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ORFEO ED EURIDICE

Nel documento MITOLOGIA GRECA VELLO D ORO (pagine 72-79)

Orfeo (in greco antico: Ὀρφεύς, Orphéus; in latino: Orpheus) è un personaggio della mitologia greca[4].

Il nome di Orfeo è attestato a partire dal VI secolo a.C., ma, secondo Mircea Eliade, «non è difficile immaginare che sia vissuto 'prima di Omero'»[5]. Si tratta dell'artista per eccellenza, che dell'arte incarna i valori eterni[6], ma anche di uno «sciamano, capace di incantare animali e di compiere il viaggio dell'anima lungo gli oscuri sentieri della morte»[7], fondatore dell'Orfismo. I molteplici temi chiamati in causa dal suo mito - l'amore, l'arte, l'elemento misterico - sono alla base di una fortuna senza pari nella tradizione letteraria, filosofica, musicale, culturale e scultorea dei secoli successivi.

Il primo riferimento a noi pervenuto sulla figura di Orfeo è nel frammento 25 del lirico greco Ibico vissuto nel VI secolo a.C., nel quale appare già "famoso"[9]. Attorno alla sua figura mitica, capace di incantare persino gli animali[11], si assesta una tradizione che non gli attribuisce un normale modo di fare musica, bensì la psychagogia, che si estende alle anime dei morti. Il papiro

di Derveni, trovato negli anni 1960 vicino Salonicco, offre un'interpretazione allegorica di un poema orfico non a caso in concomitanza con un rituale per placare i morti[12].

Associato alla figura di Dioniso, divorato dai Titani con i quali rappresenta, da un lato la componente dionisiaca della vita –ossia l'elemento divino o "anima"– e dall'altro il corpo mortale, Orfeo è la figura centrale dell'Orfismo, una tradizione religiosa che, per prima nel mondo occidentale, introduce la nozione di dualità fra corpo mortale e anima immortale[13].

"Orfeo e gli animali"; mosaico romano d'età imperiale (Palermo, Museo archeologico).

Le origini[modifica | modifica wikitesto]

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Secondo le più antiche fonti Orfeo è nativo della città di Lebetra in Tracia, situata sotto

la Pieria[14], terra nella quale fino ai tempi di Erodoto era testimoniata l'esistenza di sciamani che fungevano da tramite fra il mondo dei vivi e dei morti, dotati di poteri magici operanti sul mondo della natura, capaci tra l'altro di provocare uno stato di trance tramite la musica.

Figlio della Musa Calliope e del sovrano tracio Eagro (o, secondo altre versioni meno accreditate, del dio Apollo), appartiene alla generazione precedente degli eroi che parteciparono alla guerra di Troia, tra i quali ci sarebbe stato il cugino Reso. Secondo un'altra versione Orfeo fu il sesto discendente di Atlante e nacque undici generazioni prima della guerra di Troia[14].

Egli, con la potenza incantatrice della sua lira e del suo canto, placava le bestie feroci e animava le rocce e gli elementi della natura. Gli è spesso associato, come figlio o allievo, Museo.

Orfeo fonde in sé gli elementi apollineo e dionisiaco: come figura apollinea è il figlio o il pupillo del dio Apollo, che ne protegge le spoglie, è un eroe culturale, benefattore del genere umano, promotore delle arti umane e maestro religioso; in quanto figura dionisiaca, egli gode

di un rapporto simpatetico con il mondo naturale, di intima comprensione del ciclo di decadimento e rigenerazione della natura, è dotato di una conoscenza intuitiva e nella vicenda stessa vi sono evidenti analogie con la figura di Dioniso per il riscatto dagli Inferi della Kore.

La letteratura, d'altra parte, mostra la figura di Orfeo anche in contrasto con le due divinità:

la perdita dell'amata Euridice sarebbe da rintracciarsi nella colpa di Orfeo di aver assunto prerogative del dio Apollo di controllo della natura attraverso il canto; tornato dagli Inferi, Orfeo abbandona il culto del dio Dioniso rinunciando all'amore eterosessuale. In tale contesto

si innamora profondamente di Calaide, figlio di Borea, e insegna l'amore omosessuale ai Traci.

Per questo motivo, le Baccanti della Tracia, seguaci del dio, furenti per non essere più considerate dai loro mariti, lo assalgono e lo fanno a pezzi (vedi: Fanocle). Nella versione del mito contenuta nelle Georgiche di Virgilio la causa della sua morte è invece da ricercarsi nell'ira delle Baccanti per la sua decisione di non amare più nessuno dopo la morte di Euridice.

Le imprese di Orfeo e la sua morte

Le ninfe ritrovano la testa di Orfeo (1900) di William Waterhouse.

Secondo la mitologia classica, Orfeo prese parte alla spedizione degli Argonauti: durante la spedizione Orfeo diede innumerevoli prove della forza invincibile della sua arte, salvando la truppa in molte occasioni; con la lira e con il canto fece salpare la nave rimasta inchiodata nel porto di Jolco, diede coraggio ai naviganti esausti a Lemno, placò a Cizico l'ira di Rea, fermò le rocce semoventi alle Simplegadi, si fece amica Ecate, addormentò il drago e superò la potenza ammaliante delle sirene.

La sua fama è legata però soprattutto alla tragica vicenda d'amore che lo vide unito alla Driade Euridice, che era sua moglie: Aristeo, uno dei tanti figli di Apollo, amava perdutamente Euridice e, sebbene il suo amore non fosse corrisposto, continuava a rivolgerle le sue attenzioni fino a che un giorno ella, per sfuggirgli, mise il piede su un serpente, che la uccise col suo morso. Orfeo, lacerato dal dolore, scese allora negli inferi con la sua inseparabile lira per riportarla in vita.

Raggiunto lo Stige, fu dapprima fermato da Caronte: Orfeo, per oltrepassare il fiume, incantò il traghettatore con la sua musica. Sempre con la musica placò anche Cerbero, il guardiano dell'Ade. Raggiunse poi la prigione di Issione, che, per aver desiderato Era, era stato condannato da Zeus a essere legato a una ruota che avrebbe girato all'infinito: Orfeo, cedendo alle suppliche dell'uomo, decise di usare la lira per fermare momentaneamente la ruota, che,

una volta che il musico smetteva di suonare, cominciava di nuovo a girare.

L'ultimo ostacolo che si presentò fu la prigione del crudele semidio Tantalo, che aveva ucciso il figlio per dare la sua carne agli dei e aveva rubato l'Ambrosia per darla agli uomini. Qui, Tantalo

è condannato a un terribile supplizio: è legato a un albero ed è immerso fino al mento nell'acqua mentre dei frutti crescono proprio su un albero che gli è sopra. Ogni volta che prova a bere, l'acqua si abbassa, mentre ogni volta che cerca di prendere i frutti con la bocca, i rami si alzano. Tantalo chiede quindi a Orfeo di suonare la lira per far fermare l'acqua e i frutti. Suonando però, anche il suppliziato rimane immobilizzato e quindi, non potendo sfamarsi, continua il suo tormento.

A questo punto l'eroe scese una scalinata di 1000 gradini: si trovò così al centro del mondo oscuro, e i demoni si sorpresero nel vederlo. Una volta raggiunta la sala del trono degli Inferi, Orfeo

incontrò Ade e Persefone: il primo dormiva profondamente, la seconda lo guardava con occhi fissi.

Ovidio racconta nel decimo libro delle Metamorfosi[15] come Orfeo, per addolcirli, diede voce alla lira e al canto, facendo riaffiorare in Persefone i ricordi della vita prima che Ade la rapisse e la costringesse a sposarlo. Il discorso di Orfeo fece leva sulla commozione; in questo senso funzionarono perfettamente il richiamo alla gioventù perduta di Euridice e l'enfasi sulla forza di un amore impossibile da dimenticare e sullo straziante dolore che la morte dell’amata

ha provocato. Orfeo fece ricorso anche a considerazioni più razionali, nel timore che svanendo l'effetto del canto la sua richiesta non dovesse più essere esaudita; disse così che la chiedeva solo in prestito, che quando fosse venuta la sua ora anche Euridice sarebbe tornata nell'Ade.

A questo punto Orfeo rimase immobile, pronto a non muoversi finché non fosse stato accontentato.

Paesaggio con Orfeo ed Euridice (1650-51) di Nicolas Poussin.

La regina degli inferi, ormai commossa, approfittò del fatto che Ade stesse dormendo per lasciare che Euridice tornasse sulla terra. Fu posta però una condizione: Orfeo avrebbe dovuto precedere Euridice per tutto il cammino fino alla porta dell'Ade senza voltarsi mai all'indietro. Esattamente sulla soglia degli Inferi, e credendo di esser già uscito dal Regno dei Morti, Orfeo non riuscì più a resistere al dubbio e ruppe la promessa del noli respicere, vedendo Euridice scomparire all'istante e tornare tra le Tenebre per l'eternità.

Orfeo, tornato sulla terra, espresse il dolore fino ai limiti delle possibilità artistiche, incantando nuovamente le fiere e animando gli alberi. Pianse per sette mesi ininterrottamente, secondo Virgilio,[16] mentre Ovidio, da sempre meno sentimentale del Mantovano, riduce il numero a sette giorni.[17] Sa che non potrà amare più nessun'altra, e malgrado ciò molte ambiscono a unirsi a lui.

Secondo la versione virgiliana le donne dei Ciconi videro che la fedeltà del Trace nei confronti della moglie morta non si piegava; allora, in preda all'ira e ai culti bacchici cui erano devote, lo fecero a pezzi (il famoso sparagmòs) e ne sparsero i resti per la campagna.[18]

Un po' diversa è la rivisitazione del poeta sulmonese, che aggiunge un tassello alla reazione anti-femminile di Orfeo, coinvolgendo il cantore nella fondazione dell'amore omoerotico

(questo elemento non è di invenzione ovidiana visto che ne abbiamo attestazione già nel poeta alessandrino Fanocle). Orfeo avrebbe quindi ripiegato sull'amore per i fanciulli, facendo

innamorare anche i mariti delle donne di Tracia, che venivano così trascurate. Le Menadi si infuriarono dilaniando il poeta, nutrendosi anche di parte del suo corpo, in una scena ben più cruda di quella virgiliana.[19]

Piatto con Orfeo circondato da animali presso il Museo Romano-Germanico di Colonia.

In entrambi i poeti si narra che la testa di Orfeo finì nel fiume Ebro, dove continuò prodigiosamente a cantare, simbolo dell'immortalità dell'arte, scendendo (qui solo Ovidio) fino al mare e da qui alle rive di Metimna, presso l'isola di Lesbo, dove Febo Apollo la protesse da un serpente che le si era avventato contro. Il sofista del III secolo Filostrato nell'Eroico (28,8) racconta che la testa di Orfeo, giunta a Lesbo dopo il delitto commesso dalle donne, stava in una grotta dell'isola e aveva il potere di dare oracoli. Secondo altre versioni, i resti del cantore

sarebbero stati seppelliti dalle impietosite Muse nella città di Libetra. Tornando a Ovidio,

eccoci al punto culminante dell'avventura, forse inaspettato; Orfeo ritrova Euridice fra le anime pie, e qui potrà guardarla senza più temere.[20]

Un'altra versione, più drammatica e commovente, parte dalle stesse premesse: Euridice muore uccisa da un serpente mentre fugge da Aristeo. Orfeo decide allora di andare a riprenderla.

Trova a Cuma la discesa per gli Inferi, e lì giunto incanta Caronte, Cerbero e Persefone.

Ade acconsente a patto che egli non si volti fino a che entrambi non siano usciti dal regno dei morti. Insieme con Hermes (che deve controllare che Orfeo non si volti), si incamminano e cominciano la salita. Euridice, non sapendo del patto, continua a chiamare in modo malinconico

Orfeo, pensa che lui non la guardi perché è brutta, ma lui, con grande dolore, deve continuare imperterrito senza voltarsi. Appena vede un po' di luce, Orfeo, capisce di essere uscito dagli Inferi e si volta. Purtroppo Euridice ha accusato un dolore alla caviglia morsa dal serpente e, dunque, si è attardata... Quindi, Orfeo ha trasgredito la condizione posta da Ade. Solo ora Euridice capisce e, all'amato, sussurra parole drammatiche e struggenti: «Grazie, amore mio, hai fatto tutto ciò che potevi per salvarmi». Si danno poi la mano, consapevoli che quella sarà l'ultima volta. Drammatica anche la presenza di Hermes che, con volto triste ed espressione compassionevole, trattiene Euridice per una mano, perché ha promesso ad Ade di controllare ed è ciò che deve fare.

Orfeo vede ora scomparire Euridice e si dispera, perché sa che non la vedrà più. Decide allora di non desiderare più nessuna donna dopo la sua Euridice. Un gruppo di Baccanti ubriache, poi, lo invita a partecipare a un'orgia dionisiaca. Per tener fede a ciò che ha detto, rinuncia,

ed è proprio questo che porta anche lui alla morte: le Baccanti, infuriate, lo uccidono, lo fanno a pezzi e gettano la sua testa nel fiume Evros, insieme alla sua lira. La testa cade proprio sulla lira e galleggia, continuando a cantare soavemente. Zeus, toccato da questo evento commovente, prende la lira e la mette in cielo formando una costellazione (la quale in alternativa, secondo le Fabulae di Igino, sarebbe non la lira di Orfeo ma quella di Arione). Secondo quanto afferma Virgilio nel sesto libro dell'Eneide, l'anima di Orfeo venne accolta nei Campi Elisi.

Evoluzione del mito

Ragazza tracia con la testa di Orfeo (1865), di Gustave Moreau.

«Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravidi il barlume del giorno. Allora dissi "sia finita" e mi voltai»

(Orfeo ne L'inconsolabile di Cesare Pavese, dai Dialoghi con Leucò, Einaudi 1947)

Il mito di Orfeo nasce forse come mito di fertilità, come è possibile desumere dagli elementi del riscatto della Kore dagli inferi e dello σπαραγμος (dal greco antico "corpo fatto a pezzi") che subisce il corpo di Orfeo, elementi che indicano il riportare la vita sulla terra dopo l'inverno.

La prima attestazione di Orfeo è nel poeta Ibico di Reggio (VI sec a.C.), che parla di Orfeo dal nome famoso.[21] In seguito Eschilo, nella tragedia perduta Le bassaridi, fornisce le prime informazioni attinenti alla catabasi di Orfeo. Importanti anche i riferimenti di Euripide, che in Ifigenia in Aulide e ne Le baccanti rende manifesta la potenza suasoria dell'arte di Orfeo, mentre

nell'Alcesti spuntano indizi che portano in direzione di un Orfeo trionfatore. La linea del lieto fine, sconosciuta ai più, non si limita a Euripide, dato che è possibile intuirla anche in Isocrate (Busiride) e in Ermesianatte (Leonzio).[22] Altri due autori greci che si sono occupati del mito di Orfeo

proponendo due diverse versioni di esso sono il filosofo Platone e il poeta Apollonio Rodio.

Nel discorso di Fedro, contenuto nell'opera Simposio, Platone inserisce Orfeo nella schiera

dei sofisti, poiché utilizza la parola per persuadere, non per esprimere verità; egli agisce nel campo della doxa, non dell'episteme. Per questa ragione gli viene consegnato dagli dèi degli inferi

un phasma di Euridice; inoltre, non può essere annoverato tra la schiera dei veri amanti poiché il suo eros è falso come il suo logos. La sua stessa morte ha carattere antieroico poiché ha voluto sovvertire le leggi divine penetrando vivo nell'Ade, non osando morire per amore. Il phasma

di Euridice simboleggia l'inadeguatezza della poesia a rappresentare e conoscere la realtà, conoscenza che può essere conseguita solo tramite le forme superiori dell'eros.[23]

Apollonio Rodio inserisce il personaggio di Orfeo nelle Argonautiche, presentato anche qui come un eroe culturale, fondatore di una setta religiosa. Il ruolo attribuito a Orfeo esprime la visione che del poeta hanno gli alessandrini: attraverso la propria arte, intesa come abile manipolazione della parola, il poeta è in grado di dare ordine alla materia e alla realtà; a tal proposito è emblematico l'episodio nel quale Orfeo riesce a sedare una lite scoppiata tra gli argonauti cantando una personale cosmogonia.

Nell'Alto Medioevo Boezio, nel De consolatione philosophiae, pone Orfeo a emblema dell'uomo che si chiude al trascendente, mentre il suo sguardo, come quello della moglie di Lot, rappresenta l'attaccamento ai beni terreni. Nei secoli successivi, tuttavia, il Medioevo vedrà in Orfeo

un'autentica figura Christi, considerando la sua discesa agli Inferi come un'anticipazione di quella del Signore, e il cantore come un trionfante lottatore contro il male e il demonio (così anche più tardi, con El divino Orfeo di Pedro Calderón de la Barca, 1634).

Dante lo colloca nel limbo, nel castello degli "spiriti magni" (Inf. IV. 139).

Nel 1864 compare la prima rivoluzionaria avvisaglia di un tema che sarà caro soprattutto al secolo successivo: il respicere di Orfeo non è più frutto di un destino avverso o di un errore, ma matura da una precisa volontà, ora sua, ora d'Euridice. Nel componimento Euridice a Orfeo del poeta inglese Robert Browning, lei gli urla di voltarsi per abbracciare in quello sguardo l'immensità del tutto, in una empatia tale da rendere superfluo qualsiasi futuro.

Il XX secolo si è appropriato della tesi secondo cui il gesto di Orfeo sarebbe stato volontario.

Come è d'uopo, i primi casi non sono italiani. Jean Cocteau, ossessionato da questo mito lungo tutta la propria parabola artistica, nel 1925, diede alle stampe il proprio singolare Orfeo, opera teatrale che è alla base di tutte le rivisitazioni successive. Qui Orfeo capovolge il mito;

decide di congiungersi con Euridice tra i morti, perché l'al di qua ha ormai reso impossibile l'amore e la pace. Laggiù non ci sono più rischi. Gli fa eco il connazionale Jean Anouilh, in un'opera pur molto diversa, ma concorde nel vedere la morte come unica via di fuga e di realizzazione del proprio sogno d'amore: si tratta di Eurydice (1941).

Nel dialogo pavesiano L'inconsolabile (Dialoghi con Leucò, 1947), Orfeo si confida con Bacca:

trova sé stesso nel Nulla che intravede nel regno dei morti e che lo sgancia da ogni esigenza terrena. Totalmente estraneo alla vita, egli ha compiuto il proprio destino. Euridice,

al pari di tutto il resto, non conta più nulla per lui, e non potrebbe che traviarlo

da siffatta realizzazione di sé: ha nelle fattezze ormai il gelo della morte che ha conosciuto, e non rappresenta più l'infanzia innocente con cui il poeta l'identificava.

Voltarsi diviene un'esigenza ineludibile.

«L'Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore.

Cercavo un passato che Euridice non sa. L'ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto.

Ho visto le ombre irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefone nascondersi il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare.

Ho capito che i morti non sono più nulla»

Più cinico, l'Orfeo delineato da Gesualdo Bufalino nel 1986[24] intona, al momento del "respicere", la famosa aria dell'opera di Gluck (Che farò senza Euridice?). La donna così capisce: il gesto era stato premeditato, nell'intenzione di acquisire gloria personale attraverso

una (finta) espressione del dolore, in un'esaltazione delle proprie capacità artistiche.

ORFEO: APOLLO O DIONISO?

...un dio scende sulla terra, un uomo sale al cielo...

Uno dei partecipanti più significativi alla spedizione degli Argonauti è Orfeo: durante la spedizione Orfeo diede innumerevoli prove della forza invincibile della sua arte, salvando la truppa in molte occasioni; con la lira e con il canto fece salpare la nave rimasta inchiodata nel porto di Jolco, diede coraggio ai naviganti esausti a Lemno, placò a Cizico l'ira di Rea, fermò le rocce semoventi alle Simplegadi, si fece amica Ecate, addormentò il drago e superò la potenza ammaliante

delle Sirene.

Orfeo fonde in sé gli elementi apollineo e dionisiaco: come figura apollinea è il figlio o il pupillo del dio Apollo, è un eroe benefattore del genere umano, promotore delle arti umane e maestro religioso; in quanto figura dionisiaca, egli gode di un rapporto simpatetico con il mondo naturale, di intima comprensione del ciclo di decadimento e rigenerazione della natura, è dotato

di una conoscenza intuitiva e ammaliante anche nei confronti del mondo animale.

Apollo e Dioniso tendono a simbolizzare due forme di energia diverse, ma che si possono

unificare: la forza che scende dal cielo in terra, Apollo, e Dioniso, la forza che tende a simbolizzare Leviatan, l’eruzione vulcanica, l’energia che erompe dalle viscere della terra.

Apollo viene rappresentato come un dio raggiante, solare, un dio che dirige raggi, dardi etc.

Nell’ambito dei miti, si racconta come Apollo abbia combattuto e ucciso Pitone, un enorme serpente, che è poi simbolo del Leviatan, dopodiché la femmina di Pitone, diventa sacerdotessa

Nell’ambito dei miti, si racconta come Apollo abbia combattuto e ucciso Pitone, un enorme serpente, che è poi simbolo del Leviatan, dopodiché la femmina di Pitone, diventa sacerdotessa

Nel documento MITOLOGIA GRECA VELLO D ORO (pagine 72-79)

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