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S ENSO TRASLATO VS SENSO PROPRIO 1 Inferno

parte II le schede arco, bersaglio e strale.

2. S ENSO TRASLATO VS SENSO PROPRIO 1 Inferno

Il filtrare della luce solare («de’ raggi del pianeta») nella fitta «selva oscura», a “vestire” le «spalle» del colle ai cui piedi giunge, esattamente all’inizio del proprio viaggio, il Dante agens, ha l’immediato effetto di alleviare nel «lago del cor» di quest’ultimo la «paura» vissuta nella «notte» appena trascorsa:

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, là dove terminava quella valle

che m’avea di paura il cor compunto, guardai in alto e vidi le sue spalle vestite già de’ raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle.

Allor fu la paura un poco queta, che nel lago del cor m’era durata la notte ch’i’ passai con tanta pieta.

(Inf., I 13-21).10

L’intrecciarsi di notevoli metafore (la veste di luce, le spalle del colle o il lago del cuore), entro più ampi significati allegorico-morali (tutti imperniati sul motivo dell’alternanza tra giorno e notte, luce della virtù e obscuritas del peccato), precede gli altrettanto densi versi dedicati alla similitudine dello scampato naufragio (22-27). All’alta concentrazione figurativa di queste terzine, la cui funzione è anzitutto quella di innescare i primi meccanismi transuntivi portanti del poema, alcuni esponenti dell’antica vulgata, ossia cinque rappresentanti del ramo toscano α,

10 Salvo diversamente specificato, e naturalmente tranne che in sede di confronto diretto tra le diverse

edizioni del poema, per tutte le citazioni della Commedia si segue il testo critico fissato da Giorgio Petrocchi. Segnalo inoltre che, nel citare i codici, impiego sempre le sigle adottate da Petrocchi per il proprio apparato critico. Per ulteriori dettagli aggiornati, descrizioni e voci bibliografiche relative ai testimoni dell’antica vulgata, ivi compresi quelli da me aggiunti a integrare le verifiche sui loci analizzati, cfr. le rispettive schede di BOSCHI ROTIROTI, part. alle pp. 109-144, da integrare, limitatamente ai codici conservati a Firenze, con quelle di BERTELLI, pp. 327-395. Tra i testimoni datati dopo la metà del XIV secolo da Boschi Rotiroti, ma ricollocati entro l’antica vulgata da Bertelli, specifico poi di aver effettuato personalmente ulteriori verifiche riguardo a tutti i loci presi in esame anche sui mss. Plut. 40.11 e Plut. 90 inf. 42 (cfr. BOSCHI ROTIROTI, p. 117, scheda n. 64 e p. 118, scheda n. 76; BERTELLI, pp. 327-328, scheda n. 1 e pp. 343-344, scheda n. 11) prestando tra l’altro attenzione agli esiti del discusso Plut. 40.25, codice composito, nonché marcatamente oscillante sul limite dell’antica vulgata secondo entrambi gli studiosi (queste le proposte di datazione: seconda metà del sec. XIV per BOSCHI ROTIROTI, p. 118, scheda n. 72; tra metà e terzo quarto del sec. XIV per BERTELLI, pp. 394-395, scheda n. 41, che lo ha collocato insieme allo Strozzi 155 in appendice ai codici dell’antica vulgata, come testimone degno di maggiore attenzione rispetto a quelli sicuramente da scartare).

assegnerebbero un tasso di metaforicità ancora maggiore, complice l’inserimento di un ulteriore traslato al v. 20: il verbo indurare, che descrive gli effetti della paura nel «lago del cor», con la lezione m’era ’ndurata (Lo Ricc Triv e Tz) o m’era indurata (Mart), in luogo del semplice dato temporale fornito da durare.

Nonostante si tratti senza dubbio di una lectio difficilior, che comporterebbe non soltanto un interessante approfondimento del lessico metaforico ispirato alla fisiologia medievale, ma proseguirebbe idealmente le stesse premesse figurative poste con il traslato del «lago del cor», dal punto di vista stemmatico il participio passato ’ndurata/indurata appare assai poco difendibile. Del resto, neppure i risultati delle ulteriori verifiche che ho effettuato su alcuni dei codici datati entro l’antica vulgata da Boschi Rotiroti e ancor più di recente da Bertelli, nonché sul discusso Bud11 e il seriore Ph,12 contribuiscono granché ad alterare il quadro generale già esposto. Il solo fattore di un certo interesse che se ne ricava è il minimo incremento di testimonianze a favore di indurare (sempre nella forma ’ndurata): mera ndurata (Vitrina 23.3, Strozzi 152, Ricc 1048, Plut. 40.11, Plut. 40.12, Plut. 40.14, Plut. 40.35); cifre cui in ogni caso fa da contrappeso un pari numero di attestazioni per

durata (Ricc 1025, Plut. 40.13, Plut. 40.15, Plut. 90 inf. 42, Plut. 90 sup. 125a, Bud,

Ph).13

Considerato ciò, varrà a questo punto la pena di osservare le soluzioni avanzate nelle edizioni critiche successive a quella di Petrocchi: a promuovere a testo il verbo indurare è il solo Lanza («che nel lago del cor m’era ’ndurata»), il

11 Il Codex Italicus 1 della Biblioteca Universitaria di Budapest è stato datato entro l’antica vulgata

(1345 ca.) e tenuto in significativa considerazione da P.TROVATO, Fuori dall’antica vulgata. Nuove

prospettive sulla tradizione della “Commedia”, in Nuove prospettive sulla tradizione della “Commedia”. Una guida filologico-linguistica al poema dantesco, a cura di P. T., Firenze, Cesati,

2007, pp. 669-715, part. pp. 701-703 (da cui riprendo la sigla Bud, con cui il manoscritto verrà sempre citato), e ID., Postille sulla tradizione della “Commedia”, in «Filologia italiana», IV, 2007, pp. 73-77; divergenti le ipotesi formulate in merito da G. INGLESE, Per lo stemma della “Commedia”

dantesca. Tentativo di statistica degli errori significativi, «Filologia italiana», IV, 2007, pp. 51-72,

part. alle pp. 70-71. Per una riproduzione fotografica integrale di Bud, corredata da saggi dedicati e da una trascrizione semidiplomatica (curata da F. Forner e P. Pellegrini), cfr. DANTE ALIGHIERI, “Commedia”. Biblioteca Universitaria di Bupadest. Codex Italicus I, a cura di G. P. Marchi e J. Pàl, 2 voll., Verona, Szegedi Tudomànyegyetem-Università degli Studi di Verona, 2006.

12 A Ph, ossia il ms. H R C 45 (già Phillipps 8881) della Library Chronicle of the University of Texas,

è stata attribuita notevole rilevanza stemmatica all’interno della tradizione della Commedia soprattutto da parte di P. TROVATO, Intorno agli stemmi della “Commedia”, in Nuove prospettive, cit., pp. 611-649, mentre per una diversa valutazione complessiva del codice cfr. da ultimo G. INGLESE, Il ms. Phillipps 8881 (Ph) e lo ‘stemma’ della “Commedia” dantesca, in Letteratura e

filologia tra Svizzera e Italia. Studi in onore di Guglielmo Gorni. Vol. I. Dante: la ‘Commedia’ e altro, a cura di M. A. Terzoli, A. Asor Rosa, G. I., Roma, Storia e Letteratura, 2010, pp. 275-286.

quale ha potuto legittimare con la testimonianza del proprio codex optimus Triv la presenza del traslato ’ndurata, ritenuto la «lezione […] sicuramente […] genuina» poiché «consente di recuperare l’icastica e raffinata immagine della paura ghiacciatasi nel “lago del cor” (‘si era indurita dentro di me’, e non il fiacco ‘era durata’)». Secondo Lanza la lezione durata, pur così largamente maggioritaria nell’antica vulgata, «presenta una manifesta omissione del titulus», e costituisce quindi una «patente banalizzazione»14 della variante prescelta nella sua edizione. Nel testo critico fissato da Sanguineti invece, Inf., I 20 non presenta alcuna differenza rispetto all’edizione di Petrocchi, se si eccettua il dittongamento di cor: «che nel lago del cuor m’era durata». Stesso discorso vale per la recente revisione del testo di Inglese, in cui andrà notato tra l’altro il ritorno al monottongamento di

cor adottato da Petrocchi: «che nel lago del cor m’era durata».

In sostanza, l’unico reale ostacolo alla promozione a testo del verbo indurare è la scarsezza di testimonianze in suo favore nell’antica vulgata, con cinque codici che teoricamente varrebbero almeno quanto due, trattandosi del saldo binomio Mart Triv (a) e addirittura di tre esemplari di Danti del Cento. Non si può infatti negare quanto la concomitanza tra piena applicabilità del criterio della lectio difficilior, ed estrema congruenza con il lessico metaforico-fisiologico del verso, possa decisamente orientare verso la lezione ’ndurata/indurata, come in parte lo stesso Petrocchi,15 ma soprattutto Inglese (che la definisce «interessante, pur se non promovibile», e spiega l’eventuale allusione scientifica adducendo un passo di Bartolomeo Anglico),16 lasciano intendere nelle proprie rispettive note ad locum.

14 LANZA, p. 6.

15 PETROCCHI, vol. II, p. 6: «Indurata […] può nascere dall’immagine viciniore del lago del cuore, a

significare che la paura s’era come ‘indurita’, ‘ghiacciata’, in quel lago, quindi era divenuta ‘più cruda’ (cfr. indurare a Purg. I 104). Questo può chiarire la genesi della variazione, ma non la valorizza più di tanto; si resti a durata, ‘perdurata’, anche in forza delle testimonianze: β, la linea Ash Co Ham ecc.».

16 INGLESE, Inf., p. 41. Aggiungo tra l’altro che il passo di Bartolomeo Anglico citato, ossia De

proprietatibus rerum, V 36, risulta particolarmente efficace nel dare un’idea delle teorie medievali

relative alla struttura cava del cuore e al possibile ghiacciarsi del sangue: «si nimia frigiditate cor constringitur, congelatur sanguis unde et mors sequitur». Se ne ha coscienza soprattutto se a «et mors sequitur» si collega il «tant’è amara che poco è più morte!» del v. 4, riferito alla selva fonte di terrore: si potrebbe quasi ipotizzare che i raggi solari del v. 17 abbiano arrestato, con il proprio benefico calore, un processo fisiologico di congelamento della linfa vitale di per sé già iniziato (similmente, più che alla formazione delle lacrime di Purg., XXX 97-99: «lo gel che m’era intorno al cor ristretto, / spirito e acqua fessi, e con angoscia / de la bocca e degli occhi uscì del petto», a quanto esperito dall’agens nella «ghiaccia» del Cocito, al cospetto di Lucifero: «Com’io divenni allor gelato e fioco, / nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo, / però ch’ogne parlar sarebbe poco. / Io non mori’ e non

A integrare questi aspetti, vi è poi il responso dell’antica esegesi, dove andrà ammesso come la non significativa presenza di glosse che si soffermino nello specifico sul verbo durare o indurare17 possa essere letta in almeno due sensi: il

poco interesse suscitato da un significato letterale che si spiega da sé, dopo le maggiori attenzioni richieste dall’ardito «lago del cor», oppure un esempio della consueta reticenza di fronte al linguaggio figurato, specie all’accumulo di più traslati. Non a caso, una delle chiose più prodighe di dettagli in materia, quella di Guglielmo Maramauro, appare nel contempo alquanto bizzarra, niente affatto utile per chiunque intenda proporre connessioni con il lessico fisiologico-scientifico (la sola strada percorribile, almeno a mio avviso, per dare una qualche legittimità al verbo indurare):

Qui D. mostra como per questo sole esso quietò alquanto la soa paura, la quale gli era indurata ne l’ago del core: e questo è a denotare che esso era tanto indurato dentro a l’ago per la nocturna obscuritate la quale avia passata in tanta pietate. E dicono alcuni che questo se intenda la abundantia de li penseri umani, li quali sono adunati nel core como a membro principale; e dicili “la ago” propriamente, e toca qui l’ago del core. Però è da sapere che ’l cor umano è da l’un dei capi groso e da l’altro molto sotile, a modo de una ago, sì che, quando l’omo ha una gran paura, quella ago se converte in suso e allora l’omo non ardisse de far

17 Tra i commentatori più eloquenti, in questo senso, vi è Pietro Alighieri, le cui chiose indugiano in

tutte e tre le redazioni del Comentum, pur con alcune differenze nell’impostazione e nelle fonti richiamate, sulla struttura dei ventricoli cardiaci, accennando però al durare segnatamente nella prima: «Per quae debet patere allegorica locutio auctoris non grossis, dicendo quod viso illo lumine illius solis, idest veritatis demonstrativae, timor aliquantulum in eo quievit, ex eo quod sperare incoepit virtute talis lucis posse evadere de dicta nocte, idest de statu tali vitioso, qui duraverat ei in lacu cordis» (PIETRO ALIGHIERI Ia red., p. 30). Segnalo inoltre come nell’anonimo volgarizzamento della stessa prima redazione del Comentum, conservato nel ms. Ashb. App. dant. 2 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze e collocabile nella seconda metà del XIV secolo, l’ultimo segmento della glossa si presenti curiosamente in questa forma: «però ch’ebbe speranza uscire della selva viziosa, e cominciò a partirsi la paura che già era indurata nel lago del cuore» (M. SERIACOPI,

Volgarizzamento inedito del Commento di Pietro Alighieri alla «Commedìa» di Dante. Il Proemio e l’«Inferno», Reggello, FirenzeLibri-Libreria Chiari, 2008, p. 28). Alquanto particolareggiati poi

anche i commenti di Boccaccio: «Allor fu la paura un poco queta, cioè meno infesta, Che nel lago

del cor: È nel cuore una parte concava, sempre abondante di sangue, nel quale, secondo l’oppinione

di alcuni, abitano li spiriti vitali, e di quella, sì come di fonte perpetuo, si ministra alle vene quel sangue e il calore, il quale per tutto il corpo si spande; ed è quella parte ricettacolo di ogni nostra passione: e perciò dice che in quello gli era perseverata la passione della paura auta. E perciò dice:

m’era durata, La notte ch’i’ passai con tanta pieta, cioè con tanta afflizione, sì per la diritta via la

quale smarrita avea e sì per lo non vedere, per le tenebre della notte, donde né come egli si potesse alla diritta via ritornare» (BOCCACCIO, p. 22); e Benvenuto: «Allor fu la paura. Hic autor ponit effectum istius inspectionis, scilicet quietationem sui timoris, dicens: Allor fu la paura un poco queta, idest aliquantulum quietata, che nel lago del cuor m’era durata, idest quae duraverat mihi in profundo cordis, la notte, appellat noctem totum tempus, quo steterat in viciis, ch’io passai con tanta

pieta, idest cum tanta passione. Et merito remissus est timor, quia continuo concepit aliqualem spem

evadendi ex ista sylva, cum coepisset modicum cognoscere claritatem virtutis» (BENVENUTO DA IMOLA, vol. I, p. 30).

alcuna cosa. E così divene a D. che la paura gli era indurata ne la ago del cor. E però, quando lo dicto sole li illuminò lo intelecto, la dicta paura li cominzò a quietarsi un poco. E questa è un’altra oppinione.18

In conclusione, sarà opportuno fare alcune precisazioni riguardo all’unica, effettiva occorrenza del verbo indurare nell’intero poema, vale a dire Purg., I 103- 104: «null’altra pianta che facesse fronda / o indurasse, vi puote aver vita». Nel citato luogo purgatoriale, Catone esalta l’humilitas del giunco, la pianta di cui di lì a poco dovrà esser cinto lo stesso Dante agens, e dunque il verbo indurare allude, peraltro in palese contesto figurativo vegetale,19 alla duritia del vizio della superbia in opposizione alla virtù dell’umiltà. Questo indizio intratestuale non riesce comunque ad avvalorare pienamente un ipotetico accenno alla superbia dello stesso

agens a Inf., I 20, poiché il topos della duritia cordis, associato al terrore,

apparirebbe alquanto fuori contesto, a meno che non lo si associ alla excaecatio del peccato (si pensi almeno a Iohann., XII 40: «excaecavit oculos eorum et induravit eorum cor ut non videant oculis et intellegant corde»).20

Andrà infine presa in conto la natura polisemica del verbo durare, il quale, al pari del durare latino,21 include in sé tra gli altri il senso di ‘resistere concretamente

18 MARAMAURO, p. 90.

19 Lo stesso contesto figurativo vegetale ritorna, non a caso, nell’unico altro impiego dantesco di

indurare (al di fuori della Commedia, si intende), laddove il verbo viene associato, in antitesi rispetto

a Purg., I, al rafforzarsi della virtù: «E però vuole santo Augustino, e ancora Aristotile nel secondo de l’Etica, che l’uomo s’ausi a ben fare e a rifrenare le sue passioni, acciò che questo tallo, che detto è, per buona consuetudine induri, e rifermisi ne la sua rettitudine, sì che possa fruttificare, e del suo frutto uscire la dolcezza de l’umana felicitade» (Conv., IV 21, 14).

20 L’associazione tra excaecatio del peccato e duritia della superbia di fronte a Dio si coglie tenendo

presente il riferimento incrociato a Is., VI 7-10: «et tetigit os meum et dixit “ecce tetigit hoc labia tua et auferetur iniquitas tua et peccatum tuum mundabitur”, et audivi vocem Domini dicentis quem mittam et quis ibit nobis et dixi “ecce ego sum mitte me”, et dixit “vade et dices populo huic audite audientes et nolite intellegere et videte visionem et nolite cognoscere, excaeca cor populi huius et aures eius adgrava et oculos eius claude ne forte videat oculis suis et auribus suis audiat et corde suo intellegat et convertatur et sanem eum»; ma soprattutto leggendo, tra gli altri, i rispettivi commenti di AGOSTINO, In Epist. Ioann. ad Parth., LIII 5 e LIV 1; o ancora TOMMASO D’AQUINO, Super Iohann., I 13, XII 7. Per ulteriori accenni scritturali alla duritia cordis con il verbo indurare, specie in corrispondenza della superbia di coloro che rifiutavano la conversione cfr. almeno Iob, XLI 15; Is., LXIII 17; Ex., IV 21, VII 3, XIV 4. Cfr. anche qui alla nota seguente.

21 In particolare, i participi passati duratus-durata compaiono spesso in espressioni relative alla

durezza del ghiaccio o all’indurirsi della neve nel corso del tempo (soprattutto nei processi di formazione dei cristalli secondo la mineralogia antica, si pensi almeno a ISIDORO, Etym., XVI 13, 1: «Traditur quod nix sit glacie durata per annos», o MARBODO, De lapid., XLI 550: «Cristallus glacies multos durata per annos»). Descrizioni scientifiche cui Agostino non mancò di fare accenno, alludendo dal canto suo al liquefarsi della duritia dei superbi mediante il calore della luce divina, in un passo delle Enarrationes in Psalmos che varrà la pena qui di richiamare ampiamente: «Quid est crystallum? Multum obduruit, multum congelavit; non iam sicut nix facile solvi potest. Nix multorum annorum tempore durata et serie saeculorum, crystallum dicitur […] Quid hoc sibi vult? Fuerunt nimis duri, non iam nivi, sed crystallo comparandi: et ipsi praedestinati sunt, et vocati […] Et si

nel tempo, mantenere una determinata condizione materiale’. Ad Inf., I 20, quindi, non vi sarebbe neppure l’obbligo di discostarsi dalla lezione maggioritaria durata per recuperare l’indiretta allusione al perdurare di un agghiacciamento, a una «paura» solidificata con la linfa vitale stessa (concretizzazione d’astratto già in parte anticipata al v. 15: «m’avea di paura il cor compunto»), nella cavità del cuore.22

Il secondo dei casi esaminati in questa categoria è inserito nella dissertazione di contenuto dottrinale, relativa alla condizione delle anime nel Limbo, affidata alle parole di Virgilio:

Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi che spiriti son questi che tu vedi?

Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,

ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,

fuerint qui ex tanta duritia, in quanta ipse fuit, panis fierent; ipso proposito ad exemplum, omnes occurrant, ut explicetur sensus iste: Mittit crystallum suum sicut frusta panis. Ecce crystallum erat apostolus Paulus, durus, obnitens veritati, clamans adversus Evangelium, tamquam indurans adversus solem. Iste quam durus fuit, crescens in Lege, eruditus ad pedes Gamalielis Legis doctoris! […] Ergo videmus nivem, nebulam, crystallum: bonum est ut ille spiret, et solvat. Si enim ille non spiraverit, si non ipse duritiam glaciei huius dissolverit: In faciem frigoris eius quis subsistet? In faciem frigoris

eius, cuius? Dei. Unde est eius frigus? Ecce deserit peccatorem, ecce non vocat, ecce non aperit

sensum, ecce non infundit gratiam: solvatur homo, si potest, glacie stultitiae. Non potest. Quare non potest? In faciem frigoris eius quis subsistet? Vide ergo congelascentem illum, et dicentem: Video

aliam legem in membris meis, repugnantem legi mentis meae, et captivum me ducentem in lege peccati, quae est in membris meis. Miser ego homo, quis me liberabit de corpore mortis huius? Ecce

frigesco, ecce congelasco; quo calore solvar, ut curram? Quis me liberabit de corpore mortis huius?

In faciem frigoris eius quis subsistet? Et quis seipsum liberabit, si ille deseruerit? Et quis liberat? Gratia Dei, per Iesum Christum Dominum nostrum. Audi et hic gratiam Dei: Qui mittit crystallum suum sicut frusta panis: in faciem frigoris eius quis subsistet? Ergo desperatio est? Absit. Sequitur

enim: Emittet verbum suum, et tabefaciet ea. Non ergo desperet nix, non desperet nebula, non desperet crystallum. […] Sed licet sint inter praedestinatos durissimi, et multo quasi tempore congelaverint, et crystallum facti fuerint; non erunt duri misericordiae Dei. Emittet verbum suum, et

tabefaciet ea. Quid est, tabefaciet? Ne forte in malo intellegatis tabefaciet; liquefaciet, dissolvet. Duri

sunt enim per superbiam. Merito et superbia stupor dicitur; quidquid enim stupidum est, frigidum est. Rigorem passi homines quotidie dicunt: Obstupui. Ergo superbia stupor est. Emittet verbum suum, et

tabefaciet ea. Et revera cumuli nivis cum calefiunt, deliquescunt in humilitate. Quomodo ergo quasi

montem nivis erigit stupor, sic stultos erigit superbia» (AGOSTINO, Enarr. in Ps., CXLVII 25-26).

22 Ad avvalorare tale lettura contribuisce del resto la medesima sede proemiale, con il relativo

incrementarsi delle valenze metapoetiche dei contesti figurativi, cui è lecito accostare impieghi

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