquimur, sit consonus, debet enim theologus habere sermones cognatos rebus, de quibus loquitur»; e su di un brano introduttivo delle Distinctiones imperniato sul rifiuto di improprietates ed eccessiva obscuritas (con tanto di rinvii ad alcune auctoritates della tradizione retorica): «Quoniam iuxta Aristotelicae auctoritatis praeconium, qui virtutum nominum sunt ignari cito paralogizantur, in sacra pagina periculosum est theologicorum nominum ignorare virtutes, ubi periculosius aliquid quaeritur, ubi difficilius invenitur, ubi non habemus sermones de quibus loquimur, ubi rem ut est sermo non loquitur, ubi vocabula a propriis significationibus peregrinantur et novas admirari videntur; ubi divina descendit excellentia ut humana ascendat intelligentia; ubi nomina pronominantur, ubi adiectiva substantivantur, ubi verbum non est nota eius quod de altero dicitur, ubi sine inhaerentia praedicatio, ubi sine materia subiectio, ubi affirmatio impropria, negatio vera, ubi constructio non subiacet legibus Donati, ubi translatio aliena a regulis Tullii, ubi enuntiatio peregrina ab Aristotelis documento, ubi fidei remota a rationis argumento. Et ideo ne falsum pro vero affirmet theologus, ne ex falsa interpretatione errorem confirmet haereticus, ut a litterali intelligentia arceatur Judaeus, ne suum intellectum sacrae Scripturae ingerat superbus, dignum duximus theologicorum verborum significationes distinguere, metaphorarum rationes assignare, occultas troporum positiones in lucem

reducere, ut liberior ad sacram paginam pandatur introitus, ne ab aliena positione fallatur theologus,

tecniche relative al linguaggio figurato, che suonano di fatto come parziali ammissioni della presenza di quest’ultimo anche in corrispondenza di argomenti divini; ad esempio la volontà di Dio e il suo operare vengono definiti seguendo procedimenti polisemici (multiplex dicitur):

Voluntas autem Dei multiplex dicitur: aliquando enim voluntas Dei dicitur ejus auctoritas; et ita eum aliquid velle, nihil aliud est quam aliquid ejus auctoritate existere. Per quamdam metaphoram operatio ejus dicitur voluntas, quia opus solet esse signum voluntatis operantis.37

Tuttavia, le Distinctiones contengono casi di questo genere in misura ancor maggiore, e investono anche settori non necessariamente connessi all’esigenza di descrivere l’ineffabilità divina. Sono possibili diversi impieghi metaforici di un’unità di peso (persino nella nomenclatura musicale):

Dragma, mae, proprie nomen ponderis […] Dragmatis est medietas dragmae. Didragmatis est una dragma; didragma, mae, est duplex

diversae vocabulorum acceptiones, quae in diversis sacrae paginae locis iacent incognitae, in lucem manifestationis reducantur praesentis opusculi explanatione; ut brevior explanatio prolixitatem excludat, brevitas fastidium tollat, expositio obscurum, compendiosa doctrina [temporis] dispendium» (ALANO DI LILLA, Distinctiones dictionum theologicalium, Prologus alter, ivi, coll. 687- 688). Si pensi inoltre ad altri loci problematici come le regulae XX e XXI: «Tamen ipse Deus improprie dicitur esse; omne enim nomen, quod de Deo dicitur, improprie dicitur: et ita proprietas est

in essendo, sed improprietas in dicendo […] Similiter haec nascitur ex praecedenti regula. Cum enim

nullum nomen Deo proprie conveniat, oportet, nomen dictum de ipsa, hoc vel illo modo dici quia etiam in naturalibus omne nomen, quod transumitur a sua propria significatione , aliquo praedictorum modorum transumitur. Sunt ergo quaedam nomina, quae conveniunt Deo per causam,ut justus, pius, fortis; quaedam per similitudinem, ut Pater, Filius , splendor, imago; quaedam ratione, ut irasci, poenitere. Irasci attribuitur Deo ratione adjuncti, ratione videlicet punitionis: punitio enim solet adjungi irae […] Ea autem nomina, quae de Deo dicuntur per causam, de Deo dicuntur secundum substantiam; caetera vero plurimum de Deo dicuntur relative» (ALANO DI LILLA, Theologicae

regulae, ivi, coll. 630-631). Una paradossale corrispondenza tra proprietas effettiva e improprietas dicendi dunque, imputabile ovviamente all’inadeguatezza dei mezzi espressivi a disposizione

dell’uomo, che viene inoltre estesa a diversi livelli (senza dimenticare i tradizionali exempla delle retoriche): «Potest triplex in naturalibus fieri translatio; aliquando enim fit translatio nominis, et rei, quando et nomen, et res transfertur ab eo cujus est, ad id ex quo est, vel id secundum quod est, ut cum dicitur: Linea est longa, et hoc nomen longa, et res hujus nominis, id est longitudo, transfertur ab eo cujus est, id est a lineato, ad id secundum quod est, id est lineam, secundum quam et longitudo convenit lineato, et hoc nomen, longum. Aliquando fit translatio rei, et non nominis, ut cum dico:

Seges est laeta, laetitia attribuitur segeti: sed non omne nomen, quod significat laetitiam, ut hoc

nomen, gaudens, vel exsultans. Aliquando fit transsumptio nominis, et non rei; ut cum dicitur:

monachus est albus, transfertur hoc nomen albus, ad hoc ut conveniat monacho, sed non res nominis.

Cum enim monachus dicitur albus, non dicitur quod sit affectus albedine, sed quia est albi habitus. In divinis autem fit translatio nominis, et non rei; cum enim dicitur, Deus est justus, hoc nomen justus transfertur a sua propria significatione ad hoc ut conveniat Deo, sed res nominis non attribuitur Deo; sed potius ipsa justitia divina Deo attribuitur, non alia, a qua datum est hoc nomen, justus» (XXVI, ivi, col. 633).

dragma. Dicitur species cantus […] Sed verius est ut significet ibi dragma ponderationem cantus vel versuum, et dicitur ibi dragma componderatio metaphorice; quia sicut dragma ponderatur, ita versus ibi ponderantur, cum unus dicit unum et alus dicit alium, et erit sensus: Offerte dulcia cantica dragmis, id est componderationibus cantus; vel potest ibi notare componderationem modulationis. Sunt enim in musica componderationes symphoniarum et proportionum factae iuxta regulas musicae quae dicuntur axiomata [… ] Est et dragmaticum genus loquendi, id est interrogativum […] Dicitur etiam pensum, undein Luca “Aut quae mulier habens dragmas decem” [Lc., XV 8]. Dicitur angelica vel humana natura metaphorice, ut in eodem exemplo secundum aliam expositionem. Et dicitur ibi mulier Sapientia Dei; quae fecit ix pensa, id est novem choros angelorum et humanam naturam quae componderando fecit.38

È opportuno adoperare metafore vegetali quali la palma per designare l’indole dei religiosi, o la diffusa immagine del ramo per indicare una discendenza:

Palma arbor proprie. Dicitur etiam manus extenta […] Eleganti metaphora justus comparatur palmae; nam palma est arbor horribilis

radice, aspera cortice, firma robore, sublimis culmine, delectabilis flore, suavis fructus dulcedine, erecta pro charitate, signum victoriae; sic vita sanctorum vel religiosorum horribilis in radice, scilicet ab initio intrantibus religionem, quia stultis infert horrorem; unde in Libro Sapientiae: “Nos insensati vitam illorum putabamus insaniam” [Sap., V 6]; aspera est in cortice, in victu scilicet, et cultu et vestitu; firma robore, constantia scilicet et patientia, sublimis virtutum et operum eminentia ; delectabilis flore, quia in ea florent virtutes et bonae operationes; suavis est fructus dulcedine, quia pro labore percipit dulcem fructum vitae aeternae; erecta pro charitate, quia mentem erigit ad contemplandum coelestia; signum victoriae, quia propter luctam, scilicet qua vincit mundum, carnem et diabolum, merebitur coronam.39

Ramus, proprie. Aliquis ab aliquo descendens, qui metaphorice dicitur

ramus; quia, sicuti rami procedunt ab arboribus, sic posteri ex praedecessoribus; unde Apostolus: “Si radix sancta, et rami” [Paolo, Ad

Rom., XI 6], id est posteri. Dicitur opus, unde per prophetam Veritas ait,

antiquorum hostium malitiam signans: “Posuit vineam desertam vel in desertum, ficum decorticavit, exspoliavit eam”; alibi: “Fracti sunt rami ejus” [Ioel., I 7]; insidiantibus quippe malignis spiritibus Dei vinea in desertum ponitur, cum plena virtutibus anima humanae laudis cupiditate dissipatur.40

Si riscontrano infine accenni a traslati che sfociano in concretizzazioni di astratti e parziali allusioni ad ambiti sensoriali (udito), come la notevole metafora della

38 ALANO DI LILLA, Distinctiones dictionum theologicalium, ivi, col. 776. 39 Ivi, col. 889.

separatio-silentium: «Silere proprie. Notat verbum Dei Patris ab humana separari

natura, illa enim separatio metaphorice dicitur silentium».41

Sistematiche scissioni di piani tra il teologo e il letterato attraversano l’intera opera di Alano, pervenendo in talune circostanze ai limiti del paradosso; basti qui ricordare almeno il singolare Rhythmus de Incarnatione Christi, in cui il mistero dell’incarnazione divina appare declinato nelle peculiarità delle diverse artes, ivi compresa la rhetorica con allusioni a tropus e translatio, proprio per dimostrare ciascuna volta come esso sfugga a ogni regola e sovverta qualsivoglia schema prefissato: «Peregrinas a natura / Nominis positio / Cum in Dei transit jura / Hominis conditio. / Novus tropus in figura, / Nova fit translatio, / Novus color in junctura / Nova fit constructio. / In hac Verbi copula / Stupet omnis regula».42

Ma le inevitabili sovrapposizioni concettuali, nonché terminologiche tra la sfera di pertinenza dell’allegoria e quella più propriamente legata alla metaphora finora ravvisate negli esponenti della scuola di Chartres caratterizzano, pur coinvolgendo differenti settori di applicazione, anche i principali teorici del pensiero scolastico: Alberto Magno e il suo allievo Tommaso d’Aquino.

L’ingente numero di attestazioni di lemmi quali metaphora, metaphoricus

metaphorice, transumptio o transumptivus, che ho potuto ricavare a seguito dello

spoglio effettuato nell’opera omnia di Alberto e, in misura ancor maggiore, in quella dell’Aquinate, impone di necessità una rigorosa selezione e contestualizzazione dei

loci da discutere in questa sede. In ogni caso, i generali orientamenti che ne ho

potuto dedurre appaiono ben coerenti, tanto da poterne agevolmente fornire qui di seguito un’opportuna sintesi.

Tale coerenza di fondo andrà ricondotta non soltanto alle tradizionalmente riconosciute asciuttezza e chiarezza argomentative proprie del periodare degli scolastici (aspetto costitutivo soprattutto dei testi di Alberto Magno), ma anche al comune referente di base cui i due filosofi e teologi domenicani guardano: lo stesso

41 Ivi, col. 944. E al proposito varrà la pena di ricordare come Dante abbia scelto di inserire il pretto

latinismo sili per indicare il silenzio di un agens che, nonostante la propria sete di conoscenza, non riesce più a esprimere i propri dubbi al cospetto della giustizia divina, essendo ormai in prossimità della visio conclusiva. Un tacere che non impedisce comunque a Bernardo di accorgersi delle sue perplessità: «Or dubbi tu e dubitando sili; / ma io discioglierò ’l forte legame / in che ti stringon li pensier sottili» (Par., XXXII 49-51; per maggiori dettagli sull’immagine dantesca, cfr. nel regesto della parte II le schede relative ai lemmi legame, sottile-sottilmente-assottigliare).

Corpus Dionysiacum, da entrambi, come noto, ampiamente letto e commentato (ma

citato in modo diretto specialmente da Tommaso).

Quest’ultimo assunto, stando almeno alla superficie della littera, appare assai meno evidente in Alberto Magno, nel quale andrà pure riconosciuta talora una profonda assimilazione della teoresi neoplatonica e segnatamente dionisiana, che

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