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Migrazioni delle multinazionali: l’operato transnazionale delle multinazionali e le sue conseguenze

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TR IESTE (pagine 122-128)

GLOBALIZZAZIONE E MIGRAZIONE

4.3 Migrazioni delle multinazionali: l’operato transnazionale delle multinazionali e le sue conseguenze

Un aspetto della globalizzazione economica che ha ricevuto parecchie attenzioni dagli specialisti nel campo della globalizzazione è la dispersione geografica degli uffici, stabilimenti della produzione, outlet, ecc. delle varie multinazionali. «(...) una delle tante versioni di questo fenomeno è la linea di assemblaggio globale nella produzione manifatturiera, probabilmente resa

famosissima dal caso dei personal computer della IBM, portanti il marchio made in

USA, quando il settanta per cento dei loro componenti sono stati fabbricati

oltreoceano, normalmente in Paesi con salari bassi109. Ancora un’altra versione di tutto ciò sono le export processing zones (EPZ – conosciute anche come Free

Trade Areas – FTA) – un regime speciale di tassazione che permette alle

imprese, che nella maggioranza dei casi provengono da Paesi con salari elevati110, di esportare componenti semi-lavorati per un ulteriore lavorazione in paesi con salari bassi e quindi reimportarli senza tariffe sul valore aggiunto durante il processo di lavorazione» (Sassen 1996, 7). Tuttavia, può anche accadere che l’intero lavoro di produzione può essere effettuato in un Paese (o più Paesi) con salari bassi, per essere in seguito venduto nei Paesi con salari elevati. Questa dispersione geografica e l'internazionalizzazione della produzione crea anche seri problemi agli stati, in quanto le imprese che operano globalmente sono spesso capaci di trovare notevoli sotterfugi che consentono loro di non pagare le imposte. Vediamo come l’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO – International Labour Organisation) definisce le EPZ: «Le EPZ sono zone industriali, aventi incentivi speciali per attirare investitori stranieri, nelle quali i materiali importati sono sottoposti ad una lavorazione prima di essere esportati di nuovo»111 In realtà non si tratta di nulla di nuovo: è sufficiente menzionare come le città-stato in epoca pre-romana incoraggiassero il commercio, proclamandosi città di libero mercato, dove i beni in transito potevano essere venduti senza essere tassati.

L’idea che le FTA potessero aiutare le economie dei Paesi in via di sviluppo divenne una realtà solo nel 1964, quando le Nazioni Unite adottarono una risoluzione che vedeva le EPZ come un modo per promuovere il commercio con gli stati del Terzo mondo. Ad ogni modo, l’idea stentò a decollare fino a ché l’India, nei primi anni Ottanta, non decise di agevolare le imprese che

109 nell’originale low-wage countries. 110 nell’originale high-wage countries.

111 ILO: Labour and social issues relating to export processing zones. Report for discussion at the Tripartite Meeting of Exporting Processing Zones-Operating Countries, Geneva, 1998, doc. TMEMPZ, 3.

intendevano produrre nelle aree i cui i salari erano i più bassi, dando loro la possibilità di non pagare le imposte per 5 anni112. Negli ultimi anni, le EPZ sono rapidamente cresciuto nel numero: se nel 1975 vi erano 79 zone in 25 paesi, nel 2000 questo numero è cresciuto fino a raggiungere le 3000 unità in 116 paesi. Inoltre si consideri che alla fine del 2002, qualcosa come 43 milioni di persone vengono impiegate all’interno delle EPZ, delle quali le più famose sono le seguenti113:

The Miami Free Zone, Florida, Stati Uniti; Colón Free Trade Zone, Panama;

Jamaican Free Zones, Giamaica;

Jebel Ali Free Zone, Emirati Arabi Uniti; Shannon Free Zone, Emirati Arabi Uniti; Bangladesh’ Export Processing Zone; Mauritius’ Export Processing Zone; Kish Island, Iran;

Saipan, Isole Marianne Settentrionali; Calabar Free Trade Zone, Nigeria; Qeshm, Iran;

Zona Franca de Manaus, Brasile; Cavite Free Trade Zone, Filippine;

Phil Knight, manager della Nike una volta ha dichiarato: «Non c’è più valore nel produrre cose. Il valore aggiunto lo si trova nel grazie ad una ricerca attenta, all’innovazione e al marketing.» (citato da Katz 1994, 204) Naomi Klein (2001, 197), commentando questa dichiarazione, si è espressa nei seguenti termini: «Per Phil Knight la produzione non è la base del suo impero di marca, ma un qualcosa del tutto marginale». In questo caso si assiste ad un processo di delocalizzazione, in cui le multinazionali spostano tutte le attività di

112 Per ulteriori approfondimenti si consiglia la lettura di N. Klein, No Logo, Flamingo, Londra, 2001.

produzione in aree capaci di offrire le più vantaggiose condizioni; inoltre, va a smarrirsi «l’idea old-fashioned che i proprietari siano responsabili per la loro forza-lavoro» (Ibidem).

Bauman (1999) paragona le nuove elite emergenti di questa nuova epoca a proprietari assenti e irresponsabili, asserendo che la mobilità guadagnata dagli investitori è emblematica della nuova divisione fra potere e obblighi sociali. Secondo Bauman, questa è una divisione senza precedenti nella storia umana, in quanto le nuove elite globali evitano senza difficoltà qualsiasi barriera e qualsiasi obbligo nei confronti degli altri: non solo gli obblighi verso i propri dipendenti, ma anche quelli verso le nuove generazioni e quelle a venire paiono essere scomparsi. Sembra che una nuova asimmetria tra la natura extraterritoriale del potere e la permanenza di vincoli territoriali stia rapidamente crescendo: poiché il potere non ha alcun vincolo, è capace di muoversi in tempi estremamente rapidi e senza preavviso. Bauman, inoltre, afferma che la nuova libertà negli spostamenti del capitale ricorda quella dei possidenti terrieri pre-moderni, sebbene non manchi di ricordare che vi sono delle differenze fondamentali fra i due casi. Quella principale consiste nel fatto che i proprietari di terreni destinati alla produzione agricola rimanevano vincolati al territorio che garantiva loro benefici e guadagni. Se essi avessero infatti trascurato i loro possedimenti, ciò avrebbe compromesso la loro posizione nell’arco di qualche generazione, a causa dell'inappropriato utilizzo del suolo che avrebbe influenzato negativamente la fertilità dello stesso. Di conseguenza, le generazioni successive si sarebbero ritrovate a dover affrontare una situazione molto sfavorevole, dalla quale sarebbe stato piuttosto arduo uscire. Oggi, i detentori di capitale non hanno più alcun vincolo verso un dato territorio, pertanto non si trovano nella necessità di elaborare un piano a lungo termine: dopo la valutazione che un territorio non ha più i mezzi per poter crescere e svilupparsi, risulta più facile abbandonarlo per trovarne uno nuovo che garantisca condizioni migliori.

Stando a ciò che viene affermato nel rapporto ILO Organizing For Social Justice

Global Report del 2004, le restrizioni sui diritti dei sindacati, la mancanza di

un’appropriata legislazione sui diritti dei lavoratori nelle EPZ e l’assenza di una rappresentanza delle organizzazioni dei lavoratori compromettono le possibilità delle EPZ di migliorare le capacità dei propri dipendenti, di migliorare le condizioni di lavoro e con esse la produttività. Ciò risulta essere fondamentale anche perché, teoricamente parlando, le EPZ, dovrebbero portare ad un trasferimento di tecnologie, metodi produttivi e specializzazione nei vari stati che le ospitano, favorendo in tale maniera lo sviluppo economico a lungo termine dei paesi ospitanti che, grazie all’esperienza acquisita alle EPZ, dovrebbero essere in grado di sviluppare delle attività produttive proprie. Tuttavia il rapporto afferma che: «…when rights are denied to those employed in the export processing zones, the zones become symbolic of the pressures on the workers that fierce competition to attract capital and production orders can produce.» (ILO Organizing for Social Justice, Global Report under the Follow-up to

the ILO Declaration on Fundamental Principles and Rights at Work, 2004, 38).

A questo punto, la domanda che sorge spontanea è la seguente: quali benefici arrecano le EPZ ai Paesi in cui operano? La risposta a tale questione non è delle più semplici. Di base, la risposta a questa domanda è ravvisabile nella promessa di industrializzazione e sviluppo nei paesi in cui si stabiliscono: a causa della loro particolare condizione economica, le zone attraggono investitori stranieri, i quali decidono di stabilirsi, portando con se un determinato know-how e determinata tecnologia, che, se assorbite dalla popolazione locale, favoriranno la nascita di industrie domestiche, le quali faranno da traino per un eventuale sviluppo economico. Detto ciò, bisogna però far notare che su tale affermazione vi sono parecchie opinioni che possono essere raggruppate (seppure in maniera un po’ forzata) in pro-EPZ e contro-EPZ. Secondo i pensatori della fazione contro-EPZ114 è necessario fare determinate considerazioni: innanzitutto quasi tutte le nazioni in cui si

insediano le EPZ sono molto povere e i governi per attrarre investitori offrono imposte ridottissime (e talvolta assoluta mancanza delle stesse), regolamentazioni inerenti la tutela dell’ambiente e la tutela dei lavoratori scarsissime e un ambiente in cui i sindacati hanno pochissimo potere (se non alcuno); inoltre, spesso si accollano i costi iniziali per l’insediamento degli stabilimenti produttivi. Per ciò che riguarda le imposte spesso viene offerta agli investitori la possibilità di non pagarle per i primi anni successivi all’insediamento, il che però genera un enorme problema quando questo lasso di tempo va ad esaurirsi: appena ciò accade, invece di assumersi i costi, le corporazioni valutano la possibilità di trasferirsi altrove, in modo da trovare condizioni più favorevoli, pertanto in un eventuale negoziato con il governo, si ritrovano ad essere in una posizione avvantaggiata in qualsiasi tipo di trattativa. Tali condizioni generano situazioni estreme, in cui le multinazionali si ritrovano a operare per anni senza dover sborsare un solo centesimo ai vari governi locali, i quali non otterranno alcuna entrata da poter reinvestire nelle proprie strutture. Un altro problema risiede anche nel fatto che all’interno delle EPZ i salari sono estremamente bassi e quindi spesso non permettono ai lavoratori di migliorare il proprio status sociale. Oltre a non potersi permettere i prodotti che producono spesso si ritrovano ad avere seri problemi di sostentamento.

Tabella 4.1 Profilo economico della EPZ di Cavite (Filippine) Location Rosario, Cavite

Total Area 278.51 hectares

Developer/operator Philippine Economic Zone Authority (PEZA)

Registered firms 235 (August 2003)

Estimated Employment +250,000, 70% female

Regional minimum wage USD5.53115

Daily salaries in EPZ USD3.66 – USD4.96116

Organized firms 39

Employment 68,000 (2/3 females)

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TR IESTE (pagine 122-128)