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Metà anni ’50

A casa vecchia avevamo l’acqua corrente o meglio, ce l’avevamo un giorno sì e un giorno no, se andava bene. I miei dicevano che le tubature non tenevano, ma non ho mai capito se si riferivano a quelle del vecchio palazzo dove abitavamo o a quelle della rete pubblica. Qualunque fosse il motivo, rafforzava l’abitudine di mia madre di usare le brocche invece del rubinetto. Ce n’erano sempre almeno un paio piene, una sopra e una sotto l’acquaio di granella bianca e rossa, che qui da noi si chiamava u sciacqua-tore, nascoste da una tendina di stoffa a scacchetti.

Funzionava così: la mattina mia madre riempiva le brocche dal rubinet-to, se veniva l’acqua, sennò scendeva alla piazzetta sotto casa e si riforniva alla fontanella. Durante il giorno prendeva l’acqua dalla brocca posta sul lavello inclinandola sopra i vari recipienti ignorando il rubinetto. Lo apri-va solo quando le brocche erano vuote, con l’aria di chi si appresta a fare qualcosa con la curiosità di vedere come andrà a finire.

Ricordo che una sera si era incendiata la padella del fritto; mia madre la tolse dal fuoco e la pose sotto il rubinetto che prima soffiò fuori l’aria e poi buttò uno schizzo violento che ebbe il solo effetto di spandere l’olio infiammato sullo sciacquatore e sul pavimento.

Dopo essersi assicurata che io non mi fossi fatto male, si rivolse a mio padre accennando al rubinetto: “Visto che c’ho ragió a non voléllu doprà ssu diàulu?”.

MARIO BULDORINI

Tolentino

Sono stato sempre un artistu1. Abitavo, da piccolo, in Via Montecaval-lo, presso la casa dei nonni paterni, tra la fontana pubblica sita sulla stessa via nello slargo davanti ai ruderi della presunta casa di Francesco Filelfo e quella delli Cappuccì2, in fondo alla via, presso l’omonima parte romana della città.

In casa avevamo l’acqua corrente (soltanto ora, a ripensarci, mi rendo conto del privilegio) ma è vivo il ricordo dell’andare e venire della maggior parte delle famiglie, durante tutto il giorno e con ogni tipo di recipiente, per procurarsi l’acqua per ogni necessità. In particolare mi è rimasta im-pressa l’attenzione nell’approvvigionamento dell’acqua da bere che in ge-nere era eseguito dalle madri utilizzando lu broccu, la brocca, che era tenuta in equilibrio sulla testa appoggiandola sulla treccia che si formava, spesso, utilizzando lu fazzulittu de la spesa.

Tempo di guerra: avevo sei anni circa. Ricordo una lunga fila che arri-vava fino al mattatoio. Io, tenuto per mano dalla zia Gisella, in attesa per procurarci l’acqua che sgorgava da una vena all’interno delle fonti di San Giovanni.

Farsi il bagno in casa, in quel tempo, era un problema per tutti.

Ricordo che si provvedeva accuratamente ad isolare la cucina dal re-sto della casa, per riscaldarla al meglio; ricordo l’acqua messa a scallà con lu callà su lu camì e la secchia grande, posta accanto al fuoco, nella quale piangente venivo immerso. Lo sapó, fatto in casa, era spesso e duro e mi è rimasta la sgradevole sensazione del suo strofinio sulla pelle, in specie sul-la schiena.

1 Artistu (artista), nella Tolentino del passato, era chiamato, con un certo affettuoso disprezzo, l’abitante del centro cittadino da chi viveva nel territorio circostante che a sua volta, con non diversi sentimenti, dall’artistu era chiamato cuntadì (contadino) (Ndc)

2 Dei cappuccini (Ndc)

Lu fossu de Troià, per noi ragazzi de lu Castellu3, con la vegetazione che invadeva rigogliosa tutte le rote, era paragonabile alla foresta di Ro-bin Hood. Costeggiando sempre il fosso ci improvvisavamo esploratori e ci avventuravamo anche oltre il ponte a tre arcate della ferrovia. Quante scoperte! Bisce, rospi, lucertole, uccelli di ogni tipo, conigli, fiori, frutta selvatica.

Non di rado scovavamo le coe4 utilizzate dalle galline e, se le uova era-no ancora calde (signu ch’è fresche) le ciucciavamo, dopo averci praticato un bùsciu.

Lu scoju de Saracchì e lu Vallatu5 per noi tolentinati erano, in rapporto ai tempi, l’equivalente dell’attuale bungee-jumping. Fare il bagno in quei due posti era considerato un azzardo, ragion per cui essi erano frequentati dai più bravi o dai più spavaldi. A differenza di ciò che rappresenta per molti miei compagni, il Chienti per me è rimasto sempre un paradiso perduto:

l’ho frequentato raramente sia perché i miei mi proibivano severamente di andarci, sia per il brutto ricordo che mi ha lasciato l’annegamento di due miei coetanei, interni dell’Istituto Salesiano, con i quali giocavo spesso, frequentando l’oratorio come esterno.

GIUSEPPE GESUELLI

Pollenza

Le vedevo passare sotto casa dirette alla fonte, le donne: con le brocche dell’acqua vuote all’andata, piene al ritorno.

Erano gli anni difficili del dopoguerra: al mio paese poche famiglie aveva-no l’acqua in casa. Bisognava recarsi alle fontane pubbliche muniti di broc-che e callarelle 1. L’acqua scarseggiava, era erogata per alcune ore e poi tolta e si doveva quindi andare per tempo, prendere posto e aspettare a lungo.

Un po’ alla volta lo spazio intorno alla fonte si riempiva di brocche: tren-ta, quarantren-ta, forse anche di più. Le donne intanto chiacchieravano. Noi ra-gazzi non badavamo a loro: giocavamo ma tendevamo le orecchie per sen-tire la sospirata parola: “Vène!”. Allora tutti si accostavano e puntualmente iniziavano le discussioni su chi era arrivato prima, che finivano spesso in liti e insulti. Io trovavo divertenti queste proteste che in fondo non mi interes-savano; aspettavo il momento magico in cui le donne si sistemavano le broc-che più grosse sulla testa, reggendole poi senza l’aiuto delle mani, broc-che met-tevano sui fianchi per bilanciare il peso. Camminavano erette, sicure, fiere.

Erano le mie preferite, le invidiavo e non vedevo l’ora di poter fare anch’io come loro. Incominciai così a torturare mia madre perché mi comperasse una brocca per andare a prendere l’acqua.

Le richieste, a quel tempo, non erano esaudite facilmente. Ma un giorno, ecco mia madre che mi presenta una brocca tutta per me. Che delusione!

Era una piccola anfora da bambina da tenere per il manico, non si poteva mettere sulla testa. Quanti pianti! Il mio sogno era svanito.

Non sono mai andata alla fonte con quella stupida brocchetta, ma con-fesso di non essere riuscita a disfarmene. Ora sta lì, in una nicchia nel mu-ro di casa.

Dopotutto è entrata a far parte del mio vissuto.

MARIA ANGELA FRATINI 1 Contenitori di rame di dimensioni più ridotte rispetto ai callà (da qui il vezzeggiativo) di forma

circolare e panciuta. Dovevano il nome al fatto che di regola erano utilizzate per bollire l’acqua (callà è forma dialettale per caldaia) (NdC)