• Non ci sono risultati.

pubblici, forme e scene della politica plateale

1.6. Marx e Masaniello: la piazza tiranna

La pratica giolittiana di proibire i comizi all’aperto nei frangenti politicamente più spinosi verrà puntualmente ripresa da Salandra nel pieno dello scontro tra interventisti e neutralisti (circolare ai prefetti del 21 febbraio 1915), restando però, in buona parte, sulla carta103. In marzo, dopo la morte di due manifestanti a Reggio Emilia, il governo ritenta con più convinzione il giro di vite; e i socialisti – i quali, nonostante tutto, continuano a ritenere che la libertà di pubblica riunione sia un

102 Nel maggio 1911 il deputato socialista lombardo Angiolo Cabrini scriveva al sottosegretario agli Interni Falcioni: «Caro Falcioni, vuoi vedere se si possa indurre quel bellissimo originale che è il sindaco di Montebello Vicentino a rigettare il divieto di riunione… anche se ciò spiacesse al parroco?»; il prefetto di Vicenza, aggiungeva Cabrini, ci ha già provato, ma senza risultato. Interrogato a sua volta dal ministero, il prefetto così ricostruiva la situazione: «A Montebello, comune di circa 5000 abitanti, le conferenze pubbliche erano state sempre permesse. Senonchè ultimamente per poco tatto degli oratori, esse assunsero una forma che tornò sgraditissima a quella popolazione di sentimenti molto religiosi. Sia per questo, sia perché in mancanza di locali chiusi le conferenze si dovevano tenere sulla pubblica piazza e nelle ore antimeridiane della Domenica, giorno colà di mercato, il Sindaco ritenne opportuno di proibirle. Avuta assicurazione diretta dai promotori di tali conferenze, che la forma sarebbe stata corretta e gli oratori si sarebbero mantenuti strettamente nei limiti dell’argomento, tentai di persuadere il Sindaco che le ostilità della popolazione non sarebbero state né presumibili né giustificate, ma il sindaco mi dichiarò esplicitamente che la massa popolare era assai eccitata, onde non sarebbe stato difficile che trascendesse ad atti violenti contro gli oratori e loro proseliti, i quali senza dubbio si sarebbero trovati in forte minoranza; e tale pericolo per la pubblica tranquillità mi veniva dichiarato esistente anche dall’Arma dei Carabinieri Reali. Sia nel fondato timore di disordini, sia perché di regola non reputo opportune le conferenze sulle pubbliche piazze e tanto meno quando intercettano la pubblica circolazione, sia infine perché più volte mi ero trovato costretto ad inviare a Montebello un Funzionario con rinforzi, ho creduto conveniente mantenere fermo il divieto del Sindaco. Qualora ritorni la calma nella popolazione e possano i promotori designare località più opportuna, potranno le conferenze essere consentite» (ACS, MI, DGPS, DAGR, 1911, cat. C1, b. 19, fasc. Vicenza. Ordine pubblico, prefetto di Vicenza a MI, 2 giugno 1911).

diritto garantito dallo Statuto – rispondono inalberando i loro classici slogan: «Alla piazza!», «Adunque, alla piazza!»104.

Sul biennio 1914-15, in cui vengono al pettine molti nodi di questa ricerca, torneremo in altro capitolo; per il momento interessa piuttosto il recupero socialista delle parole d’ordine piazzaiole. La “discesa in strada” del popolo neutralista è senz’altro una delle armi su cui si concentrano le speranze – e le illusioni – della campagna contro la guerra, e la perdurante esaltazione della piazza come strumento di sovranità popolare potrebbe, a prima vista, far credere che i termini della questione siano ancora quelli di inizio secolo (la piazza sovrana di Turati, il «fuori, fuori!» da cui siamo partiti). Ma da allora il socialismo italiano ha subito profonde mutazioni, che hanno investito anche il ruolo emblematico della piazza.

È almeno dallo sciopero generale del 1904 che su tale ruolo sono emersi progressivi distinguo, ed essa ha smesso di essere simbolo incontestato di democrazia diretta per divenire – anche – argomento di polemiche interne al movimento socialista (con destino non troppo dissimile da quello toccato all’altro “mito” del protagonismo proletario: lo sciopero generale, appunto). È come se, in qualche modo, gli entusiasmi del socialismo moderato si fossero intiepiditi man mano che la politica di piazza si concretizzava, passando da orizzonte ideale a pratica ricorrente. A voler essere maligni si potrebbe dire che – come per i ceti dirigenti su cui ironizzava Turati nella citazione con cui abbiamo aperto il capitolo – anche per molti riformisti il «buon popolo» era diventato «plebaglia» e «trivio» nel momento in cui aveva smesso di applaudire e aveva trovato altrove i propri beniamini. Il socialismo riformista era stato infatti scavalcato, sul fronte della retorica piazzaiola, dapprima dai sindacalisti rivoluzionari e poi, dopo il 1912, pure dalla nuova dirigenza rivoluzionaria del PSI, e in particolare da Mussolini (l’astro nascente che portava in sé – a vederlo, ovviamente, col senno di poi – l’annuncio del “tradimento” interventista: tradimento suo personale ma, in un certo senso, anche della piazza); e, fatte salve le immancabili differenze tra una realtà locale e l’altra, ad ogni “sorpasso a sinistra” si faceva più evidente una disaffezione reciproca tra il riformismo e le folle, con la loro “tribuna”.

104 Si tratta di due titoli pubblicati in bella evidenza sulla prima pagina del settimanale socialista padovano “L’Eco dei Lavoratori” (6 marzo e 3 aprile 1915).

Sarà infine la settimana rossa del giugno 1914 – ovvero quella che sulla carta avrebbe dovuto essere la definitiva consacrazione della politica di piazza – a costringere la destra socialista a fare i conti con una dimensione che sembra ormai esserle sfuggita di mano. Si moltiplicano così, anche nel partito dei lavoratori, le esecrazioni della teppa, e la piazza sovrana cantata da Turati un quindicennio prima si trasfigura, nelle parole del suo sodale Treves, in piazza tiranna:

Quel che bisogna vedere è se la nostra «rivoluzione» presente ha da essere governata dal proletariato o… dalla folla […] se ogni azione di protesta del PS o della CGdL a piacimento della folla raccogliticcia, secondo il suo istinto sovrano, il suo istinto divino, ha da lasciarsi trasformare in movimento rivoluzionario; se il diritto divino della piazza, in qualunque luogo e in qualunque modo raccolta, è sovrano, travolgente ogni altro e i partiti e le organizzazioni proletarie […] hanno sempre da abdicare davanti a quel diritto sovrano e irresponsabile. […] Ciò che diventa del tutto inammissibile è […] riconoscere l’impero dell’organizzazione quando c’è da seminare solo e prostrarsi all’impero della piazza quando si crede ci sia da raccogliere.105

La «folla raccogliticcia» che popola le piazze è ormai, per i riformisti, l’antitesi di un proletariato organizzato e cosciente. Concetto ribadito dallo stesso Treves ancora nel dopoguerra (quando, d’altronde, non gli mancano certo occasioni per deplorare il populismo rivoluzionario): al congresso PSI di Bologna del 1919, a proposito delle agitazioni popolari contro il carovita, avrebbe senza mezze misure dichiarato che le masse – e quindi, per quanto ci riguarda, le piazze – erano «guidate più dallo spirito di Masaniello che da quello di Marx».

Si potrebbe a questo punto notare che un tale mutamento di prospettiva ci dice più cose sulla parabola del socialismo riformista italiano che non sull’oggetto specifico di questa ricerca; ma ciò che qui interessa sottolineare è, per l’appunto, la possibilità di rileggere le svolte politiche del primo Novecento attraverso il ruolo in esse giocato dalla piazza e dalla sua retorica106.

105 Il Vice [Claudio Treves], La teppa e la Rivoluzione socialista, “Critica Sociale”, a. XXIV, n. 13, 1-15 luglio 1914.

106 Per quanto riguarda i riflessi locali della disaffezione socialista per la piazza in seguito ai fatti della settimana rossa, si rimanda al paragrafo 3.2.2.

II

I

L SAGRATOE LA PIAZZA

GLISPAZIPUBBLICI DELMOVIMENTOCATTOLICO

2.1.

Deprecatio urbis

Empia orgia e plebi insorte A libertade falsa adulatrice Educate a favor della cui trama Vanto e pretesti fur: lavoro e fame […] E di tali attentati son ben rade Le città, in cui l’insano

Spirito infernal fiero non avvampi! […] Né le soldatesche armi a dure prove Valsero a pietà muovere quegli empi, Perduti al vizio, d’atea scuola esempi!1

Così il sacerdote di una piccola parrocchia rurale alle porte di Vicenza registrava nelle sue memorie i fatti del maggio 1898, con cui anche la città berica aveva «voluto offrire il suo granello d’incenso all’italica rivoluzione»2. E l’originalità stava nello sforzo poetico più che nei toni esecratori dell’azione popolare, per i quali il clero intransigente veneto non aveva certo dovuto attendere i trambusti di fine secolo, inveramento peraltro modesto (almeno a livello locale) di paure a lungo coltivate. Già all’indomani dell’unificazione al Regno d’Italia “Il Veneto Cattolico” aveva espresso in maniera più piana gli stessi concetti:

Non stuzzicate il popolo dicendolo sovrano! Altrimenti egli arriverà a misurare i suoi diritti dalla quantità di forza bruta di cui dispone […]. Non c’è belva più feroce del popolo, non c’è mezzo atto a frenarlo che l’idea religiosa ben radicata nel suo cuore.3

1 Cit. in Renato Camurri, Cattolici, operai e sindacato nella Vicenza giolittiana (1898-1911), in Franzina (a cura di), Operai e sindacato a Vicenza, cit., pp. 189-190.

Il confronto, per quanto strumentale e sbrigativo, tra simili citazioni e quelle con cui si è aperto il capitolo precedente basta a rendere con chiarezza la distanza esistente tra le premesse teoriche, culturali e retoriche da cui muovono l’azione sociale dei cattolici e quella dei socialisti. Distanza apparentemente scontata, ma che può talvolta confondersi nella complessa evoluzione delle due posizioni (e della prima soprattutto) a cavallo tra i due secoli.

L’esaltazione clericale del “paese reale”, da opporre al “paese legale”, richiedeva effettivamente la rappresentazione di un buon popolo timorato di Dio e fedele alle tradizione, ora traviato e tradito dalla classe dirigente liberale, materialista e massonica; ma come è noto tale baluardo di civiltà era generalmente identificato nel mondo contadino, non certo nelle riottose plebi cittadine. E la condanna morale della cultura urbana non poteva che coinvolgere la piazza, fenomeno urbano per eccellenza ed, anzi, simbolo stesso della vita cittadina.

Si potrebbe obbiettare che anche il più piccolo centro rurale ha la sua piazza: ma è vero d’altro canto che, agli occhi scrupolosi dei censori ecclesiastici, non vi erano paesi o piazze troppo piccoli per presentare i sintomi malefici della «città caina»4. Bastava una piazza a fare una città, a evocarne i pericoli. La deprecazione clericale discendeva infatti a cascata, dai massimi emblemi della metropoli moderna (Parigi, ai tempi della Comune ritratta come nuova Sodoma finalmente punita dalla giustizia divina5) ai capoluoghi locali (per esempio Padova che, secondo molti parroci della provincia, avrebbe gettato un’ombra moralmente sinistra su chiunque si affacciasse alle sue porte6), fino ai grossi centri agricoli o di mercato, a loro volta accusati di diffondere il contagio nelle campagne circostanti. Le denunce del clero veneto seguivano in genere uno schema fisso: a Masi balli ed amoreggiamenti erano «fomentati dalla corrotta gioventù della troppo vicina

3 “Il Veneto Cattolico”, 1867, n. 68 (cit. in Bruno Bertoli, Le origini del movimento cattolico a Venezia, Morcelliana, Brescia 1965, p. 255).

4 Cfr. Le visite pastorali di Giuseppe Callegari nella diocesi di Padova (1884-1888 / 1893- 1905), a cura di Filiberto Agostini, Edizioni di Storia e Letteratura – Istituto per le ricerche di storia sociale e di storia religiosa, Roma 1981, p. LXVI.

5 Cfr. Silvio Lanaro, Movimento cattolico e sviluppo capitalistico nel Veneto tra ‘800 e ‘900. Linee interpretative, in Franzina et al., Movimento cattolico e sviluppo capitalistico, cit., p. 40.

6 Numerose testimonianze in questo senso in La visita pastorale di Luigi Pellizzo nella diocesi di Padova (1912-1921), a cura di Antonio Lazzarini, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1973-75. Sulla condanna morale di Padova peseranno anche la lunga amministrazione del blocco popolare (1900-1912) e, ovviamente, la presenza dell’università con le sue provocatorie tradizioni di “libero pensiero” (da cui la “satira dell’universitario”, sorta di ribaltamento cattolico della tradizionale “satira del villano”: cfr. Vanzetto, Paron Stefano Massarioto, cit.).

Badia Polesine», a Megliadino S. Fidenzio i danni venivano da Montagnana, a Baone «i sacramenti [erano] poco frequentati per la vicinanza di Este». Per non parlare della vasta letteratura che attesta la funzione corruttrice di Dolo, il cui peccato originale stava nella discendenza dall’antica capitale – «progenie dei bassifondi di Venezia, a cui si aggiunge il lezzo dei gaudenti villeggianti delle lagune», «veneziani della decadenza», «vivaio di prostitute» per la città – e nell’andirivieni di mercanti, carrettieri e barcaioli che facevano la spola tra questa e Padova: da ciò, conseguentemente, la concentrazione di «garibaldini e socialisti» che «dilagavano» nei paesi vicini.

Né bisogna credere che la minaccia nascesse dalle sole cittadine del basso Veneto, tradizionalmente meno docili al controllo ecclesiastico; a suscitare preoccupazioni erano anche i centri dell’alta pianura, già allora indiscusse roccaforti della “Vandea” veneta7: gli inconfessi si annidavano persino nelle “piazze” – intese qui, semplicemente, come epicentri urbani – di Cittadella, Bassano, Sandrigo o Camposampiero. A Romano d’Ezzelino il parroco, di fronte alle sollecitazioni dei superiori per la diffusione della «buona stampa» cattolica, rispondeva che non gli sembrava il caso di «suscitare la passione di leggere che ora non c’è: siamo troppo vicini a Bassano, guai se si sviluppa questa passione»8. La norma era insomma di puntare il dito contro il gradino immediatamente superiore nella scala della gerarchia urbana (e in ciò doveva pesare, oltre alla condanna morale della città, l’idea cara ad ogni censore o pastore di anime per cui il male è sempre incombente sulla comunità, ma esterno ad essa: nel nostro caso – in parole povere – sagre, balli e fiere erano sempre nel paese vicino).

7 Da notare che allora il titolo di Vandea era rivendicato con orgoglio dalla stessa stampa clericale: cfr. La trionfale dimostrazione cattolica dei Sette Comuni in Asiago, “La Difesa del Popolo”, 3 ottobre 1909.

8 Le testimonianze citate, distribuite tra fine Ottocento e primo dopoguerra, provengono dalle relazioni dei parroci ai vescovi in occasione delle periodiche visite pastorali, fonte studiata come poche altre dalla storiografia cattolica: cfr. Gambasin, Parroci e contadini nel Veneto alla fine dell’Ottocento, cit., pp. 120-122, 155, 181; Lazzarini, a cura di, La visita pastorale di Luigi Pellizzo, cit., vol. I, p. 363, vol. II, pp. 743-744, 1154; Id., Vita sociale e religiosa nel Padovano agli inizi del Novecento, cit., p. 121; Agostini, a cura di, Le visite pastorali di Giuseppe Callegari, cit., vol. II, pp. 416, 458, 948; La seconda visita pastorale di Luigi Pellizzo nella diocesi di Padova (1921-1923), a cura di Liliana Billanovich Vitale, Edizioni di Storia e Letteratura – Istituto per le ricerche di storia sociale e di storia religiosa, Roma 1981, vol. I, p. 557, vol. II, pp. 1052, 1070, 1099, 1320, 1325; Id., Parroci e territorio. Le analisi del clero padovano nel primo dopoguerra, in Aa. Vv., La parrocchia in Italia in età contemporanea. Atti del II incontro seminariale di Maratea (24-25 settembre 1979), Edizioni Dehoniane, Napoli 1982, pp. 280 e segg.; La visita pastorale di Antonio Feruglio nella diocesi di Vicenza (1895-1909), a cura di Mariano Nardello, Edizioni di Storia e Letteratura – Istituto per le ricerche di storia sociale e di storia religiosa, Roma 1985.

I toni, le ansie e la pervasività di tali allarmi vanno naturalmente riportati alla natura della fonte, e interessano solo marginalmente in questa sede; ma indicano pur sempre i presupposti, lo sfondo su cui si delinea l’interpretazione clericale della realtà urbana e del luogo – la piazza – che ne viene eletto a simbolo. Ma di cosa, esattamente, è accusata la città? L’esecrazione è tanto sistematica, e le imputazioni così numerose, da rendere difficile una risposta concisa. Per i parroci rurali ottocenteschi, è stato scritto, il centro urbano rappresenta «una rivoluzione ideologica» (sul genere di ciò che poteva essere stato, in passato, l’illuminismo) o anche, tout court, l’«antiparrocchia»9. In primo luogo, cioè, la città concentra in sé i guasti e le diavolerie della modernità, che minacciano l’innocenza della società contadina: liberalismo, capitalismo, razionalismo, massoneria e ateismo. Un nuovo paganesimo che ha sostituito la fede cristiana con altri idoli: progresso, libertà sfrenata e libero pensiero, democrazia come rivoluzione violenta contro la chiesa. E, tra tante minacce morali, una fisicamente concreta: la fabbrica, con i suoi orridi abitanti.

Gli operai sono ormai diventati la piaga più cancrenosa della Società e nessuno saprebbe indovinare che cosa un giorno potesse succedere… […] sono un esercito immenso ed è tal cosa da doversi spaventare. […] Per l’operaio ci vuol la religione che santifichi il suo lavoro, altrimenti egli diverrà una belva.10

È questo un passaggio logico fondamentale, perché collega direttamente ambiente urbano e movimento operaio, con tutto quel che politicamente ne consegue; e perché l’orrore per la fabbrica – variante non secondaria dell’orrore per la città – è il presupposto su cui si costruirà l’esaltazione di un modello di industrializzazione extraurbana e diffusa, indiscusso filo conduttore dello sviluppo manifatturiero veneto (Marghera esclusa) da Alessandro Rossi fino ai giorni nostri.

9 Gambasin, Parroci e contadini nel Veneto alla fine dell’Ottocento, cit., pp. 36, 45, 155. 10 Sono citazioni tratte dal foglio vicentino “L’Operaio Cattolico” degli anni 1891-1893 (cit. in Franzina, La classe, gli uomini e i partiti, cit., pp. 53-54). Da notare che nonostante il titolo – e come risulta evidente dalla citazione – il giornale era rivolto più ai contadini che agli operai. Che poi a quella data gli operai veneti potessero definirsi un «esercito immenso» appare alquanto dubbio, anche considerando che il foglio veniva stampato nella provincia più precocemente industrializzata della regione; ma l’esagerazione era connaturata a quella «pedagogia revulsiva o dell’orrore» che è caratteristica di lungo corso della pubblicistica cattolica (cfr. Mario Isnenghi, La stampa diocesana. Un fattore dell’egemonia cattolica sul Veneto, in Franzina et al., Movimento cattolico e sviluppo capitalistico, cit., p. 132).

Ma, nella fase di cui ci stiamo occupando, tutto ciò e ancora in fieri e il pregiudizio antiurbano della cultura cattolica si nutre soprattutto di preoccupazioni più ataviche e universali. Al grado minimo, la piazza è “attrazione” concorrenziale rispetto alla chiesa (i parroci denunciano la mala piaga dei mercati domenicali, che distolgono i ragazzi dalla messa: non siamo lontani dall’immagine collodiana, con Pinocchio che abbandona la strada per la scuola, richiamato dai suoni di pifferi e grancasse provenienti dai baracconi della piazza). Ben al di là di questo, tuttavia, è l’intera città – intesa di nuovo come categoria spirituale e, quindi, applicabile all’occasione anche a modesti centri rurali – a presentarsi come scuola di corruzione per i giovani: osterie, balli, sagre, divertimenti e libertinaggio, circolazione di romanzi e cattiva stampa, lusso e moda femminile, bestemmia ed incredulità, spirito mercantile e logica del denaro, presenza stabile di ebrei ed evangelici. Il sospetto cade evidentemente su ogni piazza, mercato o fiera, ovvero su ogni luogo di svago, di vita sociale, di incontro con l’estraneo e dunque di potenziale traviamento del singolo con conseguente perturbamento dell’ordine comunitario; sul luogo dell’evasione, intesa anche letteralmente come fuoriuscita dagli orizzonti quotidiani, momentanea liberazione dai mille occhi della società paesana, dal controllo del parroco e dalla rigida gerarchia della famiglia patriarcale contadina (in questo senso si teme la piazza per la stessa ragione per cui si temono le più durature “uscite” dei parrocchiani nel periglioso mondo esterno: l’emigrazione, il servizio militare, la guerra; o, anche, per la stessa ragione per cui si guarda con ansia ad ogni nuova forma di mobilità a basso prezzo, come il tram o la bicicletta).

Il parroco di Meianiga, frazione alle porte di Padova, definisce quella cinquantina di parrocchiani che non si accostano ai sacramenti «razza indifferente, sensali, mercantucci, pizzicagnoli, osti, socialisti, gente che puzzano più di città che di chiesa»11. Il pervertimento politico è, insomma, solo un aspetto della più generale corruzione dei costumi indotta dalla città, che già contagia anche parte dei lavoratori agricoli. Così persino il frazionamento della proprietà terriera – duraturo pilastro del progetto di stabilizzazione sociale del movimento cattolico – viene giustificato con la necessità di tenere i giovani contadini lontani dalle piazze:

L’unico rimedio morale per il paese sarebbe ottenere che le grandi campagne venissero suddivise. I figlioli lavorerebbero sotto gli occhi dei genitori e non andrebbero nei pericoli delle grandi campagne, dei grandi stabilimenti e non ci sarebbe l’odio di classe, qui tanto pronunciato. Essendo operai in queste grandi campagne alla sera hanno tempo di andare in piazza ad udire i soliti corruttori, tutte le sere; lavorando sul proprio si lavorerebbe la sera fino a tarda ora e non si avrebbe tempo di frequentare la piazza.12

Una più attenta analisi mostra facilmente come questa “critica della piazza” fosse assai più elastica di quanto sembra e, pur mantenendo la propria esteriore severità, cambiasse obbiettivo nel corso degli anni: lo stesso malefico habitat urbano poteva infatti essere, per l’intransigentismo ottocentesco, la tana dei possidenti liberali e, per il movimento cattolico d’età giolittiana, il covo della

Documenti correlati