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LA MELANCOLIA COME FATTORE ORIGINARIO DEL ROMANTICISMO: APPUNTI SUL CASO TEDESCO

Melancolia e socialità

V. LA MELANCOLIA COME FATTORE ORIGINARIO DEL ROMANTICISMO: APPUNTI SUL CASO TEDESCO

(1993)

1. Melancolia come simbolo della condizione umana

Interrogarsi sul rapporto fra melancolia e romanticismo significa innanzi tutto chiedersi che cosa s’intenda per melancolia prima di quest’ultimo. L’ampia letteratu- ra esistente sull’argomento mostra quanto profondamente radicata fosse la struttura della melancolia nella storia della cultura occidentale. Essa non fu assolutamente, come si sa, un’invenzione del romanticismo: bisognerebbe semmai porsi la domanda opposta, se cioè, in qualche modo, non sia stato proprio il romanticismo una crea- zione della melancolia. A tanto probabilmente non arriveremo, ma non ci fermere- mo molto distante da lì nella nostra ricostruzione. Una cosa certa è che, nell’impiego plurisecolare, se non ultra-millenario, che il termine ebbe in tutte le lingue occiden- tali colte, si succedettero molti significati, anche concorrenti o in contraddizione fra loro (basti pensare alla contrapposizione più vistosa: quella fra melancolia intesa come segno di genialità o come segno di isolamento e di follia).

Tali mutamenti del campo semantico coperto dal nostro termine corrisposero sempre, com’è comprensibile, a trasformazioni profonde del modo di concepire l’uomo e la sua posizione nel mondo. Cosicché si può certamente adottare il punto di vista presentato per primo da Aby Warburg1 che colse nella melancolia (come

espressa in particolare da Dürer nella sua famosa incisione del 1514) il puro e sempli- ce simbolo della condizione umana. Ciò che, d’altra parte, corrisponde perfettamen- te alla semantica stessa del concetto di simbolo, recante in sé la radice nostalgica, se non già melancolica, della condivisione di un ricordo e di una speranza comune, for- se da ricomporre in un futuro lontano.

Orbene, secondo tale interpretazione, la melancolia non può che acquistare un significato diverso tutte le volte che si afferma una nuova antropologia, una nuova

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concezione dell’uomo e del suo posto nel mondo. Ciò equivale a collegare la storia della melancolia alla storia della modernità, in quanto è proprio quest’ultima a se- gnare le svolte nell’interpretazione di volta in volta data, sul piano filosofico come su quello empirico, all’esistenza mondana dell’uomo.

È sulla base di considerazioni di questo genere che io stesso condivido l’opinione di chi vede l’inizio di una nuova storia della melancolia proprio nell’epoca in cui si afferma per la prima volta in Occidente (ed è in tal modo che, a mio avviso, nasce l’idea stessa di Occidente) la possibilità di interrogarsi liberamente sul senso dell’uomo. Ciò accade solo a cristianizzazione avvenuta, cioè dopo la svolta del Mille, allorché si può ritenere universalmente accettabile il nuovo codice basato sulla pos- sibilità di esistenza di un mondo tendenzialmente popolato di uomini liberi, laici, responsabili e razionali, cioè moderni. Da allora in poi, la melancolia ha accompa- gnato (spesso dotandole di peso e di qualità particolari) le fasi successive di moder- nizzazione dell’umanità occidentale, scandendo fra l’altro anche il carattere più tipi- co di quest’ultima nella sua stessa storicità politica: che è stato – almeno fino a oggi o a poco fa – la straordinaria capacità di socializzazione e dunque di sempre più sofi- sticata istituzionalizzazione dell’obbligazione politica.

Non è questa la sede per diffondersi su queste cose, ma era necessario prenderla così da lontano per comprendere il possente abbrivio, la forza d’inerzia che l’idea di melancolia già possiede quando incrocia il nascere del movimento romantico di cui vogliamo occuparci qui.

Tanto più importante, allora, è tornare a sottolineare che col romanticismo la melancolia acquista un significato del tutto nuovo. Si tratta però di chiedersi, a que- sto punto, se è il romanticismo a dare alla melancolia quel significato o se è quest’ultima a fare del romanticismo ciò che esso è stato. Dall’XI a tutto il XVII seco- lo, la melancolia era stata sempre studiata e considerata all’interno della fondamen- tale dottrina dei temperamenti. I quattro elementi empedoclei stavano alla base del- la più antica fisica e filosofia greca, i temperamenti erano a loro volta la base della

costituzione individuale2, in cui si condensò per secoli l’intero regimen sanitatis. A

parte ogni altra complicazione va ricordato che, benché il regime migliore e la costi- tuzione ideale fossero sempre ritenuti quelli dominati dal temperamento sanguigno, fu tuttavia a quello melancolico che venne prestata l’attenzione maggiore. Al punto che il termine impiegato per designare l’umore (melancolia, appunto, nel senso eti- mologico di bile nera) giunse ben presto a indicare il temperamento corrispondente, cosa che non accadde per nessuno degli altri tre umori (sangue, bile gialla e flegma). Vero o non vero che ciò sia dipeso dalla prima avvertenza, attraverso il dolore (il mal di pancia, la colite), dell’oggettività e dell’autonomia corporea da parte dell’uomo greco3, è assai attendibile riconoscere nella melancolia il segno di

un’individualità, ma anche forse di un’umanità, che nel contesto occidentale sarebbe appunto diventata simbolica, come ci ha suggerito il già citato Warburg. Melancolia, sofferenza, individualità, umanità, dunque. Una plurima valenza a cui la nostra idea non riuscirà mai a sottrarsi lungo tutta la sua storia, a dimostrazione dell’intrinseca bipolarità che segna l’intima strutturalità che essa ha rappresentato per la storia dell’uomo occidentale. Tale plurivalenza si traduce nel modo più indicativo sul piano stesso della politicità, che rappresenta forse il campo in cui gli uomini occidentali si sono maggiormente distaccati, nel corso di pochi secoli, dagli altri gruppi culturali umani.

Rispetto alla politica, il melancolico svolge un ruolo profondamente ambiguo. Egli è, tendenzialmente, rustico e solitario, cioè a-sociale. Egli è malcontento e intol- lerante di ogni “conversazione”4. Egli è sedizioso ed eretico e può essere ricondotto

2 K

IENER, 1924, definisce il Temperament come «seelische Verfassung». 3

PIGEAUD, 1981, pp. 10 ss. (egli parla espressamente di «colique institutrice». 4

Benché del tutto estemporanea in questo contesto, vorrei citare la bella espressione impiegata in un codice lucchese del 1124 (Regesto del Codice Pallavicino, riportato in DE MESQUITA, 1965, p. 328: «Omnium civita- tum homines, maxime principalium, omnia civiliter atque oneste agere oportet, et decet. Est enim civitas

conversatio populi assidua ad iure vivendum collecti»; a cui si può aggiungere l’altra d’impronta ciceroniana

(riportata nello stesso testo) di Leonardo Bruni, che dipinge la città-stato, ancora nella prima metà del XV secolo, come «multitudo hominum iure sociata». Sulla fortuna dell’idea di “conversazione” in Germania, cfr. BONFATTI, 1979.

alla ragione solo grazie all’unico strumento di cura che la sua dis-ragione (la melan- colia appunto) conosce, che è la disciplina5.

Ma, contemporaneamente, il distacco dal mondo sociale proprio del melancolico è la qualità più richiesta dalla politica stessa a chi si deve far carico del governo delle sorti individuali: del sovrano in primo luogo, che come garante del patto sociale è opportuno che stia sopra le parti, distaccato dagli interessi in gioco e volto soltanto alla coltivazione e al perseguimento del bene comune. Si spiega forse così la grande fortuna moderna dell’antica giustificazione aristotelica, poi anche rinascimental- neoplatonica, della melancolia in capo ai sovrani, oltre che ai filosofi, agli artisti e ai grandi anacoreti. Come si spiega anche l’opposta, maniacale insistenza sulle più di- verse pratiche di disciplina per tutti gli altri soggetti-sudditi, obbligati ad apprende- re, a indottrinarsi, a disciplinarsi, per rendersi capaci di una seria e reale vita sociale e dunque, per tale via, per incivilirsi6.

2. Tra natura e arte: una nuova estetica

Questa storia della melancolia dura, come detto, fin verso gli inizi del Settecento, allorché gli sviluppi compiuti nella filosofia e nella scienza della natura rendono sempre più insostenibile il quadro proposto. Insieme alla dottrina medica degli umo- ri e dei temperamenti cade anche quella filosofica della genialità. Resta però il ri- mando alla sindrome melancolica, come segnale manifesto della debolezza e della sofferenza umana. Durante il XVIII secolo si tentano molte spiegazioni, tutte più “scientifiche” delle precedenti, del nesso esistente fra funzionamento corporeo e sta- to d’animo: si fa ricorso dapprima ai vapori e poi, in maniera crescente, ai nervi. Ma non è questo che interessa, bensì il fatto che la melancolia viene a essere considerata sempre più semplicemente come una malattia, cioè come una situazione patologica del rapporto fra corpo e mente, che può e deve trovare soluzione al di fuori delle tra-

5 Il riferimento è alla déraison di Foucault (Histoire de la folie), com’è ricostruita in R

ADDEN, 1987, cap. VII, pp. 231-50.

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Un esempio del grande flusso disciplinante su cui scorre tutta la civiltà moderna è stato da me trattato in SCHIERA (1993), 1999.

dizionali spiegazioni onnicomprensive della filosofia e della morale. Si giunge a dire che essa è una malattia professionale, in particolare dei letterati7, causata dal tipo di lavoro particolare che essi svolgono, capace di produrre alterazioni ed effetti dolorosi sia nel capo che nel ventre. Insomma viene addirittura rovesciato l’antico rapporto fra genio e melancolia: non è più la seconda a comportare, a certe condizioni, il pri- mo, bensì è il primo a produrre, per semplice effetto traumatico, la seconda.

C’è un nesso fra questa evoluzione in qualche modo interna alla storia della me- dicina e la forte accelerazione che il tema, lo stile di vita della socia(bi)lità acquista durante il Settecento?8 Anche su questo aspetto non possiamo soffermarci, ma è cer-

to che la soluzione in senso scientifico-sistematico che stanno conoscendo in quest’epoca (che è anche quella della genesi del romanticismo) le cose della natura (Buffon, Linneo) si estende progressivamente anche alla lettura e alla comprensione delle cose sociali9. Lo spazio della vecchia melancolia, quale segno-simbolo

dell’ambiguità della condizione umana, anche proprio nella sua contraddizione fra esasperata, dolorosa individualità e necessità (o utilità) della consociazione, si re- stringe a dismisura.

Dal punto di vista scientifico, si cercano altre spiegazioni e altri rimedi. Sarà pro- prio in campo psichiatrico che, verso fine secolo XVIII, si faranno in Francia i mag- giori progressi e si faranno proprio a partire dalla melancolia e dal suo superamento come sindrome centrale delle diverse sfumature patologiche della psiche, a sua volta sempre meno intesa come l’elemento centrale della condizione umana, insieme indi- viduale e sociale.

Per tale via diventa forse comprensibile che intorno alla melancolia, intesa come sindrome della condizione umana, finisse per raggrumarsi tutto ciò che residuava dall’evoluzione medico-scientifica del problema. In particolare in essa si andò con- densando e concentrando il momento estetico, eroico, geniale dell’intelligenza (Ver-

ständnis) dell’uomo, in concomitanza anche con l’evoluzione (nel senso del “subli-

7 R IVA, 1987. 8

SuI tema cfr. AGULHON, 1986; HALÉVY, 1984. 9

me”) che subì il mistero dell’arte e della creazione artistica in ambito proto- romantico e pre-idealistico10. Va infatti ricordato: l’idea che l’opera d’arte sia un pro- dotto della creatività individuale, il cui valore dipende dall’intensità della prestazio- ne artistica soggettiva, è una concezione soltanto moderna (di quella modernità di cui sarà portatore appunto il romanticismo), propria della «Bewußtseinssituation des abendländischen Menschen seit dem Ausgang des 18. Jahrhunderts»11.

La concezione rinascimentale dell’arte (fino appunto alla rivoluzione romantica che, come vedremo, si espresse non a caso prevalentemente in campo natural- paesaggistico) era in tutto diversa da questa: l’opera d’arte era vista come un pezzo di natura il cui valore stava nella «objektive Gegenständlichkeit» e non nel soggetti- vo, nel temperamento, come per noi moderni post-romantici. In polemica con Pa- nofsky12, Beenken sostiene che anche per Dürer (pur così caro ai romantici e da loro

molto romanticizzato, come per tutt’altro verso accadrà al nostro Tasso)13 il «bello

artistico» non era frutto dell’anima bella dell’artista: ma bellezza e verità stanno nel- la natura e possono essere colte dall’artista solo con il grande esercizio (la disciplina di cui si parlava dianzi?) «als etwas mit dem Individuum organisch Verwachsenes».

L’importanza di questo richiamo alla natura può essere difficilmente sopravvalu- tata in una considerazione del romanticismo, come la nostra, che voglia mettere a fuoco la trasformazione con esso intervenuta nella concezione della creazione arti- stica e della genialità, dunque della melancolia. Solo l’epoca di passaggio fra Sette e Ottocento può infatti giungere a intendere «das künstlerische Wertmoment» come

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Bellissima la ricostruzione fattane da ARCANGELI (s.d.) che definisce il sublime, nella scia di Edmund Bur- ke, come «tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terri- bile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una causa del ‘sublime’; ossia è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire».

11 B

EENKEN, 1924, p. 184. 12

BEENKEN (1924, pp. 160 ss.) si riferisce alla Dürers Kunsttheorie di ERWIN PANOFSKY (1915). 13

Merita citare il ricorrente giudizio di «romantico» attribuito da Giosuè Carducci a Torquato Tasso, a pro- posito delle «romantiche stregonerie» cui era soggetto e, in particolare, dei contenuti della sua tragedia Il re

Torrismondo: cfr. G.CARDUCCI, Su l’Aminta e il Torrismondo. Saggi di Giosuè Carducci, in Teatro di Torquato

Tasso. Edizione critica a cura di Angelo Solerti, Bologna 1985: «Già, anche nella tragedia il Tasso intendeva

essere a modo suo originale temperando il nuovo con l’antico, il romantico (per così dire) col classico» (p. LIV), e ancora: «al romanticismo volle dare un colorito storico, fortemente nordico, specialmente scandina- vo» (p. LV).

qualcosa insieme di soggettivo e di astratto: per Kant «schöne Kunst ist Kunst des Genies». È evidente che quest’ultimo ha molto poco in comune con la «angeborene Gemütsanlage (ingenium), durch welche die Natur der Kunst die Regel gibt» di cui parlava Dürer. Ciò che è mutato, in realtà, è proprio il concetto stesso di natura e, attraverso quella trasformazione, il grande di Norimberga potrà essere facilmente eletto a mentore del romanticismo e della sua nuova estetica, basata sulla genialità e l’individualità più accentuata.

È ancora Kant a insistere sul nuovo rapporto instauratosi fra arte e natura, grazie a un accordo che non ha più valore in senso oggettivo, ma solo grazie a qualcosa che opera nel soggetto, che dà cioè la regola all’arte, «mediante l’accordo (Stimmung) con le doti che sono proprie del soggetto stesso». Da allora, «studiare la natura signi- fica entrare nell’animo umano e nei suoi enigmi»14, cioè recuperare tutte le valenze

perdute della melancolia, una volta consegnata interamente al mondo dell’arte. Il genio ritrova già in Goethe tutta la sua importanza: «wesentliches Kriterium des Genies ist seine Originalität, die weit mehr ist als die bloße Nichtnachahmbar- keit und Einzigkeit der künstlerischen Produkte»15. Ma c’è di più: il genio non sussi-

ste al di fuori della natura, grazie alla quale ultima soltanto si può compiere il mira- colo della composizione del generale nel singolare, della definizione dell’infinito, della riduzione all’individuo di tutto l’esistente: proprio questo è «das Wesentliche in der Struktur der geistigen Haltung um und nach 1800 überhaupt und zugleich Grundlage unserer eigenen Einstellung»16.

Dal nuovo rapporto fra il soggetto finito e l’universale infinito (la natura) viene la personalità, la quale ricava da se stessa (dalle sue azioni spirituali, dalla sua libera disposizione) norma e valore, senza bisogno di assuefarsi e conformarsi alle norme del vivere civile, alla disciplina della civiltà e dell’ordine: anche l’attività artistica (come quella etica) ha la sua legge nella forma generale della libertà. Il genio non ri- siede più nell’universalità, bensì nel libero personale: «Erst das moderne Genie sieht

14 R

ELLA, 1993. 15 Citato da B

EENKEN, 1924, p. 192. 16

«Natur in Genie, das ist, etwas ùber Kant hinausgreifend formuliert, das Allgemeine im Besonderen, das Unendliche, die Form alles lebendigen Wirkens im endlichen Individuum» (ibidem).

sich zunächst als ein aus eigenen Ursprungen schöpfendes an und wird als solches gewertet». Si esprime in tal modo il ruolo centrale della nuova estetica che si va af- fermando nel romanticismo e che consiste anche nel recupero ideologico e falsifican- te (com’è vero per ogni citazione) della dimensione eroico-rinascimentale della crea- zione (Schöpfung): da qui la celebrazione di Albrecht Dürer, la rinascita del mito del prometeismo, la nuova fortuna del Tasso e via dicendo.

3. Melancolia e poesia: dal paesaggio all’artista

Ma torniamo ancora, rapidamente, alla storia della melancolia che incontra, essa pure, fra XVIII e XIX secolo, una trasformazione radicale. Paradossalmente fu pro- prio reagendo alla derubricazione settecentesca, scientifica e illuministica dell’antica dottrina della melancolia che Pinel diede un contributo grandissimo alla riqualifica- zione di quest’ultima in termini filosofico-letterari. Rileggendo Cicerone, Seneca e Plutarco egli scoprì l’antichissima verità che la passione è all’origine della follia e ne ricavò, con logica conseguente, che la melancolia non poteva che essere miscela di malattia e responsabilità17. Esquirol andrà più lontano e sarà ancora più coerente. La

melancolia rientra per lui nelle monomanie: è una monomania triste, che egli defini- sce «lipemania» (per distinguerla dalla monomania gaia), tanto da teorizzare il pun- to per noi cruciale che Pigeaud descrive così: «et abandonne la mélancolie aux poètes “qui, dans leurs expressions, ne sont pas obligés à autant de sévérité que les médecins”»18.

17

Pinel, citato da PIGEAUD, 1981, p. 134. Ma si veda anche, all’origine antica della melancolia, quanto Pigeaud scrive a pagina 10: «La maladie de l’âme vient de ce que nous avons un corps. Cette formule est vraie de bien des façons. Cela va de cette tristitia, de ce taedium vitae, de cette mélancolie où médecins, poètes et philo- sophes, Hippocrate comme Lucrèce, comme Cicéron et Senèque ont leur mot à dire, et qui repose sur l’évidence douloureuse que nous sommes mortels, jusqu’à la définition plus technique, plus précise, de la maladie de l’âme comme manie ou ignorance chez Platon, ou comme passion chez les Stoiciens»; e sempre a proposito di Pinel (p. 15) l’attribuzione a lui della «tradition médico-phiosophique», nel senso dell’incontro (p. 26) fra medicina ed etica: «D’autre part, Pinel au début du XIXe siècle, assumera la ren- contre de la médecine et de l’éthique en créant la médecine phiosophique».

18

Vale solo la pena di ricordare di sfuggita il ruolo importantissimo svolto da Pinel e Esquirol nella nascita della psichiatria moderna, anche sotto il profilo pratico- istituzionale della statistica e della cura manicomiale19: furono certo anche quelli

percorsi che facilitarono la sublimazione della melancolia dei poeti all’interno del romanticismo. Sarebbe questo forse il momento per introdurre l’idea della Sehnsucht romantica, ma si rischierebbe di andare troppo lontano, finendo per caricare il no- stro interesse per la melancolia nel romanticismo di eccessive complicazioni20. Me-

glio limitarsi a qualche considerazione più obliqua, capace di avvicinarci al clima di sensibilità e di natura da cui il romanticismo riceve vita.

Il «fiore blu» è un elemento importante nel Heinrich von Ofterdingen di Novalis; ma tutto il romanzo – come pure Die Lehrlinge zu Sais – è pieno di immagini floreali e gli stessi protagonisti, Enrico e Matilde, sono presentati come figure floreali. Si tratta di tracce di una filosofia della natura che ritroveremo in Runge, ad esempio, ma che in Novalis (e forse ancora di più in Hölderlin) raggiungono un grado di con- centrazione difficilmente superabile, nella sintesi di «montagne blu», «età dell’oro», «vergine celeste» e «göttliche Sehnsucht». Insisterei sull’azzurro, che a me pare pro- ponibile addirittura come il nuovo colore della melancolia romantica, al posto del nero di quell’atra bile ora in via di rimozione definitiva grazie alla medicina psichia- trica. È lo stesso Mittner a sottolineare che l’azzurro (il Blau) è in Novalis proprio il colore della spiritualità21. Bluastri sono inoltre i vapori che circondano i protagonisti

deIl’Heinrich; azzurro è «il colore di quel fiore che rappresenta il magico ideale dell’artista, l’ideale dell’immortalità propria e della propria poesia»22. E come «isola

celeste» è (in Christenheit und Europa) la «nuova Gerusalemme»: essa «appare visibi- le sopra le onde che si ritirano, quale sede dell’uomo nuovo»23. Non meno invadente

è la luce traslucida che avvolge alcune delle più belle liriche di Hölderlin: la luce

19 Sull’origine parigina della psichiatria moderna cfr. G

ALZIGNA, 1987 e 1988. 20

Pagine molto chiarificanti sono state scritte in proposito da MITTNER, 1964, pp. 698 ss., che contengono