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Argia, nonna paterna, stava con noi. Poliomielitica, viveva appartata, quasi sempre seduta in camera sua a lavorare all’uncinetto coperte da la-sciare in ricordo ai suoi numerosi nipoti. A me e mio fratello domanda-va poco, ma quello dovedomanda-va essere, altrimenti seguidomanda-vano solenni punizioni da parte di nostro padre. Chiedeva che la salutassimo prima di uscire al mattino e che ci presentassimo a lei prima di andare a letto la sera per ricevere la benedizione; poi, ma questo ci costava di più, con l’arrivo del caldo, dovevamo, a turno, noi due “piccoli”, andare ad una certa fontana, riempire una bottiglia di vetro verde con tappo ermetico, lasciarla al fresco dell’acqua che era nella vasca dei panni, all’ombra del cortile, per farla ar-rivare puntualmente a tavola quando lei si sedeva. Disdegnando la nostra, presa dall’“arrivo”, la nonna sottolineava le qualità della “sua” acqua che lei sapeva venire da “Valcimarra”. Noi ascoltavamo senza replicare, indiffe-renti. Quando mio fratello ed io, per assecondarla, dovevamo lasciare un gioco particolarmente intrigante e magari in un momento cruciale, allora le facevamo qualche dispettuccio, senza farcene accorgere naturalmente, altrimenti sarebbero stati guai.

Quello più comune e divertente coinvolgeva la benedizione serale: quan-do lei, con una certa solennità pronunciava il “Dio di benedica”, noi tra i denti rispondevamo “con la crosta e la mujca” e poi via fuori a ridere con-gratulandoci a vicenda…

Un’estate più calda del solito mio padre scoprì l’acqua di “Vichy” o Idrolitica ed a tavola la nonna cominciò a seguire con malcelata attenzione le fasi precise ed accurate per la preparazione dell’acqua; a poco a poco bevve la sua con minor soddisfazione, ma per stare “sul punto” non chie-deva la nostra; quando qualcuno di noi sorseggiando l’idrolitina, talvolta avidamente, si lasciava scappare un “oooh…!” di appagamento, un ombra le passava sul viso. Mio padre se ne accorse e trovò la soluzione. Un giorno prima di aprire le bustine famose le si rivolse: “Mamma, se la facessimo con l’acqua di Valcimarra?” finse un po’ di disappunto… ma si capiva benissimo che era contenta di poter bere con noi quell’acqua speciale. Dopo qualche

tempo finì anche la storia di andarle a prendere l’acqua alla fontana, per-ché la mamma fece una audace mediazione convincendola che… ormai…

l’acqua di Valcimarra nel suo sapore era sopraffatta da quella dell’Idroli-tina… Fu una vera e propria capitolazione per lei ed una liberazione per noi. Quando però nonna Argia non si alzò più dal letto, senza che nessuno ce lo chiedesse, mio fratello ed io tornammo alla fontana con la bottiglia verde per prenderle l’acqua. Non gliela facemmo mancare più. Morì con le labbra bagnate della “sua” acqua, quella che veniva da Valcimarra

Anni ’50

MIRELLA VALENTINI

riflessi

Lu puzzarólu

Molte delle memorie qui raccolte citano i pozzi, le attività che ruotava-no loro intorruotava-no, e le vite che con la loro presenza si intrecciavaruotava-no.

Nessuna però fa riferimento all’ingegnosa figura di artigiano che per se-coli fu impegnata nello scavo dei pozzi senza altro ausilio che quello delle proprie mani e di pochi poveri attrezzi. Ho visto in questo una lacuna da colmare; ma le ricerche che ho svolto non mi hanno aiutato molto.

Un riferimento, su indicazione dell’agostiniano padre Franco Monte-verde, mi è giunto dalla documentazione del processo di canonizzazione di San Nicola da Tolentino, ove si può leggere che uno dei testimoni, il teste 221, raccontò di un duplice miracolo: il santo fece scaturire con lacrime e preghiere, all’interno del convento, l’acqua potabile necessaria per la vi-ta della comunità agostiniana. Poi, durante lo scavo del pozzo, si verificò una frana inarrestabile che mise in serio pericolo l’incolumità degli operai e rischiò di compromettere la stabilità della vicina chiesa; ma di nuovo San Nicola intercesse presso Dio e lo smottamento si arrestò.

L’episodio narrato dal teste 221 lascia solo intravedere quali e quanti pericoli dovessero affrontare gli scavatori di pozzi. Il sonetto dialettale1 di Claudio Principi2 che riporto in appresso appare invece ben più esplicito e documenta, anche se parzialmente, le caratteristiche di un mestiere legato all’acqua ormai scomparso, grazie all’avvento di tecniche moderne magari meno suggestive ma oggettivamente più efficienti e meno pericolose.

MIRELLA VALENTINI

1 Tratto dal vol. I di Mille e uno sonetti di marca in dialetto di Montolmo, Ed. Comune di Corri-donia 2002.

2 Claudio Principi conduce da decenni ricerche di demologia e dialettologia marchigiana; tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo la raccolta “contadinate marchigiane” edite dalla Fon-dazione Carima.

Lu puzzarólu

1

Scì, su lo mìa ce staco 2; ma se tratta che, de tèra, n’adè ‘na pisciatèlla 3. La casa è ‘n atterratu, e… ce se ‘datta 4. Nònnu ce la lassò, sta curtinèlla 5:

‘llu pòru nònnu che sse l’era fatta sai come?... a fforza de rischjà’ la pèlla!

Li puzzaróli?... póchi la rembatta 6, tra mmalatìe e ddesgràzie, li scorvèlla 7. A ffà’ li puzzi, tu, te lo figuri?

Jirasse attunno e sgarufà’ la tèra 8…:

Cali e sgarufi, scì; cali e mmisuri,

‘ngrasti mattù, jó, tra la mata 9; e spera che non te casca sópre gnè, che mmuri come um póce 10, e cce rmani sottotèra!

1 I pozzi, e un tempo non c’era casa in campagna che non avesse il suo, venivano scavati a mano da specialisti chiamati appunto puzzaróli. Questi erano, per lo più, anche acquaróli, cioè rabdo-manti, e localizzavano le vene, le falde sotterranee.

2 su lo mìa ce staco, sto su un terreno di mia proprietà.

3 n’adè ’na pisciatèlla, ne è molto poca.

4 ‘n atterratu, e…. ce se ‘datta, una abitazione di fango (così si chiamano quelle tipiche delle nostre parti) e… ci si adatta.

5 ‘sta curtinella, curtina è chiamato un piccolo podere prossimo al centro abitato, e curtinèlla è il dim.vo.

6 póchi la rembatta, pòchi fanno patta, la rimediano.

7 li scorvèlla, da corvéllu, corbello, scorvellà’, vagliare con il corbello: alta era infatti la mortalità per le cause dette.

8 sgarufà’, la tèra, ruspare, grattare la terra con le unghie, ed ancora grufolare. A proposito di questo verbo, si può ricordare questo canto dei puzzaróli: La górba drénd’um puzzu non ge vede, / ‘n-ze pòle sgarufá se non ze bbéve…