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L A RICEZIONE DEL LINGUAGGIO FIGURATO DANTESCO DA PARTE DEI PRIMI ESEGETI DELLA C OMMEDIA

- 2.1- «E parla per metafora l’autore in questo modo…»: la presenza del lemma metafora nei primi commentatori

Dopo la generale disamina condotta sull’evoluzione della terminologia tecnico- retorica nel capitolo I, nonché l’analisi delle rare, ma assai preziose considerazioni retoriche dello stesso Dante, potrà a questo punto essere utile effettuare alcune specifiche ricerche lemmatiche nei primi commenti al poema dantesco.43 A fronte

dell’imperante tendenza classificatoria che caratterizzava le pressoché contemporanee poetrie e artes medievali, infatti, il linguaggio figurato dantesco, con la sua straordinaria imprevedibilità, doveva certo apparire agli esegeti trecenteschi un mare magnum impossibile da dominare.

Tuttavia, dall’iniziale percorso sull’evoluzione terminologica si è già ricavato un elemento significativo in questo senso: Iacopo Alighieri, Iacopo della Lana, Guido da Pisa o Pietro Alighieri, passando per Boccaccio, Benvenuto da Imola e fino a Giovanni da Serravalle (in questa sede convenzionalmente assunto come terminus ante quem) potevano disporre di tutti gli strumenti necessari per rilevare una particolare densità figurativa nel dettato poetico, se non addirittura per distinguere con puntualità la presenza di una metafora. È lecito chiedersi pertanto quali siano i loci di fronte ai quali i commentatori del XIV secolo ritenevano opportuno adoperare proprio il sostantivo metafora, o derivati quali metaforizzare,

metaforico o metaforice, niente affatto scontati a quell’altezza cronologica, in luogo

dei più comuni figura, figurato, figurativo e figurativamente, translatio, traslato o

traslazione, tanto per citare alcuni tra i più diffusi tecnicismi della trattatistica in

latino e in volgare.

Tesaurizzare nella presente ricerca questo genere di passaggi costituisce una tappa significativa, poiché l’attivazione del lessico tecnico (ancor più marcata, del resto, se si sceglie di riferirsi all’originario termine greco e non al corrispettivo

43 Segnalo che nel corso di tali indagini lemmatiche mirate, da me in seguito sottoposte a ulteriori

scremature per termini e per loci, e dunque lungi dal volersi proporre come uno spoglio completo o dai risultati definitivi, ho effettuato anche verifiche incrociate su database specifici quali Dante

Dartmouth Project (http://dante.dartmouth.edu), OVI (http://gattoweb.ovi.cnr.it) e TLIO

latino translatio) è senza dubbio spia dell’insorgere di una particolare consapevolezza interpretativa negli esegeti cronologicamente più prossimi allo stesso Dante.

Un primo dato degno di attenzione è senz’altro rappresentato dal naturale e progressivo affinarsi della terminologia retorica, il quale, se osservato da vicino selezionando e scandendo i diversi livelli attraversati dal termine metafora, risulterà particolarmente calzante ai nostri scopi: come si sono ripercosse le fisiologiche oscillazioni e sovrapposizioni, che hanno caratterizzato come visto il generale evolversi del lessico tecnico della retorica tardoantica e medievale, sull’esegesi puntuale della Commedia? Un secondo aspetto, che non mancherò di sottolineare e ribadire nel corso del paragrafo, è inoltre la varia distribuzione dei loci glossati come metafore: si registra una diretta corrispondenza tra il ricorso dei primi commentatori alla definizione di metafora e l’effettiva densità figurativa tradizionalmente riconosciuta a Inferno, Purgatorio e Paradiso? Soprattutto per quest’ultima ragione, oltre che per dare maggiore risalto alle specifiche reazioni dei singoli commentatori, ho ritenuto opportuno ordinare per cantiche la materia che segue.

- Inferno

«Quarto uditur alio sensu, qui dicitur metaphoricus, qui dicitur a meta, quod est

extra, et fora naturm, inde metaphora, quasi sermo, sive oratio extra naturam: ut

cum auctor noster fingit lignum loqui, prout fact infra in XIIIo Capitulo Inferni. Quinto utitur alio sensu, qui dicitur allegoricus, quod idem est quam alienum […] et differt a metaphorico superdicto, quod allegoricus loquitur intra se, metaphoricus extra se […] Amodo cum auctor loquitur et describit talem et talem in Inferno, Purgatorio et Paradiso, cum dictis sensibus diversimode intelligatur, ut poeta, cujus officum est ut, ea quae vere gesta sunt, in alias species obliquis figurationibus cum decore aliquo conversa traducat, secundum Isidorum». Nell’excursus sui vari sensi della scrittura preposto alla prima redazione del proprio commento, Pietro Alighieri ha scelto di collegarsi alla metamorfosi vegetale delle anime dei suicidi in Inf., XIII per esporre la propria idea di senso metaforico.44 Più articolata la posizione primo

44 PIETRO ALIGHIERI I red., pp. 6-8. Da confrontarsi in parallelo con ANONIMO FIORENTINO, vol. I, p.

10: «Il quarto è senso metaforico. Metafora è uno detto quasi fuori di natura, come quando l’Auttore finge un legno parlare, siccome nel XIII canto d’Inferno. Il quinto è allegorico: l’allegorico favella

quattrocentesca di Filippo Villani, che chiama in causa le teorie sull’alieniloquium del filosofo arabo Mosé Maimonide: «Quod falso existimant de poetis qui hystorias fabulasque secuntur et negligunt allegoriam. Rubrica. Amplius stulte existimant qui, negligentes allegoricos sensus, poetas credant dies atque noctes fabularum ludibriosis corticibus erogasse, ut pernoctantibus ieme ad ignem mulierculis alluderent orchique fabellis indociles puerorum aures lepidarent, vel, quod longe indignius est, iocosis ludibriis ad risum plebeculam excitarent. Hii siquidem falso de magnis ingeniis oppinantes pulcerrimam operis superficiem findere non audent, ut quod introrsum latet inspiciant. Ex quo accidit ut, inani refecti aura, in errores permaximos corruant. Quorum deliramentis occurrere magnopere iuris doctis studendum est, presertim ne vulgares et idiote scripturas ignorantes, quibus opus poete placidissimum est, inde in tenebras deorsum cadant, unde in sapientie speculam extimaverunt se salire, quod persepe videmus accidere. Huiuscemodi viris poeta misertus, in principio secundi cantus Paradisi sic dulciter consulit eis: O voi

che siete in piccolecta barcha, cum reliquis que secuntur, sorte sua volens

unumquemque esse contentum. Et sane iudaizare Christiani divinis monitis prohibentur: Iudei siquidem, sacrarum Licterarum textui pertinaciter inherentes, nil preter licteralem [sensum] exinde conantur elicere: eapropter velatos habent occulos intellectus. Quorum perfidie succensere videtur modernorum acutissimus Moyses Ben Maimon, in libro quem ipsi ebrea lingua Annebochin vocant,45 quod latine sonat directio neutrorum, vel, ut proprius loquamur, nutantium, ubi sic loquitur: “Scito - inquit -quod clavis intelligentie universorum que dixerunt prophete est intelligere parabolas atque methaphoras, similitudines atque enigmata”».46

infra sè: il metaforico fuori di sè». Faccio notare che l’assunto della metafora come qualcosa extra

naturam dimostra, al di là dell’abituale diffidenza degli esegeti verso una figura così complessa,

anche le pesanti analogie con il biasimo universalmente rivolto verso l’acirologia, l’impropria dictio (sulla quale cfr. qui oltre). Aggiungo che il riferimento di Pietro alla metaphora extra naturam non si riscontra nelle due successive redazioni del Comentum, ma l’allusione interna a ISIDORO, Etym., VIII 7, 9-10 ritorna, evolvendosi in una citazione pressoché letterale della fonte, nella terza: «Item scribet aliqua idem auctor in hoc eius poemate sub figuris et coloribus diversimodis ad decorem quendam huius eius operis, ut sint seria picta iocis, sic etiam ut moris est aliorum poetarum; unde Ysidorus ait in libro Ethymologiarum: Poetarum est ut ea, que vere gesta sunt, in alias species, obliquis

figurationibus cum decore aliquo diversas transducere, cum figmentis seu fictionibus more poetico intersectis» (PIETRO ALIGHIERI IIIa red., p. 83). Sulla valenza tecnica del suddetto passo isidoriano cfr. anche ARIANI, I «metaphorismi», cit., p. 42, nota 121.

45 Sulla circolazione dell’opera di Maimonide (ossia il Rabbi Moyses al quale sovente accenna, tra gli

altri, Tommaso d’Aquino), la cui traduzione latina era nota con il titolo di Dux neutrorum, nonché i possibili punti di contatto con Dante cfr. almeno B. NARDI, Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza, 19904, pp. 231, 288-290.

Ora però, al di là delle considerazioni generali appena osservate, mi sembra opportuno esaminare caso per caso i luoghi prescelti e le rispettive, differenti posizioni teoriche, a partire dal canto I. Per la terzina incipitaria, si registrano attestazioni dell’avverbio metaphorice nella prima redazione del Comentum di Pietro Alighieri, dove viene collegato in particolare alle funzioni simboliche dell’ingresso nella selva: «sic auctor noster descendit ad infernum juvenis, et in medio camini ipsius vitae, idest ad cognitionem terrenorum, ut eis probabiliter abominatis moriens non vadat ad essentialem infernum. Et metaphorice procedendo fingit se ipsum repperisse in quadam sylva obscura, hoc est in statu vitioso».47 Stesso discorso vale per Benvenuto da Imola, nel cui commento si leggono ulteriori elementi utili alla lettura complessiva della figurazione: «mi ritrovai per una selva oscura: ista siquidem sylva est mundanus status viciosus, qui metaphorice appellatur sylva; sicut enim in sylva est magna diversitas arborum, ita in mundo isto diversa varietas hominum et animorum […] Sicut enim sylva est locus incultus, plenus insidiarum, receptaculum ferarum in hominem diversimode saevientium, ita in ista vita inculta sunt diversa genera viciorum saevientium in perniciem animarum et corporum, ut statim dicetur. Et dicit oscura propter ignorantiam et peccatum, quae obcaecant, et obscurant, et tenebras petunt, quia qui male agit, odit lucem».48

Più interessante la glossa di Benvenuto alla metafora delle spalle del colle «vestite» dai raggi del sole, traslato alquanto ardito, non senza sfumature sinestetiche, in cui l’Imolese ha tuttavia avvertito una netta proprietas: «Et tangit claritatem istius montis cum dicit: vestite già de’ raggi del pianeta, idest, jam illuminata radiis solis. Et nota metaphoram propriam; sicut enim ille qui vadit per vallem infimam, diu vadit antequam illucescat sibi, sed cum incipit appropinquare ad montem, continuo incipit videre solem, ita a simili autor noster diu ambulaverat in tenebra viciorum, nunc autem incipiebat ascendere ad lucem virtutum; et per hoc

47 PIETRO ALIGHIERI Ia red., pp. 25-26 (preciso che tutti brani tratti dalla prima redazione del

Comentum sono stati sottoposti a ulteriore confronto incrociato con quelle conservate nei mss. Ash.

841 e Barb. 4029, oltre che quella del ms. Vat. Ott. lat. 2867, facendo ricorso alla sinossi delle tre redazioni, utile seppur discutibile dal punto di vista dei criteri ecdotici adottati, proposta ne Il

«Commentarium» di Pietro Alighieri nelle redazioni Ashburnhamiana e Ottoboniana, trascrizione a

cura di R. Della Vedova e M. T. Silvotti, nota introduttiva di E. Guidubaldi, Firenze, Olschki, 1978). Rimarcherei qui la peculiare facies di questa prima occorrenza: «metaphoriceprocedendo fingit», che inaugura la sistematica e prevedibile coincidenza tra la metaphora e la fictio poetica, vale a dire il riconosciuto cardine metodologico dell’interpretazione che Pietro (e prima di lui il fratello Iacopo) ha dato dell’esperienza paterna.

innuit quod virtus est clara, et reddit hominem clarum. Et nota quod per solem istum moraliter debes intelligere solem justitiae, scilicet Deum, cujus gratiae radiis mons, idest ardua virtus, potest lucere in homine, nisi Deo illuminante, ut statim dicetur secundo capitulo sequenti».49

In corrispondenza dei vv. 100 sgg., con gli ulteriori chiarimenti di Virgilio all’agens in merito alla figura della lupa e soprattutto la successiva profezia del veltro, si assiste nelle chiose a un significativo incremento delle occorrenze di

metafora e dei termini affini, anche se nella maggioranza dei casi tali definizioni non

sembrano essere del tutto pertinenti al contesto, poiché si rileva una certa confusione nella prevalente tendenza a considerare quasi sinonimi similitudine, metafora, simbolo e allegoria. Così, Iacopo della Lana assimila con il verbo metaforizzare lupa e veltro («Or sì com’ello mettaphoriza per l’avaricia una lupa, cossì per largheza

mettaphoriza uno veltro, zoè uno levorriero; perché naturale contrarietate e

malivolenza è tra li lupi e li cani»),50 inaugurando di fatto una costante che si avrà modo di notare assai spesso nella presente indagine lemmatica: contrariamente ai sostantivi metaphora o transumptio, avvertiti in genere quali spie di definizioni retoriche precise e dunque usati con maggior consapevolezza, direi anche parsimonia, gli avverbi metaphorice e transumptive coincidono per lo più con sommarie, imprecise, talora persino errate allusioni ai rispettivi procedimenti figurativi.

A una specifica funzione metaforica del veltro, in quanto traslato che concretizza uno specifico influsso celeste (a sua volta personificato in un «virtuosissimo uomo») contrario all’avarizia, accenna Giovanni Boccaccio, che ammette poi la propria difficoltà a comprendere il contenuto complessivo delle

49 Ivi, p. 30. Niente affatto casuale, l’ossimorica nozione di metaphora propria (sul cui statuto tecnico

cfr. qui al cap. I, passim) viene adoperata nel commento di Benvenuto in corrispondenza di diverse categorie di traslati, e si invita pertanto da subito a prestare ogni volta attenzione alla sua presenza nel corso di questo spoglio. Inoltre, per quanto concerne i traslati che caratterizzano Inf., I 16-18, mi pare utile segnalare anche la successiva chiosa di Filippo Villani, che nota con perspicacia l’episodio di

geminatio troporum, pur invitando nel contempo a leggere vestite del raggio (anziché de’ raggi) a

sottolineare l’unicità di Dio: «Vestite. Geminat tropum: nam nec mons habet spatulas, neque radius solis induit eas, et uterque pulcerrimus est. Nam sancti doctores, volentes aliqualiter exemplificare quomodo humanitas Christi patiebatur intacta deitate, similitudinem proponunt precidentis arborem vestitam radio solis: nam etsi arbor securi percussa cadat, propterea solis radius non scinditur, non minuitur neque vituperatur. Lege Athanasium in Simbolo niceno, qui nos docet credere et tenere Christum verum Deum et verum hominem, et ibi videbitis qualiter viderunt collem istum radio solis vestitum trecenti viginti Patres. già: et sic affirmat tempus incarnationis Christi; del raggio. Alia lictera habet “de’ raggi”, sed prima melior quia unicus est radius eterni solis, de quo Simbolum dicit: “Lumen de lumine”» (VILLANI, p. 101).

terzine in questione: «E, per ciò che queste impressioni del cielo conviene che qua giù s’inizino e comincino ad aparere i loro effetti o per alcuno uomo o per più, par l'autore qui sentire che per uno si debbano gli alti effetti di questa impressione dimostrare: il quale metaphorice51 chiama “veltro”, per ciò che i suoi effetti saranno del tutto così contrari all’avarizia, come il veltro di sua natura è contrario al lupo. E costui mostra dovere essere virtuosissimo uomo, e che la nazion sua debba essere tra feltro e feltro […] E questa è quella parte dalla quale muove tutto il dubbio che nella presente discrizione si contiene: la qual parte io manifestamente confesso ch’io non intendo, e perciò in questo sarò più recitatore de’ sentimenti altrui che esponitore de’ miei».52 Mentre di transumptio e metafora prolungata («bene servata») parla Benvenuto da Imola: «molti son gli animali, idest homines bestiales, a cui

s’ammoglia, idest quibus adhaeret, tamquam uxor. Et est pulcra transumptio: sicut

enim uxor non potest separari a viro, nisi per mortem, ita avaritia amantissima conjux inseparabiliter adhaeret multis viris usque ad mortem: ideo melius potest dici uxor quam amica: ideo magis proprie dixit s’ammoglia, et non s’amica. Et subdit multiplicationem et incrementum hujus vicii dicens, e più saranno ancora. Et tangit hostem istius lupae venturum, dicens, infin che ’l veltro verrà. Et breviter vult dicere quod continuo avaritia crescet, donec veniet unus veltrus, idest canis, qui perdet eam; quia enim autor assimilaverat avaritiam lupae, ideo bene servata methaphora appellat persecutorem ejus canem, qui naturaliter inimicus persequitur lupum, et ipsum expellit ab ovibus, et saepe mactat».53

Nella prima redazione del commento di Pietro Alighieri, l’avverbio

metaphorice compare in relazione al ruolo di guida rivestito da Virgilio-Ragione

(«Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno / che tu mi segui, e io sarà tua guida, / e trarrotti di qui per loco etterno»), istituendo dunque una nuova sovrapposizione tecnica con la sfera di pertinenza dell’allegoria (e infatti, metaphorice occorre appena dopo un’attestazione di allegorice): «eum ducet, scilicet per Infernum moraliter intellectum, ubi videbit spiritus cridantes secundam mortem. Allegorice

51 Si noti la maggior consapevolezza boccacciana rispetto, ad esempio, al succitato commento laneo:

anche qui non si tratterebbe effettivamente di metaphora in senso stretto, ma il Certaldese adopera volutamente il sintagma «metaphorice chiama» sforzandosi, in ogni caso, di giustificare tale impiego mediante l’associazione a procedimenti di concretizzazione e perrsonificazione di astratti.

52 BOCCACCIO, pp. 88-89.

53 BENVENUTO DA IMOLA, vol. I, p. 55. Si confronti oltretutto questo specifico segmento con le

Chiose cassinesi: «Et vult dicere. quod continuo crescet avaritia donec veniet canis perdens eam. Quia enim assimilaverat ipsam lupe ideo bene servata methaphora appellat persecutionem ejus canem quia naturaliter inimica animalia sunt. et sepe vel illam fugat vel mactat» (CODICE CASSINESE, p. 13).

pravi et vitiosi mortui sunt quodammodo in fama, et haec est prima eorum mors […] Item dicit quod ducet eum per Purgatorium, sed per Paradisum non; quia dicta ratio, quae in figura pro Virgilio ponitur, ex eo quod fuit Deo rebellis in non obediendo in primis parentibus amisit locum talem posse ascendere demonstrative et contemplari. Ideo dicit quod dabit illum Philosophiae, cum qua ad talia potest ascendere, scilicet

metaphorice: seu Theologiae, quae in persona Beatricis figuratur».54

Di un certo interesse in questa sede appare, infine, il generale riferimento tecnico alla nozione di metafora nel commento di Filippo Villani, che si sofferma a spiegare cosa intendesse per methonomia all’altezza del v. 106 («Di quella umile Italia fia salute»), allegando alcuni esempi: «Di quella humile Ytalia: methonomia est, hoc est denominatio, que a rebus finitimis trahit originem; et ideo dicitur a ‘metha’, quod est ‘de’ vel ‘trans’, et ‘nomo’, quod est ‘nominatio’, respondetque colori qui dicitur ‘denominatio’ […] Fit etiam methonomia, secundum Tulium, quando representans ponitur pro representato, significans pro significato, possexum pro possexore; vel quando adiectivum quod est cause attribuitur effectui, vel e converso, ut Iam gelidas Cesar cursu superaverat Alpes: gelide Alpes non sunt, sed gelu faciunt. Et notare debes quod methaphora est translatio in significatione, sed methonomia fit in officio. Et hec differentia inter hos tropos assignatur, secundum quod dicunt quidam, quod methonomia continetur sub methafora». Vi è un non trascurabile grado di consapevolezza dunque, in Villani, riguardo alla metonimia quale sottocategoria della metafora stessa, pur con le dovute distinzioni che intercorrono tra le due figure.55

Per Inf., II, III e IV si dovrà guardare anzitutto all’Anonimo fiorentino, nel

quale si trova l’ennesimo, generico accenno a Beatrice-Teologia e al linguaggio figurato delle sacre scritture a commento di II 53 (si noti la reiterata assenza di distinzione tra allegoria, similitudine e metafora): «Fue questa giovane figliuola di Folco Portinari, et moglie di messer Simone de’ Bardi: ma allegoricamente intende per questa Beatrice la santa Teologia, et dice ch’ell’è beata et bella: beata in quanto ella tratta de’ Beati et della beatitudine. Poi, perchè, interpetrando Beatrice, tanto vuole dire quanto Beata Gioja, dice ch’era bella; et questo è vero che la Santa

54 PIETRO ALIGHIERI Ia red., p. 40. 55 VILLANI, pp. 178-179.

Scrittura parla bello et pulitamente, et con metafore et belle similitudini, et con ornate parole et chiare».56

Un metaphorice collegato al motivo della città infernale si riscontra

all’altezza di Inf., III 1-3 nel Comentum benvenutiano: «ista autem est multitudo civium ad semper male vivendum ordinata. Dicendum breviter quod autor capit hic civitatem methaphorice, et eleganter appellat Infernum civitatem, quia haec civitas est conflata ex omnibus civitatibus mundi, et continet in se cives de omni genere universi, qui omnes constituunt istud corpus civitatis, in qua justo judicio Dei puniuntur de commissis».57 Sempre Benvenuto poi, applica il medesimo e più sommario termine tecnico all’incipit del canto successivo, dove spicca la rottura dell’«alto sonno ne la testa» attraverso un «greve truono», cui l’Imolese, che dà al contempo qui a «testa» il preciso senso di fanthasia, conferisce in particolare la funzione di metafora: «Et ad intelligentiam huius literae est praenotandum quod iste tonitrus est terribilis sonus penarum, de quo dicetur paulo infra, quem sonum autor appellat methaphorice tonitrum, sicut saepe, quando audimus aliquem alte vociferantem, solemus dicere: emisit vocem, quae visa est unum tonitrum. Nunc ergo ad literam dicit autor: un grande trono, idest, terribilis sonus, ruppeme l’alto

sonno, idest excitavit mihi profundam speculationem vel quietem, nella testa, idest

fanthasia mea, sì ch’io mi riscossi, idest recuperavi sensum, et evigilavi, per simile,

come persona che per forza èe desta, idest excitata violenter, sicut a simili videmus

de facto, quod quis fixe dormiens in camera aliquando excitatur totus territus violentia immensi soni, sicut tonitrui, vel crepitus, qui vulgariter appellatur

bombarda».58

Ai vv. 64-66 del canto IV, sia Iacopo della Lana che lo stesso Benvenuto

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