Oggi si fa ampio uso e forse anche abuso del termine identità, che viene impiegato a proposito e a sproposito quando si discute di diritti e doveri degli abitanti di un luogo e di quelli dei migranti, quando si ricercano le radici culturali di una regione o di una località, quando si inaugura una raccolta di oggetti e strumenti, espressione concreta della vita tradizionale rurale o urbana: non di rado si avverte la sensazione che chi parla di identità in relazione a un luogo, se interrogato, non sia in grado di definirla e di indicare gli elementi culturali che la compongono. Si finisce per farne una parola d’ordine da inserire nel discorso per renderlo accattivante e al passo con i tempi. La Geografia cultu- rale, invece, da tempo si interroga e riflette sugli elementi identitari dei luoghi, connessi con l’ambien- te naturale, con la storia, la società e i suoi comportamenti, con la cultura in tutte le sue manifestazioni, con il credo religioso e la spiritualità, con i valori che caratterizzano le comunità che nei luoghi vivo- no. Complessivamente l’insieme dei fattori identitari citati può essere ricondotto al concetto di cultu- ra, soprattutto nel senso di cultura diffusa, che si manifesta attraverso segni e simboli. I segni non corrispondono soltanto alle tracce, più o meno marcate, più o meno percepibili, che il lavoro dell’uo- mo, lo sfruttamento del suolo, l’insediamento, ecc. hanno lasciato sul terreno, organizzandolo e tra- sformandolo in territorio, ma definiscono soprattutto significati e valori di cui le popolazioni hanno rivestito il luogo o il paesaggio che fanno parte del loro orizzonte di vita. I simboli sono correlati in particolare con la sfera sociale, psicologica e spirituale di una comunità, che li trasmette, li trasforma e li incrementa nel corso del tempo come patrimonio esistenziale (Vallega, 2003, pp. 60-62).
Sono simboli i toponimi, che rappresentano il primo tentativo di identificare un luogo tramite la denominazione e sono strettamente legati al territorio e alle sue vicende ambientali, storiche, econo- miche, sociali e culturali, sottolineandone i «caratteri originali, in altre parole la personalità geografi- ca se non proprio l’identità profonda» (Aversano, 2006, p. 54)1. Il significato originario dei toponimi
spesso è andato perduto per corruzione linguistica o per evoluzione e viene ricostruito soltanto dai glottologi esperti nel particolare settore della toponomastica. Tuttavia i nomi di luogo vengono carica- ti a volte di nuovi significati, più vicini alla cultura popolare rispetto a quelli originali, non più ricono- sciuti (Mangani, 2005, pp. 8-10): nelle campagne di Castelfranco nell’Emilia il canale Limido – dal latino limes, confine, termine classico dei territori organizzati dai Romani secondo il sistema della centuriazione – caratterizzato da un toponimo conservatosi fino al Settecento, come dimostra la cartografia dell’epoca, diventa, nelle prime topografie dell’Ottocento, Canale Limpido e successiva- mente, con una trasformazione sinonimica, Canal Chiaro, anche per contrapposizione con il Canal Torbido che scorre parallelo (Federzoni, 1981, p. 172): evidentemente il toponimo, una volta italianizzato, risultava privo di significato e di conseguenza è intervenuto un adattamento che lo ha reso accessibile alla comprensione della comunità del luogo.
Rivestono un ruolo simbolico anche elementi del paesaggio più concreti e visibili, come edifici o monumenti che rappresentano punti di riferimento: le chiese e i campanili nelle aree dove prevale la
* Alma Mater Studiorum - Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università degli Studi di Bologna.
1 Per toponimi si intendono non soltanto i nomi di centri di grandi o di piccole dimensioni, dalle città alle frazioni, ma
anche quelli delle case sparse e delle vie, nonché degli elementi naturali del territorio, come i corsi d’acqua, i monti, le foreste, ecc. Anche i numeri civici, che designano le abitazioni almeno a partire dalla metà del XVIII secolo, costituiscono un fattore di identificazione di luoghi e anche delle persone, dal momento che fanno parte dell’indirizzo di residenza che ciascuno si ritrova in ogni documento. Inoltre i numeri civici rientrano ormai in una consuetudine storica almeno europea che, nata per finalità fiscali, militari e giudiziarie, ha assunto una utilità imprescindibile nella vita quotidiana delle popola- zioni (Tantner, 2007).
religione cristiana, o la moschea e il minareto nelle regioni a cultura musulmana; il municipio, non di rado accompagnato dalla torre civica, in molte città europee; un palazzo, un giardino, il monumento ad un eroe nell’ambito di diverse culture; presso popolazioni che vivono a stretto contatto con la natura assumono significati simbolici e vengono umanizzati attraverso i miti anche elementi dell’am- biente, come, ad esempio, rupi (Turri, 1998, pp. 47-48), montagne, fiumi, boschi, che per questo divengono parte del paesaggio culturale.
Sono simboli altrettanto significativi il folklore locale, le fiere, le sagre, le feste, la musica popolare e i riti religiosi, che tuttora costituiscono un richiamo per i residenti, ma anche per chi, dopo esservi nato e vissuto, abita altrove, nonché per visitatori curiosi e interessati ad assistere alle manifestazioni tradizionali. Ogni località piccola o grande ha le proprie manifestazioni folcloristiche e oggi, dopo un periodo di decadimento dovuto a una sorta di contestazione nei confronti di tradizioni che si conside- ravano superate, esse hanno ripreso vigore e riscuotono successo, anche come occasioni di socializzazione. Forse il loro ruolo è mutato nel tempo, ma certamente costituiscono momenti unifi- canti sulla base di una cultura popolare che riconduce alle antiche radici dei luoghi.
L’insieme di questi e di altri simboli, che troviamo più o meno radicati in ogni località e comunità, contribuisce a delinearne l’identità, o quello che, più classicamente, definiamo genius loci, lo spirito che anima ogni luogo, che per gli antichi coincideva con la divinità o la sacralità intrinseca alla natura e ai suoi elementi, ma soprattutto a determinate e particolarmente felici combinazioni di essi (Milani, 2001, pp. 119-121). Con il passare del tempo il genius loci fu riconosciuto anche in luoghi umanizzati, dove il connubio fra natura e arte raggiungeva culmini di particolare armonia o, più recentemente, in luoghi dove gli elementi di identificazione si fanno più evidenti. Se ne perde completamente la traccia soltanto nelle anonime periferie delle città moderne, degradate e non, comunque prive di tradizioni, di bellezza, di luoghi di incontro, di elementi di connessione con un passato comune, condizioni che producono lo straniamento dei giovani, inibiscono la loro voglia di conoscere, coltivano l’ignoranza, cui consegue l’indifferenza, la noia, il degrado fisico e morale.
La Geografia antropica, che ha come temi di studio fondamentali i luoghi, intesi come sedi della vita e delle attività degli uomini, e il paesaggio, come percezione e rappresentazione da parte delle comunità di ciò che le circonda, è quanto mai indicata per approfondire gli elementi identitari delle località e delle regioni. La rappresentazione cartografica, pur con tutti i limiti che la denotano e sui quali ormai da anni si discute, costituisce una fonte per individuare questi elementi e un modello interpretativo nel quale ci si può o meno riconoscere.
La cartografia corografica e gli atlanti
Le carte corografiche a stampa, come quelle famosissime raccolte nell’Italia di Giovanni Antonio Magini, che possiamo scegliere come esemplificative di una cartografia diffusa in Europa almeno a partire dal Cinquecento e fino a parte del Settecento, sembrano offrire l’immagine di pochi elementi identitari dei luoghi: ciò che vi è particolarmente sottolineato sono le fattezze morfologiche delle regioni e l’insediamento. Se si analizzano le prime, cioè l’orografia, l’idrografia e la copertura forestale, si ri- scontra che la montagna è quasi sempre resa con il sistema detto “a mucchi di talpa”, una sequenza di monticelli più o meno articolati, che tuttavia non rendono né l’altitudine dei singoli elementi, né la consistenza di una catena, pertanto non identificano con precisione il paesaggio montano di una determi- nata area. Raramente viene riportata la toponomastica montana: soltanto alcune cime sono contrassegna- te dal loro nome e fra queste emerge, nel sistema alpino, il Monviso (Federzoni, 2003, pp. 226-227). La rete fluviale è resa con maggiore aderenza, ma consente di distinguere soltanto i grandi fiumi rispetto ai torrenti di modesta portata e fornisce un quadro generale della maggiore o minore presenza di acque superficiali. Le foreste sono indicate in maniera assai semplificata, senza porre in evidenza neppure le essenze prevalenti, mentre per i centri abitati si impiega generalmente un minuscolo profilo schematico
di edifici, oppure una resa in pianta del circuito murario. Nel caso del profilo di edifici, fra i quali di solito si distingue un campanile, viene messo in rilievo proprio l’elemento religioso che effettivamente ha sempre costituito un punto di riferimento importante in tutti i centri abitati dell’Europa cristiana e una presenza costante nella vita quotidiana, con i rintocchi che scandivano i momenti della giornata, le situa- zioni di pericolo, le occasioni di festa o di lutto: suoni familiari a tutti fino agli anni Cinquanta del Novecento, quando cominciarono ad essere sopraffatti o del tutto sostituiti da altri, meno intimi e più chiassosi. Le vedute urbane che il mercante fiorentino Lodovico Guicciardini inserisce nella sua opera sui territori fiamminghi, edita ad Anversa nel 1567, pongono sempre in rilievo, a volte esasperandone le dimensioni rispetto al contesto abitativo circostante, il campanile della cattedrale, la torre civica e le cinte murarie più o meno turrite2. Anche gli orologi, che a partire dal XIX secolo presero a decorare le torri e
i campanili, attiravano lo sguardo degli abitanti offrendo un’informazione essenziale. Le stesse informa- zioni relative al trascorrere del tempo, da epoche immemorabili, si ricavavano sulle montagne osservan- do i momenti della giornata in cui determinate cime erano illuminate dal sole: da questa pratica derivano molti oronimi, fra i quali si possono citare il Campanile de Mesdì nel Trentino, Alp Prima, Piz Terza nel Bergamasco, La Dent d’Etava (octava) in Svizzera, Becco di Nona presso la Stura di Valgrande, Sasso delle Nove nelle Dolomiti cadorine, Cima Dieci in Valsugana (Serra, 1954, pp. 11-126).
Il Magini, tuttavia, dedica alle città di maggiore rilievo una immagine più articolata, nella quale si distinguono diversi edifici, alcuni dei quali nettamente riconoscibili: nella piccola pianta prospettica di Bologna spiccano, frammiste ad un assieparsi di campanili e case, le due torri, forse il simbolo più noto. È stato più volte osservato che la stragrande maggioranza delle carte geografiche e corografiche del XVI e del XVII secolo non rappresentano la rete stradale, che risulta desumibile soltanto osservando la dislocazione dei centri abitati e dei ponti sui corsi d’acqua: anche l’Italia del Magini non si sottrae a questa consuetudine, motivata, fra l’altro, dalla scarsa consistenza delle strade dell’epoca, per lo più piste in terra battuta che potevano mutare percorso da una stagione all’altra e che spesso si articolavano in fasci di tracciati fra loro alternativi (Rossi, 2007, p. 71). Tuttavia il cartografo padovano fa un’eccezione per la via Emilia, presente in tutte le carte che coprono lo spazio compreso fra Piacenza e Rimini3, forse
perché questo asse viario aveva rappresentato, a partire dall’età antica, senza soluzione di continuità, una linea di coagulo dell’insediamento e, molto più di altre vie romane, aveva prodotto un sistema urbano equilibrato e interconnesso, quello emiliano-romagnolo4, che l’autore ben conosceva, dal momento che
ne percorreva un breve tratto nei suoi viaggi fra Mantova e Bologna5. Il ruolo ininterrotto di asse portante
delle comunicazioni nell’ambito della pianura a sud del Po aveva quindi favorito, almeno in parte, la conservazione del selciato e delle strutture ingegneristiche realizzate dai Romani, così da farne un ele- mento riconoscibile e delineabile in una carta corografica: nel contempo, trattandosi di una presenza essenziale per la vita economica e di relazione delle principali città della regione, la via Emilia assumeva un ruolo identitario per le popolazioni gravitanti su di essa, che il Magini non ha mancato di segnalare.
2 Da questo punto di vista sono particolarmente significative le vedute di Lovanio, Malines, Ypre, Bolduc (Gaddoni,
2004, pp. 192-195).
3 Si tratta delle seguenti corografie contenute nella raccolta del Magini: n. 16 Ducato di Modena, Regio et Carpi col
Dominio della Carfagnana, n. 17 Ducato di Parma et di Piacenza, n. 33 Ducato di Ferrara, n. 34 Piano del Territorio di Bologna, n. 35 Parte alpestre del Territorio bolognese, n. 36 Romagna olim Flaminia.
4 Come afferma Franco Farinelli (1992) «con la propria andatura rettilinea e il proprio artificiale carattere (questo e
quella eredità della pianificazione romana) la via Emilia si distacca molto più delle altre strade dalla sinuosità degli archetipici andamenti fluviali, imponendosi come prototipo, alla fine del Rinascimento, della progressiva colonizzazione da parte dell’artefatto asse lineare di origine urbana di tutti i luoghi compresi tra una città e l’altra – del veicolo, in una parola, della moderna e materiale mutazione di tutti i luoghi in un unico, concreto spazio».
5 Giovanni Antonio Magini, oltre ad essere professore di Astronomia presso lo Studio di Bologna, frequentava la corte
del duca Vincenzo Gonzaga di Mantova, dove rivestiva il ruolo di astrologo e di precettore per i giovani della famiglia regnante.
Un’altra eccezione in un panorama cartografico che non si differenzia molto da quello del Magini – si vedano, come altro esempio, le carte di Gastaldi – è rappresentata da Tutto il Cremonese, soi
confini et sua diocesi di Antonio Campi (1571), che nella pianura compresa fra Adda, Oglio e Po,
percorsa da una ricca idrografia e da linee orizzontali mosse per indicare le lievi ondulazioni del suolo, ma anche per favorire la percezione della prospettiva, ospita una vegetazione molto ricca resa con una variegata tipologia di disegni di piante che induce ad ipotizzare un realismo abbastanza spinto almeno per quanto riguarda le specie arboree presenti, se non proprio la loro consistenza (Almagià, 1929, tav. XXXIV; Cosgrove, 1988, p. 265; Cosgrove, 2000, pp. 269-270): evitando la genericità tipica della cartografia dell’epoca, il Campi introduce nella tavola del Cremonese degli elementi particolari e distintivi, nei quali gli abitanti dell’epoca probabilmente si riconoscevano.
Talvolta le regioni sono raffigurate non attraverso la loro forma geografica, ma tramite somatopie: è il caso dei corpi femminili che rappresentano emblematicamente le partizioni dell’Italia nell’Iconologia di Cesare Ripa, edita a Roma nel 1603. In quest’opera che coniuga testi e immagini geografiche, nella fattispecie simboliche, le figure femminili con gli abiti, gli attributi e gli oggetti che sono loro accosta- ti intendono identificare i caratteri distintivi delle singole regioni. Tuttavia il riferimento è indirizzato più a una tradizione che risale agli autori classici, a Plinio in particolare, recuperato attraverso la
Descrittione di tutta Italia di Leandro Alberti, che alla situazione dell’epoca dell’autore (Mangani,
Rossi, 2006, p. 5). Né le icone femminili hanno alcun collegamento con la condizione della donna della prima età moderna, dal momento che almeno nove fra esse incarnano la donna forte, guerriera e capace di governare regni o città: i segni esteriori che le distinguono alludono unicamente a caratteri- stiche fisiche, economiche, culturali dei luoghi, riconosciute secondo la tradizione.
Un ulteriore contributo all’approfondimento degli elementi identitari dei luoghi si ricava non di rado dal frontespizio degli atlanti geografici e urbani dell’epoca fino ad ora presa in considerazione. È noto, citato e di frequente riprodotto il frontespizio del Theatrum Orbis Terrarum del fiammingo Abramo Ortelio, con le raffigurazione allegoriche femminili dei quattro continenti conosciuti: l’Euro- pa, figura coronata e dotata dei simboli del potere, collocata al culmine dell’architettura che incornicia il titolo della raccolta, signora del mondo; l’Asia, con i prodotti per i quali era tradizionalmente e universalmente conosciuta, le spezie e l’incenso, si erge sul lato sinistro; l’Africa, seminuda, è in piedi a destra; l’America, anch’essa seminuda, è mollemente distesa in basso, con accanto un mezzo busto raffigurante la Terra del Fuoco ancora semi-sconosciuta. Il significato simbolico è evidente e costitu- isce una premessa al contenuto della raccolta: l’Europa, con la sua potenza e la sua cultura, domina ed è destinata a dominare quasi per investitura divina, il resto del mondo. Sulla base di questo modello quasi tutte le raccolte cartografiche successive presenteranno frontespizi segnati da un forte contenuto simbolico: si possono ricordare quelli dei sei volumi delle Civitates Orbis Terrarum, dove si susse- guono immagini allegoriche a celebrazione dell’insediamento urbano, inteso come massima espres- sione della società organizzata e del vivere civile, senza omettere di segnalare, tramite una rappresen- tazione quasi in miniatura della Torre di Babele, i rischi che la comunità stessa corre qualora vengano meno i presupposti della civiltà e della corretta amministrazione (Federzoni, 2001, pp. 153-155): un tema assai sentito soprattutto nell’ambiente culturale fiammingo della fine del XVI secolo, che ebbe a soffrire più di ogni altro per i conflitti religiosi conseguenti allo scisma luterano.
Le piante delle città
Una maggiore presenza di caratteri distintivi si riscontra nelle piante di città e nelle vedute che dal Cinquecento vengono non di rado raccolte in atlanti urbani6: fra questi si distinguono i sei volumi
6 In Italia si possono ricordare, a titolo di esempio, le raccolte: De’ disegni delle più illustri città et fortezze del mondo
delle Civitates Orbis Terrarum del tedesco Georg Braun e del fiammingo Frans Hogenberg, che radu- narono un altissimo numero di rappresentazioni di città, per la maggior parte europee, fra le quali si distinguono profili, piante prospettiche, vedute, ecc. Ad alcune città è dedicata più di una tavola, ora per offrire una visione completa, da diverse direzioni, ora per precisare meglio alcuni particolari del centro urbano o del territorio circostante. Talvolta tre o quattro villaggi, o città, sono raccolti nella stessa pagina, sia pure in immagini distinte, perché collegati dalla medesima via, come Palacios, Alcanerilla e Cabeças, che si susseguono sul percorso verso Siviglia (vol. V). Altre tavole raccolgono due o più immagini urbane, non sempre geograficamente vicine, come Acquapendente e Treviso (vol. V). A Verona è dedicata una pagina intera, con una veduta della città nella parte alta e una pianta prospettica in basso, arricchite da un alzato dell’Arena (Amphitheatrum in Foro Boario situm) che, nonostante l’evidente stato di abbandono testimoniato dalla vegetazione che lo ricopre parzialmente, identifica il contesto urbano più degli edifici religiosi o laici costruiti in epoche successive.
Un nucleo a sé, nell’ambito dei sei volumi delle Civitates, è rappresentato dalle iconografie urbane di Georg Hoefnagel, pittore anversano, contemporaneo e amico di Abramo Ortelio: le sue incisioni di città e di paesaggi, se estrapolate dai diversi tomi nei quali si trovano sparse, da un lato permettono di ricostruire i viaggi compiuti dall’autore in tempi diversi attraverso l’Europa, dalla Francia alla Spa- gna, all’Inghilterra, all’Italia, al corso del Danubio, dall’altro si distinguono per uno stile personalissi- mo, molto più prossimo alla pittura di paesaggio che alla pianta urbana. La sua attenzione si concentra non soltanto sugli edifici pubblici di maggiore rilievo e di maggiore significato per la popolazione urbana, ma anche sui dintorni, sulla viabilità, sulle campagne, sui lavori che vi si svolgono e sugli aspetti folkloristici che le caratterizzano. Nella veduta di Granada (libro I, tav. 4) la città, compresa l’Alhambra, è in secondo piano, con le Sierre sullo sfondo, mentre in primo piano, in un paesaggio di colline, si scorgono contadini che tracciano i solchi con l’aratro o che curano i loro orti, viaggiatori a piedi, a cavallo o sugli asini che percorrono le strade, fanciulle che suonano e danzano in una radura. La città di Cadice, cui sono dedicate tre differenti immagini, è sempre vista in lontananza: la tav. 20 del libro V pone in primo piano la cappella di San Sebastiano che si erge sull’estremità del promonto- rio che da essa prende nome. Accanto all’edificio religioso un monaco elemosiniere sembra accoglie- re una misteriosa dama avvolta in un ampio mantello nero7. Alle loro spalle si svolge la cattura dei
tonni, con un sistema che prevede la delimitazione di un tratto di mare presso la costa con massi e scogli: i tonni si introducono in questa sacca, dalla quale non possono uscire con la bassa marea, quando l’arco di scogli emerge e li rinchiude. È questo il momento più propizio per la mattanza. Completano il tutto due riquadri con scene di sbarchi, di reclutamento di marinai e di scambi commer-