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Negli anni quaranta del secolo scorso abitavamo in un paese di 6.000 anime. Ambedue le case dove sono cresciuta erano servite dall’acquedotto e il bagno della seconda non era molto diverso da quelli di oggi. Ho dei bei ricordi di me bambina mentre sguazzavo nell’acqua della grande vasca, per quanto non sappia dire come fosse riscaldata. D’estate era consuetudine andarsi a rifornire d’acqua fresca di vena nelle vicine “Fonti del Calcinaro”

o nel cortile della scuola elementare, ex convento, detto “Il portone dei frati”. Mi piaceva accompagnare con il mio orcetto la ragazza che ci aiu-tava in casa e diligentemente mi mettevo in fila con gli altri aspettando il mio turno, più interessata al compito affidatomi che alle chiacchiere delle donne.

Del tutto diversi sono i miei ricordi legati all’acqua nella grande casa di mia nonna. Era solo ad un chilometro di distanza dal paese, ma quello era un altro mondo, un mondo a sé, molto più vario e vivace a causa non solo delle molte persone che ci vivevano o che aiutavano, ma anche, essendo una casa padronale, dei molti riti stagionali che lo animavano. La casa era cresciuta con la famiglia – mia nonna aveva sette figli – e si era allungata su entrambi i lati di quella originale. Accanto c’era il forno per cuocere il pane che ancora si faceva in casa e, dopo una loggia, un gabinetto esterno, mol-to spartano. Sul davanti, quasi ad angolo, un altro edificio che all’interno aveva un pozzo, già allora in disuso, e la fornacella dove si bolliva il l’acqua per il bucato. C’erano varie donne all’opera e ognuna sapeva esattamente cosa doveva fare e in quale ordine andava fatto. Dal grande caldaio l’acqua era versata nella secchia di legno sulla cenere che ricopriva i panni. Era il ranno o, come si diceva da noi, “la ranna”.

Per sbiancare i lunghi teli tessuti per fare i lenzuoli da corredo si anda-va invece al fiume. Altro rito che associo a giornate limpide, calde e felici perché, mentre le lunghe pezze erano stese sul greto del fiume, si poteva giocare nell’acqua e anche fare il bagno. E poi al fiume ci si andava con il calesse! Un’altra occasione per attaccare il cavallo al carro era quando si doveva fare rifornimento d’acqua di vena che si attingeva dal pozzo dei

Mazzola, non troppo vicino. Qualche volta ci si andava a piedi, ma era faticoso portare gli orci perché il ritorno era in salita. C’erano sempre un paio di orci sull’acquaio della grande cucina anche se c’era l’acqua in casa, un solo rubinetto, a dire il vero. Probabilmente non arrivava sempre ed era necessario avere delle scorte.

Nelle camere c’erano i portacatini con le relative brocche ed uno dei miei più sconcertanti ricordi è legato allo strato di gelo che trovai nella bacinella qualche mattina d’inverno.

Il bagno si faceva in una grande tinozza una volta alla settimana nel-l’atrio della cantina e questa usanza si protrasse per molti anni perché, anche quando costruirono un gabinetto in casa, la vasca non c’era e ci si doveva arrangiare.

Per tutti gli usi stagionali o quotidiani, si usava l’acqua piovana raccolta nel nuovo pozzo sull’angolo destro della casa. Era un pozzo con uno spor-tello che ci era proibito aprire ma, quando qualcuno doveva tirare su il secchio, non potevamo fare a meno di sporgerci all’interno per specchiarci nell’acqua. Il giorno che fu ripulito fu un grande evento perché fu possibile vederne il fondo. I pozzi hanno sempre avuto un grande fascino a causa dei tanti racconti fantastici che ne celebravano la magia, ma nei miei ricordi associo ad essi anche racconti tragici e a volte inquietanti, come quello che diceva che un certo prete era stato ritrovato nel “Pozzaccio” di una solitaria strada di campagna o quello sussurrato, perché non dovessimo sentire, su un neonato fatto scomparire in un altro pozzo del paese. Anche quello di casa ebbe una storia triste da raccontare: verso il ’50 la mia giovane zia di trent’anni morì di tifo a causa della sua acqua inquinata.

L’acqua, si sa, può avere una duplice connotazione nella nostra memo-ria di bambini ed evocare, al di là degli usi che se ne faceva, immagini po-sitive o negative. Piacevoli sono i ricordi dei giochi improvvisati quando, dopo un acquazzone saltavamo tutte le pozzanghere che si erano formate, come indimenticabili sono le giornate d’estate quando si gareggiava a fare le bolle di sapone più grosse. Bastava un pezzo di canna tagliata, la giusta

tezza di un sogno a colori. Sul versante opposto le paure nascoste associate al pericolo. Per anni nella mia infanzia ho continuato a sognare di cadere nella “pozza” di Amalia, dall’altra parte della strada. Era profonda e buia perché circondata da alberi e la vecchia donna, curva e vestita di nero, che vedevo china sulla panchetta a lavare i panni, era anche lei poco rassicu-rante. Fortunatamente nel sogno quando raggiungevo il fondo melmoso e pensavo di dover morire, riuscivo a darmi una spinta con i piedi che mi riportava a galla.

Ora quella “pozza” non c’è più: c’è un giardino al suo posto e non c’è più neanche il rivolo d’acqua limpida che scorreva vicino al cancello di mia nonna. Ma mi è rimasta intatta nel tempo, unica e irripetibile, l’immagine di una bella e serena mattina di Pasqua quando con mia madre ci chinam-mo per bagnarci il viso mentre le campane suonavano a distesa. Era anche quella una bella tradizione: dopo il silenzio che seguiva il Venerdì Santo, la Domenica, quando si “scioglievano” le campane, ci si doveva lavare il viso. Quel giorno, in un’atmosfera così perfettamente festosa, quell’acqua la sentii come una benedizione.

FIAMMETTA TARSI