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Mera potestatività nel diritto societario: le clausole di mero gradimento

3. Limiti interni

3.1. Il limite della mera potestatività

3.1.1. Mera potestatività nel diritto societario: le clausole di mero gradimento

subito nel tempo diverse modifiche e ripensamenti, che hanno condotto alla regola attualmente contenuta nell’art. 2355-bis del codice civile: secondo detta previsione è consentito, anzitutto, sottoporre a condizione o, addirittura, impedire, per un periodo di tempo che non può in ogni caso eccedere i cinque anni, la possibilità di alienare il titolo; è altresì legittimo che le condizioni cui il trasferimento può essere vincolato siano fatte dipendere dalla mera volontà di un organo sociale o di altri soci, a patto che la società garantisca (al socio che desidera vendere l’azione) la possibilità di liquidare comunque il proprio investimento, tramite il riconoscimento del diritto di recesso o l’imposizione di un obbligo di acquisto delle azioni alienande a carico della società o dei suoi soci.

La normativa attuale, specie con riferimento alle clausole di mero gradimento (che sono quelle che, ai fini della presente ricerca, occorre tenere in conto), è frutto di una evoluzione giurisprudenziale e dottrinale che ha conosciuto, appunto, diverse fasi.

Il primo passaggio è costituito dalle note sentenze della Cassazione civile, n. 2365 del 15 maggio 1978118 e n. 5567 del 25 ottobre 1982119, che dichiaravano affette da

nullità tutte le clausole di gradimento che consentivano al consiglio di amministrazione di vietare il trasferimento dell’azione in ogni caso, senza limitazioni

118 La sentenza si trova pubblicata in Giur. comm., 1978, II, 639 ss., con nota di G.

CASTELLANO, Fine delle clausole di gradimento?; in Giur. comm., 1979, II, 10 ss., con nota di F.

DENOZZA, Sopravvivenza (ma entro quali limiti?) delle clausole di gradimento; in Foro it., 1979, I,

2721 ss., con nota di G. FERRI, Il nuovo corso della giurisprudenza della Cassazione in tema di

clausole di gradimento.

119 La sentenza si trova pubblicata in Dir. fall., 1983, II, 83 ss.; in Riv. not., 1983, II, 788 ss., con

nota di A.PACIELLO; in Giur. comm., 1983, II, 153 ss., con nota di G.CASTELLANO, Declino delle

e senza alcun riferimento ad elementi concreti; valida, invece, sarebbe stata quella che, a fronte di diniego del placet, anche del tutto discrezionale e senza giustificazione alcuna, avesse previsto correttivi “esterni”, tesi a garantire comunque al socio la possibilità di alienare il titolo. La posizione adottata dalla giurisprudenza veniva recepita dal legislatore in un primo momento nell’art. 22 della L. 281 del 1985, con la sola differenza che il vizio che rendeva illegittime le clausole di mero gradimento senza correttivi era qualificato in termini di inefficacia e non più di radicale nullità; il medesimo principio veniva, poi, incluso, a seguito della riforma del diritto societario, direttamente nel codice civile, che oggi non si limita più solo a regolare la fase patologica di inefficacia, ma specifica espressamente anche quali debbano essere i correttivi eventualmente adottabili dagli statuti120.

L’elaborazione dottrinale che, a fianco di detta evoluzione giurisprudenziale e normativa, si è avvicendata sul tema si rivela in questa sede utile anzitutto per comprendere cosa debba intendersi per “discrezionalità”: e così, discrezionalità (mera) esiste in tutti quei casi in cui non vi siano parametri oggettivi cui il soggetto deputato all’espressione del gradimento debba riferire o adeguare la scelta, mentre, qualora simili indicazioni siano presenti, si potrà al più parlare di discrezionalità tecnica, ossia del potere attribuito ad un organo (quale che sia) di verificare l’esistenza di requisiti richiesti dalla legge o dalla clausola statutaria. E tale

120 Individuandoli la norma nel diritto di recesso o nella previsione di un obbligo di acquisto

delle azioni a carico dei soci o della società, è oggi dubbio, in quanto non espressamente previsto dalla legge, che sia applicabile anche il rimedio dell’indicazione di un terzo acquirente gradito, da parte del soggetto che nega il placet, cui si potranno, dunque, trasferire le azioni. Sul punto, A. PAVONE LA ROSA, Brevi osservazioni in tema di limiti statutari alla

circolazione delle azioni, in Riv. soc., 1997, 644, esprimeva perplessità, in quanto la possibilità di indicare un terzo gradito alla società quale acquirente avrebbe potuto essere strumentalmente usata dagli amministratori per far acquistare le azioni al socio di maggioranza, consentendogli di aumentare la sua influenza sulla società o, comunque, come espediente tramite cui il gruppo di controllo avrebbe potuto accrescere a piacimento la propria partecipazione; V. MELI, Sub art. 2355-bis c.c., in Società di Capitali, Commentario, a cura di G. Niccolini, A. Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, 343 non dubita, invece, della possibilità di proporre un acquirente alternativo, purchè il correttivo sia posto in termini di certezza dell’acquisto alternativo.

conclusione non risulta scevra da conseguenze se già solo si considera che, qualora si verifichino irregolarità all’esito del processo di espressione del gradimento, nel caso di discrezionalità tecnica, oggetto di contestazione dovrebbe essere la delibera che ha erroneamente giudicato sulla presenza dei requisiti richiesti dalla clausola; nel caso di discrezionalità mera, invece, il vizio risiederebbe a monte in un potere che, in quanto senza limiti, potrebbe pure ritenersi correttamente esercitato, ma è certamente ab origine illegittimamente attribuito.

Per quanto, poi, specificamente riguarda il voto sottoposto a condizione, già nelle pagine precedenti e specie in relazione ai limiti a vario titolo imposti dal rispetto del principio di parità di trattamento, si era arrivati (pur per motivi differenti) a concludere per la necessità di inserire in statuto clausole condizionanti la possibilità di esercitare il voto che, dovendosi potenzialmente realizzare in maniera eguale per tutti gli aderenti alla compagine, dovessero necessariamente essere ancorate ad un qualche parametro. Si giunge, quindi, allo stesso risultato al quale la norma mira, per cui la decisione sulla spettanza del diritto non può essere affidata unicamente alla volontà di un soggetto o di un organo sociale.

Sulla base di queste argomentazioni, non pare, allora, potersi revocare in dubbio la legittimità della clausola che imponga dei limiti quantitativi al possesso azionario, o incidenti solo sul diritto di voice (nella forma dei tetti di voto di cui all’art. 2351, c. 3 c.c.) o in toto sul riconoscimento dei diritti sociali collegati al titolo (nel momento in cui sia impedita l’annotazione nel libro soci della titolarità di azioni che eccedano un dato limite): se, infatti, il superamento del limite imposto dalla clausola statutaria dipende dalla mera volontà dell’azionista che acquista titoli eccedenti, è pur vero che detta soglia è fissata preliminarmente e in maniera oggettiva per tutti coloro che ad essa sono sottoposti.

Se le considerazioni svolte sinora appaiono del tutto sovrapponibili per i due istituti oggetto di indagine, dove invece divergono in maniera significativa è sul piano della possibile presenza o meno di correttivi tesi a rendere legittima l’espressione di una mera potestatività.

ritenuta illegittima per le ragioni “civilistiche” dell’impossibilità di far dipendere un diritto dalla mera volontà di un altro soggetto, ma perché avrebbe finito per imporre, di fatto, sulla partecipazione un vincolo assoluto di intrasferibilità (considerato incompatibile con la natura stessa dell’investimento in società per azioni), dal momento che il soggetto deputato ad esprimere il placet avrebbe potuto negarlo perpetuamente e senza giustificazione alcuna121; e infatti, la clausola torna ad essere

legittima, come già evidenziato, in presenza di correttivi che consentano comunque al socio di liquidare la propria partecipazione. Ovviamente, detti correttivi sono da ritenersi sufficienti una volta che si constati (e condivida) che il soggetto da tutelare, tramite un rimedio alternativo, sia solo l’alienante nel suo diritto a disinvestire e liberarsi dalla partecipazione e nella correlativa garanzia di non rimanere per sempre “prigioniero” della società, e non anche l’acquirente, che pure abbia un qualche interesse ad entrare nella compagine122; nel caso, poi, di loro mancata previsione o

malfunzionamento, la clausola di mero gradimento torna ad essere viziata e, quindi, inefficace123.

Nel caso, invece, dei limiti al diritto di voto, il senso della mera potestatività parrebbe proprio, più coerentemente con quanto la legge prevede per il diritto generale dei contratti124, quello di evitare che la sussistenza o privazione stessa del

diritto possa essere rimessa unicamente alla futura determinazione volitiva di un

121 A.BLANDINI, Le azioni a voto limitato, cit., 474 e nt pagina.

122 Cfr. ancora L.STANGHELLINI, I limiti statutari alla circolazione delle azioni, cit., 42 ss. e A.

BORGIOLI, Le clausole di gradimento, cit., 39 ss.

123 La conseguenza dell’inefficacia della clausola si risolve nella caducazione di qualsivoglia

limite al trasferimento; in alternativa, la dottrina prospetta l’applicabilità dell’art. 2932 c.c., ossia dell’esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto. In questo senso cfr. N. ABRIANI, Le azioni e gli altri strumenti finanziari, in Le società per azioni, in Trattato di diritto

commerciale, vol. IV, t. 1, Padova, 2010, 378; M. MALTONI, La clausola di mero gradimento

«all'italiana», in Riv. not., 2004, 1381 ss.; G.G. SALVATI, I limiti statutari alla circolazione delle

azioni. Il diritto al disinvestimento, Padova, 2011, 164 ss.

124 Sull’istituto della condizione di cui agli artt. 1353 ss. c.c., senza pretesa di completezza, cfr.

A.FALZEA, La condizione e gli elementi dell'atto giuridico, Milano, 1941; ID., Condizione (dir. civ.),

in Enc. giur. Treccani, VII, Roma, 1988, 7; D. CARUSI, Condizione e termini, in Trattato del

dato soggetto125. Di là da quanto già esposto sopra riguardo all’inadeguatezza del

corpus normativo pensato per il contratto bilaterale a regolare il contratto associativo, non vi è chi non noti che, nel sistema del diritto societario, una previsione siffatta sembri ancor più curiosa ed inattesa, tanto più qualora si consideri che, potendo esistere azioni del tutto prive del diritto di voto, conferire detto diritto, pur in dipendenza dalla mera volontà di un organo, risulterebbe comunque un quid pluris: non parrebbe, allora, così irragionevole pensare di mettere in discussione la presenza stessa del limite della mera potestatività126. È pure vero, tuttavia, che, nel caso delle

azioni prive del diritto di voto, l’azionista sceglie liberamente, non sottostando ad alcuna volontà se non la propria, di sottoscrivere quel dato tipo di titolo mentre, nel caso di condizione meramente potestativa, il suo diritto di voice sarebbe in balia delle decisioni di un altro soggetto. L’interpretazione “conservativa” del dato normativo pare, dunque, la più opportuna: il mantenimento del limite della mera potestatività, del resto, da un lato impedisce che un singolo soggetto od un organo collettivo possano incidere in senso modificativo sugli assetti proprietari della società127 e,

dall’altro, che si addivenga, pur indirettamente, all’alterazione della ripartizione di competenze stabilita dalla legge, assegnando al soggetto incaricato dell’espressione del placet la competenza a determinare, di fatto, il contenuto, in termini di diritti (di voto), delle categorie di azioni di cui all’art. 2351 c.c. (che, invece, come ogni altra

125 Riconducono ed assimilano la condizione apposta al diritto di voto a quella apposta ai

contratti A. MAFFEI ALBERTI, Sub art. 2351 c.c., in Commentario breve al diritto delle società,

Padova, 2017, 383 ss.; F.MAGLIULO, Le categorie di azioni, cit., 95; P.ABBADESSA, Le azioni a voto

plurimo: profili di disciplina, in Impresa e mercato, Studi dedicati a Mario Libertini, vol. I, a cura di V. Di Cataldo, V. Meli, R. Pennisi, Milano, 2015, 9; A. COLAVOLPE, Azioni e altri strumenti partecipativi, cit., 103 ss.

126 A.BLANDINI, Le azioni a voto limitato, cit., 473; A.ANGELILLIS,M.L.VITALI, Sub art. 2351 c.c.,

cit., 423.

127 E così, se anche prima facie non si potrebbe individuare alcun problema in una condizione

sospensiva meramente potestativa che assegnasse agli amministratori il potere indiscriminato di conferire il voto ad un gruppo di azionisti che fino a quel momento ne erano privi, comportando un simile atto una modifica in senso migliorativo dei diritti di quella data categoria di soci, non si può, appunto, al contrario non osservare che una clausola siffatta consegnerebbe all’organo amministrativo un’egemonia illimitata sugli assetti proprietari e sugli equilibri di potere e necessari a raggiungere il controllo dell’assemblea.

modifica del contratto sociale, spetta all’assemblea straordinaria ai sensi dell’art. 2369, c. 5, c.c.).