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MESOPOTAMIA INANNA

Nel documento MITOLOGIA GRECA VELLO D ORO (pagine 85-174)

Inanna (anche Inana; cuneiforme sumerico: , dIN.AN.NA, forse con il significato di "Signora Cielo"[1], anche dMÚŠ[2] con il significato di "Splendente"; in dialetto emesal: gašan.an.na) è la dea sumera della fecondità, della bellezza e dell'amore, inteso come relazione erotica (con l'epiteto di nu.gig, inteso come "ierodula") piuttosto che coniugale[3]; successivamente assimilata alla dea accadica, quindi babilonese e assira, Ištar (anche Eštar).

Inanna/Ištar è la più importante divinità femminile mesopotamica[4].

La più antica attestazione del nome di questa divinità è riscontrabile nelle tavole di argilla rinvenute nell'antico complesso templare dell'Eanna (Uruk), e risalenti ai periodi tardo Uruk-Gemdet Nasr, quindi intorno al 3400-3000 a.C., risultando i segni più antichi come pittogrammi,

mentre i più recenti sono riportati in modo più astratto[5].

La Lista degli dèi di Fara riporta il suo nome dopo quello di An e di Enlil e prima di quello di Enki[6], comunque sia, le fonti pre-sargoniche non sembrano prestare particolare attenzione

a questa divinità.

Genealogia

La principale tradizione sumerica (città di Uruk) la vuole figlia del dio Cielo An (in questo contesto assume il titolo di nu.gig.an.na ("ierodula di An"). Un'altra tradizione (città di Isin) la vuole invece figlia del dio Luna Nanna e sorella gemella del dio del Sole Utu[7].

Particolarità

Bellissime sono le poesie d'amore scritte da Inanna e rivolte al proprio amore e promesso sposo Dumuzi. Ella dona agli abitanti di Uruk, la città di cui è protettrice, i Me sottratti a Enki

con un inganno (lo fece ubriacare dopo averlo sedotto con la sua bellezza), in modo che gli uomini possano vivere in prosperità e benessere.

I me sono, nella mitologia sumera, delle forze impersonali che concorrono, insieme con gli Dei, a garantire l'ordine dell'universo.

I me definiscono energie, stati o azioni create da forze Divine, capaci di mantenersi in esistenza ed in moto continuo grazie ad una forza propria, indipendente ed a sé stante. Hanno origine divina, e descrivono le regole e le leggi divine che stanno a fondamento dell'uomo, del suo divenire e della sua civiltà.

I me erano circa cento, ma a causa dello stato di conservazione non sempre perfetto delle testimonianze a noi giunte, siamo in grado di elencarne solo meno di 70.

I me non sono delle regole di vita; rappresentano quell'insieme di caratteristiche che rendono il mondo quello che è. Come si vedrà infatti, essi sono indifferentemente positivi e negativi;

non vogliono definire un comportamento morale, ma riunire in sé tutto ciò che costituisce l'essenza stessa delle cose e degli uomini.

Essi sono:

• La sovranità

• La divinità

• La corona sublime e permanente

• Il trono reale

• Lo scettro sublime

• Le insegne reali

• Il sublime santuario

• La dignità di Pastore

• La regalità

• La Signoria durevole

• La Signora divina (dignità sacerdotale)

• L'Ishib (dignità sacerdotale)

• Il Lumah (dignità sacerdotale)

• Il Gutig (dignità sacerdotale)

• La Verità

• La discesa agli inferi

• La risalita dagli inferi

• Il Kurgarru (sorta di eunuco)

• Il Girdabara (sorta di eunuco)

• Il Sagursag (sorta di eunuco)

• Il vessillo delle battaglie

• Il diluvio

• Le armi (?)

• I rapporti sessuali

• La prostituzione

• La Legge (?)

• La calunnia (?)

• L'Arte

• La Sala del culto

• Lo Ierodulo del cielo

• Il Gusilim (strumento musicale)

• La musica

• La funzione di anziano

• La qualità di Eroe

• Il potere

• L'ostilità

• La rettitudine

• La distruzione delle città

• La lamentazione

• Le gioie del cuore

• La menzogna

• Il paese ribelle

• La bontà

• La giustizia

• L'arte di lavorare il legno

• L'arte di lavorare i metalli

• La funzione di scriba

• Il mestiere di fabbro

• Il mestiere di conciacapelli

• Il mestiere di muratore

• Il mestiere di panieraio

• La saggezza

• L'attenzione

• La purificazione sacra

• Il rispetto

• Il terrore sacro

• Il disaccordo

• La pace

• La fatica

• La vittoria

• Il consiglio

• Il cuore turbato

• Il giudizio

• La sentenza del giudice

• Il Lilis (strumento musicale)

• L'Ub (strumento musicale)

• Il Mesi (strumento musicale)

• L'Ala (strumento musicale)

Dopo la perdita del suo innamorato divenne una seduttrice di uomini e di dei: nella saga di Gilgamesh, questi rifiuta le sue profferte di sesso, rinfacciandole che nessun uomo è rimasto vivo fino all'indomani mattina, dopo avere giaciuto

con lei nella notte.

La discesa di Inanna agli inferi

Il testo più lungo e complesso su Inanna giunto fino a noi è il poema La discesa di Inanna,

conosciuto per la maggior parte da tavolette rinvenute negli scavi archeologici eseguiti tra il 1889 e il 1900 sulle rovine della città di Nippur, nel sud della Mesopotamia (attuale Iraq).

Il mito narra come Inanna scenda nell'oltretomba (ma il testo superstite non fornisce la ragione del viaggio). Prende con sé sette Me (personificati come accessori e capi di vestiario della dea), parte con la fida ancella Ninshubur e bussa alle porte della "Terra" (termine con cui comunemente viene identificato l'oltretomba). Le viene chiesto da parte di Neti, il custode, il motivo di un tale viaggio. Inanna spiega che è venuta per rendere omaggio a sua sorella Ereshkigal, signora dell'oltretomba, e a portarle le sue condoglianze per la morte di Gugalanna, suo marito, il "toro del cielo" (ucciso da Gilgameš nell'epopea legata all'eroe). Viene fatta entrare sola e passa attraverso sette porte, ove le vengono sottratti progressivamente i Me. Infine, nuda, viene introdotta davanti a Ereshkigal e agli Anunnaki (i giudici degli inferi in questa versione del mito), che la condannano e la mettono a morte. Ninshubur va a chiedere aiuto per la padrona e la sua supplica trova ascolto presso Enki. Il dio modella con lo "sporco" tratto da sotto le sue unghie due creature "né femmina né maschio" (che non potendo generare, non sono soggette al potere della morte): Kurgarra e Galatur. Costoro volano nell'oltretomba e circuiscono Ereshkigal con le loro lusinghe fino a che ella non promette loro come premio qualunque cosa vogliano. I due chiedono il cadavere di Inanna e, avutolo, fanno risorgere la dea aspergendola del cibo e dell'acqua della vita.

Inanna però non può tornare dagli inferi senza fornire qualcuno che la sostituisca. I Galla (demoni del destino) le propongono diversi sostituti: Ninshubur, i suoi due figli Shara e Lulal, ma la dea rifiuta di condannare a morte queste persone rimastele fedeli anche nel periodo della sua morte.

Per ultimo, la conducono dal suo sposo Dumuzi. Dumuzi viene sorpreso mentre siede soddisfatto sul suo trono, sfoggiando ricche vesti, senza portare il lutto per Inanna. Presa dall'ira, Inanna lo consegna ai Galla. Dumuzi riesce a fuggire per opera del dio Utu, ma viene ripreso dopo

un lungo inseguimento e condotto agli inferi. La sorella di Dumuzi, Geshtinanna, va alla sua ricerca e le sue lacrime impietosiscono Inanna, che decide di accompagnarla. La dea e la mortale vagano a lungo, finché una "mosca sacra" (sorta di deus ex machina) dice loro dove si trova Dumuzi:

in Arali, luogo di confine tra il mondo degli uomini e gli inferi, dove viene raggiunto infine da Inanna e Geshtinanna. Tuttavia, per la legge dell'oltretomba, Dumuzi e Geshtinanna devono risiedere a turno per metà dell'anno nel regno di Ereshkigal.

Il mito è generalmente interpretato come una raffigurazione del ciclo della vegetazione.

Dumuzi (divinità della fertilità), giace per sei mesi con Inanna (che rappresenta la potenza della generazione) e per sei mesi con la sorella "oscura" di lei, Ereshkigal (il letargo invernale, rappresentato simbolicamente dalla morte). Il dualismo Dumuzi-Geshtinanna viene messo in relazione con l'alternarsi stagionale dei frutti della terra (le messi per Dumuzi e la vite per Geshtinanna).

Non mancano peraltro le interpretazioni del mito in chiave psicoanalitica. In questa accezione, la discesa di Inanna è spiegata con la necessità per la psiche di confrontarsi con il proprio "lato oscuro" (Ereshkigal), connesso all'istintualità cieca e alla distruttività (la "pulsione di morte"

di Freud), per raggiungere l'equilibrio e la completezza.

GHILGAMESH

L'epopea di Gilgameš appartiene all'intera cultura mesopotamica, ovvero della Mezzaluna Fertile, non solo quindi alle sue originarie culture sumerica e assiro-babilonese (questa in lingua

accadica). Testimonianza di questo fatto è il rinvenimento in più lingue, oltre il sumerico e l'accadico, di questa epopea: dall'ittita, al ḫurrita, all'elamita. Rinvenimenti che hanno inoltre riguardato non solo l'antico territorio della Mesopotamia ma si sono spinti anche in Anatolia e nell'area della Siria-Palestina.

Le epopee sumeriche

Sono cinque le epopee in lingua sumerica che narrano le imprese del re di Uruk, Gilgameš.

Generalmente questi poemi sono attribuiti alle corti della III dinastia di Ur (XX secolo a.C.) i cui sovrani rivendicano l'antica regalità della città di Uruk e il legame con Gilgameš[27].

Gilgameš e Agga

Questo testo (sumerico: ; Gli inviati di Agga, il figlio di Enmebaragesi) ricostruito in 115 righe proviene dalla Biblioteca di Nippur. Probabilmente è l'epopea più storica trattando della guerra tra la città di Uruk e la città di Kiš, governata quest'ultima da Agga, il figlio di Enmebaragesi così come vuole la Lista Reale Sumerica.

Il poema incomincia con l'arrivo a Uruk di un'ambasceria da parte della città di Kiš con l’obiettivo di imporre alla città governata da Gilgameš il compito di irrigare l'area meridionale

della Mesopotamia. Gilgameš convoca quindi l'assemblea degli anziani e, successivamente, quella dei giovani guerrieri, per decidere se sottomettersi al diktat di Agga oppure provocare la guerra. Gli anziani si risolvono per la pace, mentre i giovani guerrieri reclamano la guerra e l'indipendenza della città di Uruk.

Gilgameš segue quindi il consiglio dei giovani e rigetta la proposta degli ambasciatori. L'esito dell'ambasceria costringe Agga a riunire il suo esercito assediando Uruk. La popolazione

di quest'ultima città è spaventata a tal punto da costringere Gilgameš a inviare un ambasciatore, nella figura del suo servo Birḫurte, per trattare con Agga. Ma il servo di Gilgameš appena catturato viene picchiato; a questo punto dalle mura di Uruk si sporge Zabardab, il generale a capo

delle difese di Uruk che Agga ritiene possa essere Gilgameš in persona. Ma Birḫurte gli spiega che qualora fosse stato il re di Uruk il suo esercito alla sola vista ne sarebbe rimasto sconvolto. Subito dopo compare sulle mura di Uruk, Gilgameš nel suo splendore divino, allora Enkidu,

l'altro servitore del re di Uruk, esce dalla città assediata proclamando la presenza del suo re.

Lo splendore e il nome divino di Gilgameš atterrisce le armate nemiche che cadono sconfitte alla sua sola vista, e Gilgameš, magnanimo rimanda alla sua città Kiš il re Agga.

Nelle righe 85-89 viene così riportata l'apparizione splendente del dio Gilgameš.

(IT)

«gli Anziani e i giovani di Kullab furono avviluppati dal suo terribile splendore i giovani uomini di Uruk, i guerrieri impugnarono le mazze della battaglia;

si disposero per strada all'entrata della porta della città.

Enkidu da solo fuori dalla porta e Gilgameš si sporse dalle mura.»

Da notare infatti che Gilgameš viene presentato col segno determinativo della divinita:

d (cuneiforme: , accadico ). Il suo "terribile splendore" (sumerico: melam, meli(m); accadico:

melammû, melummum, cuneiforme: ) è proprio di un dio.

Gilgameš e Ḫubaba

Di questa epopea (segnatamente della versione "lunga" di Nibru/Nippur, in sumerico: en-e kur lu2 til3-la-še3ĝeštug2-ga-ni na-an-gub; Il signore decise di muoversi verso la montagna che dà la vita all'uomo) disponiamo di due versioni: una lunga 202 righe risalente alla città di Nippur, l'altra più breve, di circa 157 righe, rinvenuta a Me Turan. Le copie rinvenute sono numerose (più di ottanta) a dimostrazione di quanto questo racconto fosse diffuso tra i sumeri, fatto dimostrato anche

dal rinvenimento in più città, oltre Nippur e Me Turan, anche Isin, Kiš, Sippar e Ur ne hanno infatti restituito dei frammenti (rinvenuti persino nella città, oggi iraniana, di Susa). A differenza

dell'epopea precedentemente descritta, Gilgameš e Agga, questa epopea è stata raccolta,

segnatamente dalla Tavola II alla Tavola V, nella successiva "versione classica babilonese", opera dello scriba ed esorcista cassita Sîn-lēqi-unninni. Tale racconto è presente anche nei frammenti delle epopee paleobabilonesi e in quella ittita.

L'opera si apre con l'intenzione manifestata dal re Gilgameš (anche in questi testi indicato con il determinativo d proprio della divinità) di recarsi presso la "montagna (kur, cuneiforme: 𒆳) che dà la vita (til3, cuneiforme: ) all'uomo" (lu2, cuneiforme: ), questo per rendere immortale il proprio nome.

Enkidu, servitore fedele di Gilgameš, lo consiglia di conferire con il dio Sole, Utu. Gilgameš offre quindi un capretto bianco e uno striato a Utu, chiedendo al dio di accompagnarlo nel suo cammino, il dio Sole gli domanda le motivazioni del suo viaggio, allora il re di Uruk significativamente

gli risponde:

(IT)

«"O Utu, io ti voglio parlare, presta ascolto alle mie parole; Io mi voglio rivolgere a te, prestami attenzione.

Nella mia città si muore, il cuore è oppresso;

i miei cittadini muoiono, il cuore è prostrato.

Io sono salito sulle mura della mia città

e ho visto i cadaveri trasportati dalle acque del fiume;

e io, pure io sarò così? Certo pure io!

L'uomo, per quanto alto egli sia, non può raggiungere il cielo, l'uomo, per quanto grasso egli sia, non può coprire il Paese;

nessun uomo l'ha (finora) avuta vinta sull'eccelso "mattone della vita"

Io voglio entrare nella Montagna, voglio porre colà il mio nome;

nel luogo dove ci sono già gli steli, voglio porre il mio nome;

nel luogo dove non ci sono gli steli, voglio porre il nome degli dèi.»

È evidente in questo passaggio di questa epopea sumerica che ciò che spinge Gilgameš

ad affrontare questo viaggio pericoloso sia il tema della "morte", del "morire" (sumerico: uš2, úš;

cuneiforme: ) evento superabile solo attraverso il rendere imperituro il proprio nome.

Il dio Sole Utu accoglie la richiesta di Gilgameš e gli invia sette esseri divini che, unitamente a cinquanta giovani guerrieri di Uruk e al fedele Enkidu, lo accompagneranno nel pericoloso sentiero della "Montagna che dà la vita".

Il terribile guardiano della Montagna, Ḫubaba (anche, e indifferentemente, Ḫumbaba o Ḫuwawa) li vede arrivare e invia loro un raggio potente che li fa addormentare. Ma il fedele Enkidu

si sveglia, e visto il re addormentato, cerca di destarlo senza però riuscirvi, finché, dopo averlo massaggiato con dell'olio, questi si alza.

Gilgameš è sempre deciso a raggiungere Ḫubaba e, nonostante il servo Enkidu lo sconsigliasse, incede insieme con Enkidu, dopo averlo convinto a seguirlo, verso il guardiano. L'incontro tra il re di Uruk e il guardiano della "Montagna che dà la vita" non è breve: Ḫubaba vuole uccidere

Gilgameš ma, convinto da quest'ultimo, gli cede i propri terribili poteri in cambio delle due sorelle del re, come moglie, la prima (Enmebaragesi), e concubina, la seconda (Peštur),

oltre che per dei sandali, grandi e piccoli. Gilgameš riesce a ottenere in questo modo i sette terrori (sumerico: ni2, cuneiforme:) di Ḫubaba. Spogliato dai suoi poteri, Ḫubaba diviene alla mercé del re di Uruk che prima lo percuote e poi lo lega. Il guardiano, fatto prigioniero, invoca il dio Utu e chiede clemenza a Gilgameš che sta per concedergliela quando Enkidu, duramente apostrofato

da Ḫubaba, gli taglia la testa. A questo punto i due eroi si recano alla presenza del re degli dèi Enlil. Messo a conoscenza della vicenda, Enlil li redarguisce duramente per il destino inflitto al guardiano della Montagna, decidendo di distribuire i terrori di Ḫubaba per tutta la terra.

Gilgameš e il Toro celeste

Di questa epopea (segnatamente della versione di Me-Turan, in sumerico: šul kam šul me3!-kam in-du-ni ga-an-dug4; Dell'eroe in battaglia, dell'eroe in battaglia, io voglio intonare il canto) conserviamo due versioni, una lunga 140 righe, rinvenuta a Me-Turan, è un'altra più lunga da Nippur. Tale epopea è stata ripresa nella successiva "versione classica babilonese", opera dello scriba ed esorcista cassita Sîn-lēqi-unninni, segnatamente alla Tavola VI, anche se, e questo va subito evidenziato, con una decisa differenza nelle motivazioni che spingono la dea Innana a recarsi da suo padre, il dio della volta celeste, An, per chiedergli di inviare sulla terra

il "Toro celeste" (sumerico: gu4-an-na).

Dopo un avvio poetico sulla figura di Gilgameš, l'epopea introduce la dea Inanna che dal parapetto del suo tempio, l'E-anna, indirizza queste parole al re di Uruk:

(IT)

«"Mio toro, mio uomo, non ti consentirò di agire a piacimento Gilgameš non ti consentirò di agire a piacimento

io non ti permetterò di esercitare giustizia nel mio Eanna»

Giovanni Pettinato[28] ritiene che questa intimazione della dea inerisca al fatto che il re Gilgameš intende porre sotto la sua giurisdizione il tempio e il personale dedicato alla dea Inanna mentre la dea non intende accettare questo sconfinamento.

E dopo le insistenze di Gilgameš, la dea si reca al cospetto di An, padre degli dèi e dio Cielo, per chiedere che invii sulla terra il temibile "Toro celeste" affinché uccida Gilgameš. Dapprima An si rifiuta di assecondare le richieste di Inanna ma dopo che ella incomincia a emettere un grido che potrebbe far riavvicinare il Cielo alla Terra si decide a concederle il "Toro celeste" il quale, giunto sulla Terra, procura devastazioni nel regno di Gilgameš. Il re di Uruk quindi lo affronta e lo uccide. Nella versione di Me-Turan (rigo 130 e segg.) la vicenda epica si conclude con Gilgameš che lancia all'indirizzo di Inanna, che fugge, una coscia del Toro divino appena ucciso.

Gilgameš, Enkidu e gli Inferi

Questa epopea sumerica (segnatamente la versione di Nibru/Nippur, in sumerico: ud re-a ud su3-ra2 re-a; lett. In quei giorni, in quei giorni lontani) è stata ricostruita grazie alla disponibilità

di trentasette documenti. Parte di questa è stata tradotta in accadico nella XII Tavola

della "versione classica babilonese", opera dello scriba ed esorcista cassita Sîn-lēqi-unninni.

L'avvio del poema è di tipo "cosmogonico" quando il Cielo (an) si separa dalla Terra (ki), l'umanità viene creata, An diviene il dio Cielo, Enlil diviene il re degli dèi e governatore della Terra, la dea Ereškigal soprintende agli inferi. Enki, il dio dell'abisso delle acque dolci intraprende un viaggio su una nave verso la Montagna che dà la vita, il Kur.

(IT)

«In quei giorni, in quei giorni lontani, in quelle notti, in quelle notti lontane, in quegli anni, in quegli anni lontani,

nei tempi antichi, quando ogni cosa venne alla luce;

nei tempi antichi, quando ogni cosa "utile" fu procurata;

quando nel tempio del Paese, pane fu gustato;

quando il forno del Paese venne acceso;

quando il cielo fu separato dalla terra;

quando la terra fu separata dal cielo;

quando l’umanità fu creata.

quando An prese per sé il cielo quando Enlil prese per sé la Terra

e a Ereškigal, in dono, furono dati gli Inferi;

quando egli salpò, quando egli salpò con la nave;

quando il padre salpò per il Kur, quando Enki salpò per il Kur

allora contro il re le piccole pietre si abbattono contro Enki le grandi pietre si abbattono, - le piccole pietre sono le pietre della mano,

le grandi pietre sono le pietre che fanno danzare le canne-»

La nave di Enki fa tuttavia naufragio durante una tempesta che sradica l'albero ḫalub (ha-lu-ub2;

cuneiforme: ), che viveva isolato sulle rive del fiume Eufrate, trascinandolo via. La dea Inanna raccoglie l'albero con l'intenzione di farlo crescere nel giardino del suo tempio, l'E-anna a Uruk, per poi trarne, dal suo legno, un trono e un letto.

Ma l'albero ḫalub (huluppu), piantato nel giardino dell'E-anna, viene infestato da tre esseri demoniaci: tra le radici un serpente (muš, cuneiforme: 𒈲), che non teme incantesimi (tu6);

tra i rami l'uccello, l'Anzu (sumerico: an-zu-ud2mušen; cuneiforme: ), che vi alleva i suoi piccoli;

nel tronco si cela la vergine-spettro (sumerico: lil2-la2-ke4, accadico: lilitû; Lilith; lil2: spettro, fantasma, cuneiforme: 𒆤).

(IT)

«Nelle sue radici un serpente che non teme magia, vi aveva fatto il nido, nei suoi rami l'uccello Anzu vi aveva deposto i suoi piccoli;

nel suo tronco la vergine-fantasma vi aveva costruito la sua casa»

Inanna chiede quindi aiuto al fratello, il dio Sole (Utu) che però non gli presta ascolto. Allora la dea si rivolge a Gilgameš, il quale armatosi affronta i tre esseri demoniaci cacciandoli. Consegnato l'albero ḫalub alla dea, trattiene per sé le sue radici che trasforma in pukku (tamburo), e i suoi rami traendone il mekku (le bacchette del tamburo)[29].

Impadronitosi di questo strumento musicale, costringe i giovani di Uruk a danzare al suo ritmo, sfinendoli. Giunta la sera, posa lo strumento, ma il pukku e il mekku precipitano negli Inferi.

Il fedele servitore Enkidu si offre di scendere nell'oltretomba per recuperare gli strumenti del suo re. Gilgameš accetta l'offerta del servitore, ma lo avverte di non indossare un vestito pulito

Il fedele servitore Enkidu si offre di scendere nell'oltretomba per recuperare gli strumenti del suo re. Gilgameš accetta l'offerta del servitore, ma lo avverte di non indossare un vestito pulito

Nel documento MITOLOGIA GRECA VELLO D ORO (pagine 85-174)

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