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LA POESIA D’OCCASIONE COME FONTE PER LA LETTURA DEI PAESAGGI CULTURALI: UNA VOCE EBRAICA PER LO SPAZIO DELLA CHIUSURA

Questi pochi appunti non costituiscono che un primo resoconto delle ricerche relative alla perce- zione ed alla caratterizzazione semantica che si rispecchiano nella toponomastica di matrice ebraica, rendendola portatrice di un significato assai diverso da quello veicolato dai nomi attribuiti dall’esterno dell’abitato e della cultura degli abitanti dal medioevo e lungo tutta l’età moderna.

I noti toponimi sorti ad indicare il luogo abitato dagli ebrei, in modo per altro non esclusivo fino all’istituzione della chiusura voluta da Papa Paolo IV nel 1555, rispecchiano infatti un’esigenza propria del gruppo maggioritario, quella di distinguere, cui corrisponde spontaneamente l’avvio di uno specifico processo onomastico che si concretizzava nella attribuzione di nomi di luogo volti alla distinzione dei vari elementi del corpus cittadino, fenomeno noto e diffuso in epoca medievale, che in certa misura spiega come ‘naturale’ l’insorgere di una caratterizzazione onomastica degli spazi occupati dagli ebrei in ambito urbano (Berengo, 1999; Calabi, 2004; Costa, 1999; Pinol, 2003; Masotti, 2001 e 2004).

Il toponimo attribuito all’abitato ebraico rappresenta uno sguardo esterno agli abitanti del luogo (gli ebrei) e corrisponde all’impressione che gli abitanti non ebrei della città colgono nelle strade più o meno recentemente abitate da una componente portatrice di una differenza avvertita come non assimilabile. In modo non coincidente ma avvicinabile a quanto accade per altre componenti esterne alla città (i mercanti stranieri che occupavano stabilmente alcuni edifici di una strada, per esempio), l’onomaturgo non coin- cide con l’abitante (Cassi, 1991, pp. 91, 91; Cassi, Marcaccini, 1998, pp. 19, 20, 27).

Toponimi quali casa delli hebrei, via dei giudei, quartiere ebraico, giudecca, presenti in varie lingue europee se pure con oscillazioni nell’accezione semantica e nella periodizzazione che merite- rebbero qualche riflessione (carrière des juives, juiverie, juifferie, judenstrasse, etc.) indicano sostan- zialmente variazioni del’estensione dell’abitato ebraico, o della percezione della sua rilevanza agli occhi della società maggioritaria che generalmente preesiste alla componente ebraica.

La variazione del toponimo non pare essere determinata invece, come si potrebbe pensare ad un primo sguardo, dall’esclusività dell’abitato, che rimane promiscuo fino alla chiusura in ghetto e, dove questa non fu attuata, anche oltre l’inizio della cosiddetta ‘età dei ghetti’ (Masotti, 2007).

Lo spazio della chiusura, indicato con il termine latino vicus nella bolla Cum nimis absurdum, fu detto in principio recinto o serraglio. La voce ‘ghetto’ tardò a comparire, e la sua accezione in senso esteso non poté dirsi diffusa o comprensibile fino almeno al principio del XVII secolo (Cassandro, 1996, p. 233; FOA, 1992, pp. 184-185). Non contemplata nelle prime due edizioni del Vocabolario degli Accademici della Crusca, vi compare dalla terza (1691), con la definizione ‘Quel raccolto di più case, dove abitano gli Ebrei. Lat. Iudaeis publice praebitae, vel designatae domus, Iudaeorum contubernium’.

Sul principio del Seicento il termine si affermò anche in ambito ebraico: è testimoniato nelle fonti letterarie interne, nelle quali solo tardivamente è stato affiancato da una parola di origine ebraica, haser¸ declinata secondo una significazione tutta particolare, ad indicare non solo la materialità del luogo ma anche la valenza di espace vécu dell’abitato ebraico, visto con gli occhi di un mondo ormai emancipato.

Haser, hazer, chazer: la percezione del ghetto nelle testimonianze ebraiche all’indomani dell’equiparazione

L’affermazione del punto di vista della collettività ebraica nell’attribuzione onomastica del proprio luogo di abitazione si riflette, per quanto è dato ravvisare dalle ricerche in atto, nel termine haser, in ebraico cortile.

Il termine ricorre in un tipo particolare di fonti, quali i testi letterari, che si usa distinguere in fonti interne, direttamente prodotte in ambito ebraico, e fonti esterne, prodotte da non ebrei che vivevano a contatto con il mondo ebraico. Quest’ultima situazione ha caratterizzato anche l’epoca dei ghetti, a dispetto dell’intenzione di rinchiudere per alienare dalla consuetudine dello scambio quotidiano, in- tenzione la cui inutilità è testimoniata proprio dalla contaminazione linguistica verificatasi tra i due gruppi tanto in presenza di abitati liberi quanto nelle città sede di ghetto.

Di taglio generalmente comico-satirico, le fonti esterne sono particolarmente preziose perché testi- moniano di come i vicini cristiani percepivano la lingua d’uso degli ebrei, e restituivano l’immagine della lingua parlata dell’epoca, generalmente una miscela di parlate locali, memorie dei precedenti luoghi di residenza e termini ebraici più o meno mediati dalla pronuncia locale (Modena Mayer 1996). L’intento di deridere attraverso l’imitazione della lingua altrui – della lingua parlata, in particolare – inserisce questo tipo di testi nel numero delle fonti utili alla conoscenza della terminologia in uso presso le comunità ebraiche in Italia, e può contribuire alla non facile individuazione e datazione delle tracce linguistiche che possano gettare lumi su come lo spazio insediativo e domestico fosse vissuto e percepito dalla minoranza ebraica in un contesto maggioritario soverchiante nel numero e ciclicamente ostile.

L’attestazione del termine è tarda e, nei testi di produzione ebraica, testimonia i sentimenti del- l’epoca di transizione seguita all’emancipazione ed all’apertura dei ghetti, con la conseguente fine di un mondo coeso e coerente e l’insorgere di una certa nostalgia per una separatezza che, per quanto obbligata, preservava una identità che si temeva ora in pericolo.

Una prima analisi delle fonti di epoca moderna porta ad escluderne, almeno allo stato attuale degli studi, l’utilizzazione nei secoli XVII e XVIII.

Il termine non è attestato in quest’uso nel Seicento e, se pure è possibile sia sorto in uso nel corso del Settecento, non è dato al momento rinvenirne documentazione nei testi dell’epoca, mentre ancora alla fine del secolo appare in uso il termine ghetto, geto nella dizione locale.

Così ne ‘L’intermezzo dell’oca’, testo comico emiliano del 1672 usato come intermezzo a teatro, compare la frase ‘e condottolo allo getto’. Nel medesimo contesto linguistico è poi documentata l’espres- sione ‘agli ebrei chiusi in Ghetto l’anno 1673’ (Ms. Regg. C394).

La situazione non varia in altre aree linguistiche, come ad esempio in Italia Centrale, dove fu attivo Giovanni Briccio. Ne ‘Li strapazzati’ (1627, in Santambrogio, 1997, pp. 245-257), commedia in cui i personaggi si esprimono con la parlata regionale di appartenenza e l’ebreo parla in giudeo-italiano, il termine ‘ghetto’ persiste come voce unica.

Anche nel XVIII secolo il termine ‘ghetto’ e le sue varianti grafiche si attestano in luogo degli originari ‘recinto’ e ‘serraglio’, che vengono sopravanzati dal principio del Seicento e non si trovano nelle fonti consultate nemmeno come alternativa sinonimica al consueto ghetto/geto/ghet.

Le prime attestazioni del termine haser, nelle varianti grafiche di cui si riferisce di seguito, compa- iono nel XIX secolo per attestarsi nell’uso piemontese, emiliano, veneziano e fiorentino (Massariello- Mayer 1974), per essere testimoniata anche in ambito triestino e livornese (Fortis, 2006, pp. 264-265) e sporadicamente romano (Jochnowitz, 1981).

Il termine deriva dall’ebraico biblico e indica, nel suo senso comune, un luogo recintato, un cortile. Questa traduzione, confermata da Fortis, richiama una delle prime voci documentate della chiusura in ghetto, il citato ‘recinto’. In senso specifico può invece indicare il cortile centrale del Tempio.

M.L. Mayer ne ipotizza la nascita al principio dell’Ottocento, sia sulla base della datazione delle attestazioni che del significato affettivo con cui il termine viene in genere utilizzato.

La mancanza di testimonianze anteriori può suggerire il diffondersi del termine, in luogo di ‘ghet- to’, proprio all’indomani dell’emancipazione e dell’apertura dei ghetti, ovvero dell’aprirsi di una nuo- va prospettiva sulle possibilità di scegliere liberamente luogo e tipo di abitazione.

Infatti, se fino ad allora la contrapposizione tra ‘città’ e ‘ghetto’ era netta – luogo di abitazione esclusivamente ebraica o esclusivamente non ebraica – la possibilità di risiedere fuori delle mura del

ghetto determinava in ambito ebraico il sorgere di un nuovo sguardo, che dall’esterno del ghetto ne rendeva evidenti i valori sociali, culturali e religiosi – in una parola identitari – che trovavano rappre- sentazione in uno spazio fino a poco tempo prima coatto, sì, ma al contempo coeso, luogo di identità esclusiva oltre che di discriminazione.

Un atto onomastico che, nello stress della perdita di un mondo fino ad allora immutabile, risemantizzava un luogo erigendolo a simbolo (Caldo, 1994, p. 24).

M. L. Mayer ritiene possibile che parallelamente, nel medesimo lasso di tempo, il termine ‘ghetto’ stesse acquisendo od accentuando una connotazione negativa che probabilmente non aveva nell’epo- ca della chiusura, quando si trovava normalmente anche nelle fonti ebraiche. Non solo luogo di obbli- gata residenza ebraica, ma anche luogo-simbolo per l’insieme dei pregiudizi verso gli ebrei, luogo di una differenza che quanti uscivano da questa realtà fatta spesso di indigenza, oltre che di separazione e discriminazione, cercavano di risemantizzare anche agli occhi dei non ebrei, tentando di inserirsi in una società maggioritaria preclusa da secoli ma nel contempo avvertendo un senso di nostalgia per un mondo in via di trasformazione.

È questa dolcezza nostalgica che prevale nelle attestazioni del termine rinvenute, risalenti alla fine del XIX secolo e al principio del XX: un’epoca nella quale, ormai parte attiva ed accettata dal conses- so civile nazionale, gli ebrei originari dei ghetti videro quelle aree cadere, come altri settori ormai cadenti della città, sotto i colpi del ‘piccone rigeneratore’, in un’ansia di rigenerazione urbana che avrebbe privato per sempre le nostre città di una parte rilevante del paesaggio stratificatosi nei secoli precedenti.

Così nell’ambito del risanamento della città di Modena vennero abbattuti nel medesimo giro di anni sia il quartiere detto ‘dei tre re’ che buona parte dell’antica area del ghetto (Bertuzzi, 1992).

Cosa questo abbia significato per gli ebrei modenesi che ancora identificavano in quell’area, pur ormai fatiscente, il nucleo vivo dello scambio sociale con i correligionari, ultima marca territoriale di uno spazio vissuto collettivo in un tempo in cui ormai ognuno viveva nel quartiere che più si conface- va alla propria collocazione sociale ed economica; e quali i sentimenti che ne derivavano, si evince dalla lettura di un testo in versi composto in occasione del’abbattimento del ghetto, Il Salmo di Davidino

Il Salmo di Davidino davanti alle rovine del Haser. Da un Salterio nuovissimo1.

1. Spunta già l’alba del Mercoledì 2. E per i *Judim è stimà gran dì 3. Vedarem se Diena finirà 4. Contra i *Goim (Cristiani)

5. Che Geova i manda indal *bed akaim (Cimitero) 6. Ma povereto lù, Diena sta fort

7. Tutt quel che podesva, è vignu mat 8. A difender al *baid (casa) d’Israel 9. Ma un se pol rimediar

10. Al *Hazer è sta butà per l’*adama (terra) 11. O *Hazerud d’un Consili can

12. Degn che te ciappen i *tapsan (le guardie) 13. E che te zbatten subit in *tafus (Prigione) 14. Adess coma farem

15. Che la gioia del *Haser un gh’avem 16. Coi veci coi doni e coi *banim (figli) 17. Andar vers la Scola (Tempio)

18. Prima d’andar a magnar i castagnoi (pasta con uovo)

19. Kal bon odor de *√omen (grasso d’oca) de burut (specie di patè) 20. Che piazer sintirla

21. Saver che tutti ge nan

22. E che ne gusten tut per i *miñan 23. Dov’andarem a vender la strazzaria 24. E la mobilia

25. Che se compera con akse poki *manod (denari) 26. Sim propi rovinadi

27. Ma i *goi, an tradì anch Faflati 28. era un po spork e un pog d’odor 29. Se ghe sentiva e vera ma forse lor 30. Gh’an de’ mey in Malora o in di Tre Re? 31. Ghe staria ben un poc de violensa 32. Ma bizoña che usem na gran prudenza 33. E’ inutil se gh’era affesionà

34. E i *goim se l’han propia *ganavia (rubato) 35. Prima se gavevan piantà su rastey

36. Adess se spassen via

37. Come se fusem tanta sporcarla

38. E quand’ de fora viniran i *Rubitim (Sacerdoti) 39. A visitars coi so *Chabanchim

40. Vedend ke sim sensa al noster *Haser 41. Se mosgaren i dì

42. E zigaran! *Davar Schebagnolam! (che immensa miseria) 43. Albinelli che possa *pigiriar (morire)

44. A nualtri se va ben, se toca andar 45. Ma gavem una vendetta

46. Tuti sti zuvnot

47. Aran pers l’indirizo di *zonod. (donne allegre)

1 Trascrizione tratta da G. Merzagora Massariello e M. L. Modena Mayer (1973), p. 906. Del testo citiamo a confronto

i lemmi delle due versioni testimoniate, la prima delle quali (ff. LVI e LVII) viene considerata dalle curatrici più coerente con il contesto giudeo-modenense studiato, mentre la seconda, di cui si riporta integralmente il testo, mostra influenze esterne a tale contesto, come il futuro in – emma, più vicine a esiti centro-meridionali: ibidem, p. 904, n. 3.

Le fonti linguistico-letterarie: una risorsa per la geografia

La serie documentale dalla quale sono tratti questi testi è particolarmente significativa perché si tratta di una raccolta di testimonianze orali attuata a Modena dal ricercatore dialettale Raffaele Giacomelli negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, quindi prima dello sconvolgimento attuato dalle leggi speciali e dalla deportazione, quando ancora il milieu linguistico delle parlate italia- ne manifestava gli esiti di un’evoluzione lenta, in questo caso di una convivenza ebraico-cristiana durata almeno cinque secoli. L’intervistatore, attento alle peculiarità del giudaico-modenese in rap- porto al modenese, era inoltre interessato a ‘provocare’ l’esplicitazione di un lessico più specifico, riferito in particolare agli aspetti religiosi e culinari del mondo ebraico modenese.

Un secondo aspetto importante riguarda l’età degli intervistati, annotata con la cura di chi cerca fonti arcaiche (compare anche un nonagenario), il loro mestiere e la situazione in cui è stata svolta l’intervista (il caffè o la casa degli informatori: Massariello, Mayer, 1973, pp. 863-864)2.

Il termine haser, tradotto dalle curatrici in riferimento al significato più comune ‘cortile, aia, terre- no cintato’, compare nelle carte di Raffaele Giacomelli in tre differenti varianti grafiche, sempre con il significato di ‘ghetto’:

1. hasser XVIa,6 Andem in hasser

2. Haser LVI,15 Che la gioia del *Haser non gh’avema

3. LIV, 15 Che la gioia del *Haser un gh’avem

4. LIV,42 Vedend ke sem senza al noster *Haser

5. LVII,40 Vedend ke sim sensa al noster *Haser

6. Hazer LVI,15 Al *Hazer è sta butà per l’*adama (terra) 7. LVI,10 El *Hazer è sta buttà per l’*adama (terra)

8. chazer XLIII,7 Se me fus al Diretor voria meter / un poc de ordin in ste negro chazer indova tuti fan i so/ comdi cominciand dal chazan a andar a finir dal bidel Umberto Fortis (2006), che offre una tradizione non etimologica del termine e sceglie di resti- tuirlo direttamente con il significato d’uso di ‘ghetto’, si sofferma ad esplicitare in modo esteso gli aspetti sociali sottesi dal termine, contestualizzando il significato complessivo implicito nei testi lette- rari, dove è il ghetto come spazio vissuto, e non solo nella sua materialità che si vuole esprimere:

HASÈR, s.m. ‘ghetto’. Nella parlata il termine indica il ghetto non solo in senso fisico, come spazio della reclusione, imposta agli ebrei dal 1516, ma soprattutto come luogo di incontro, di pette- golezzi, ove tutti si conoscono e dove ognuno sa tutto di tutti; il luogo chiuso nel quale si muovono le figure caratteristiche che animano il piccolo mondo ebraico.

Sempre con la stessa intenzione, ci pare, V. Marchi (1993) traduce hatzér, nell’ambito di un testo di area livornese, come ‘il mondo del ghetto’.

Annotazioni conclusive

Poesie e testi teatrali si sono rivelati una fonte preziosa per registrare le attestazioni del termine in varie aree linguistiche, e quindi la memoria della conformazione del sistema insediativo ebraico tale quale si può osservare in epoca moderna e delle sue trasformazioni nel corso dell’Ottocento.

2 I testi sono stati trascritti e commentati da G. Merzagora Massariello e M. L. Modena Mayer (1973), con la quale

ultima ho avuto il privilegio di poter discutere le note a questo mio lavoro di toponomastica. In assenza di specifica indicazione bibliografica si deve intendere la citazione di M.L. Mayer come riferita a questi colloqui, dei quali la ringrazio.

La circolazione delle parlate e l’analisi di specifici toponimi e di termini geografici seguita può essere usata quale indicatore qualititativo nello studio di fenomeni più studiati in ambito geografico, quali ad esempio le migrazioni interne della popolazione ebraica avvenute all’indomani della prima (1797) e della seconda (1848-1861) emancipazione in Italia, quando non solo i ghetti ma anche gli antichi luoghi di residenza vennero progressivamente abbandonati in favore di centri di medie dimen- sioni e funzioni di più alto livello, che Della Pergola (1976) definì ‘centri di transito’, per poi approda- re in località ricche di potenzialità di sviluppo economico.

Solo a questo punto, e siamo ormai alla vigilia delle leggi razziali che nuovamente interruppero la normalità del fenomeno di redistribuzione demografica, sociale e insediativa in atto, si possono osser- vare gli aspetti geografici di una redistribuzione territoriale ‘normale’, ovvero definita da logiche legate all’appartenenza sociale ed economica dei singoli e delle famiglie di religione ebraica più che vincolate da legislazioni speciali, come in epoca medievale e moderna.

Se pure il ghetto aveva rappresentato per secoli una realtà di separazione spaziale e di mortificazio- ne sociale delle potenzialità dei singoli e delle comunità ebraiche, l’affezione agli antichi luoghi di insediamento rimane una caratteristica fondamentale degli italiani di religione ebraica, che tutt’oggi seguitano a dichiararsi originari dei luoghi nei quali per generazioni risedettero le famiglie nel passa- to, mantengono spesso legami con quelle città e villaggi, di cui talvolta conservano il nome e, potendo, si curano delle vestigia culturali e territoriali di un passato di condivisione con la specifica popolazio- ne locale che, per quanto talvolta difficile, viene riconosciuto come parte integrante della propria identità.

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