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Gli ultimi bagliori della Seconda Guerra Mondiale facevano sentire an-cora i loro effetti devastanti, vivevo con mia madre in una piccola scu la di campagna, dove lei insegnava ai figli dei mezzadri della zona.

La scuola, di cui ora rimangono solo macerie, era situata fra due grandi case coloniche, dove vivevano sei mezzadri con le loro famiglie. La cosa più bella, per me, era che c’erano, oltre ai grandi, tre bambini, più o meno della mia età. Anche se ho solo dei vaghi ricordi di tutto quello che pote-vamo combinare insieme in quel tempo, mi è rimasto addosso, in maniera indelebile, il rispetto che dovevamo avere per l’acqua. I grandi continua-vano a raccontarmi: “Non dovete sprecarla, non dovete sprecarla, perché è preziosa e ce ne serve molta”.

L’acqua veniva tirata fuori dal pozzo che ogni casa aveva. Non si poteva sprecare perché stando in collina il pozzo ne conteneva poca e quell’acqua doveva servire sia per la casa che per le bestie, nella stalla.

Ho ancora presente il ruolo che giocavano le brocche piene, messe in bell’ordine in un angolo della grossa cucina, sopra lo sciacquatore. Era un dovere delle donne di fare in modo che le brocche fossero sempre piene.

Alle figlie, ancora bambine, i genitori regalavano delle piccole brocche per-ché imparassero a portarle piene sulla testa sopra la rocchetta1, dal pozzo alla casa senza farle cadere e senza versare una goccia d’acqua.

Ma un giorno un pozzo cominciò a soffrire di secca. Gli uomini decisero di destinare l’acqua rimasta nel fondo ai soli usi domestici, e di provvedere ad abbeverare le bestie in un’altra maniera.

Tutti insieme costruirono un marchingegno che non saprei come chia-mare. Aprirono a “V”, per la lunghezza di circa un metro, un’estremità del tronco di un sempreverde sfrondato e tra le due parti del tronco, allargan-do la fessura, fissarono un biallargan-done a chiusura quasi ermetica, assicuranallargan-do-

assicurando-velo con del fil di ferro. Sotto il bidone fecero scorrere una sala2 alle cui estremità attaccarono due ruote.

Poi praticarono dei buchi equidistanti sull’altra estremità del tronco e vi inserirono dei ferri ai quali poteva essere attaccato l’anello del giogo. Tra-sformarono così questa estremità del tronco in un timone che poteva essere assicurato alla bestia, somaro o vacca, che avrebbe tirato il “carretto”. Con questa macchina, rudimentale ma utile, i mezzadri scendevano giù a valle, dove c’era una fontana con acqua abbondante. Solo che dovevano andare su e giù molte volte al giorno, dalla collina alla valle, per poter abbeverare tutte le bestie. Che la cosa fosse molto faticosa lo capimmo subito anche noi bambini. Infatti, vicino alle case c’era un pantano, che siccome stava così in alto sulla collina, più che acqua conteneva fango; ma a noi piace-va moltissimo lo stesso giocarci dentro. Una volta, giocando alla guerra, c’eravamo coperti di melma dalla testa ai piedi e non sapendo come ripu-lirci, zitti zitti, di nascosto, ci tuffammo dentro l’abbeveratoio delle vacche.

Come ci divertimmo! Ma che sgridata!…

Non solo dovemmo ripulire tutti gli abbeveratoi, ma per tutto il giorno dovemmo andare su e giù a piedi con i grandi a prendere l’acqua col bido-ne, e poi versarla con un tubo nelle brocche.

LEONARDO ROMAGNOLI

2 Robusto bastone rotondo (NdA).

Lu pantà

L’acqua ha segnato la vita di Ersilia.

Nata in una famiglia contadina la quale lavorava a mezzadria una terra senz’acqua, i suoi parenti supplivano alla mancanza del pozzo con un pan-tano che già i nonni di Ersilia avevano trovato costruito e “grande come una piazza”. Malgrado le zanzare abbondanti e micidiali specialmente in certi periodi dell’anno, tutti dipendevano dal pantano e dalla sua acqua e vi svolgevano le attività essenziali della vita quotidiana in campagna. Due volte al giorno “lu tavaccu” che si occupava della stalla portava le bestie ad abbeverarsi in vasche di cemento che riempivano con la “ramina”, rudi-mentale attrezzo fatto con un barattolo di rame munito di un manico di legno. Le donne vi lavavano i panni anche d’inverno, rompendo talvolta la lastra di ghiaccio che lo ricopriva; d’estate al riparo da canne e frasche, tutta la famiglia si faceva il bagno nel pantano. Benedivano l’acqua che, cadendo dal cielo, lo alimentava perché se si prosciugava, e capitava sovente nelle stagioni torride, il lavoro raddoppiava. In tale occasione pulivano il fondo del pantano e la vita si spostava verso il fiume Chienti. Lì le donne di casa lavavano i panni, lì portavano “all’abberata” le bestie grandi e, caricata una botte apposita su lu “virrocciu” andavano al fiume a prendere l’acqua per le galline, i maiali, i conigli e gli usi domestici essenziali. Durante tutto l’anno però l’acqua per bere e per cucinare veniva dalla fonte, distante mezzo chilometro e molto “frequentata” perché serviva parecchie famiglie, spesso in fila ad aspettare il proprio turno. Anche le bambine attingevano alla fonte con una piccola brocca, a loro dimensione, che tenevano in testa appoggiata “su lu roccio” proprio come le loro mamme.

Ersilia ci andava prima della scuola. Una volta inciampò e ruppe la brocchetta. Per ripararsi dalle botte inevitabili stette nascosta tutta la gior-nata: era grave aver mandata persa, così, una brocchetta; in più, aveva fatto mancare alla famiglia l’acqua necessaria nella giornata. All’epoca dunque

al caldo della stalla.

Ersilia aveva la pelle delle mani molto delicata, non sopportava l’acqua gelata, eppure dopo sposata dovette fare “la lavannara” per 15 famiglie di Tolentino. Lavava con ogni tempo al Chienti ed al lavatoio pubblico;

quando non ne poteva più massaggiava la pelle con qualche goccia d’olio d’oliva.

A parlare delle “fatiche” del passato, questa donna, forte, oggi esprime solo “compassione”, senza dolore o rabbia, come se tutta l’acqua con cui ha avuto a che fare si fosse messa di mezzo a creare una certa distanza.

Anni ’30

Memorie di ERSILIA BELLINI Raccolte da M.V.