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IL MODELLO ELEUSINO

65 PARKER 1983, 104-143, BURKERT 1985, 80-82.

3.2 Misteri Grandi e Piccol

Plutarco, nella Vita di Demetrio (Dem. 26), ci testimonia una delle rarissime eccezioni alla regola ferrea che scandiva il percorso di iniziazione ai Misteri eleusini in diverse tappe, ognuna celebrata in un preciso momento dell’anno. Il Poliorcete, infatti, per segnalare dei rapporti di forza, piuttosto che per un’urgenza mistica, si fece iniziare nel giro di un mese, complice il servilismo e la paura degli Ateniesi, acquisendo tutti e tre i gradi misterici, ἀπὸ τῶν μικρῶν ἄχρι τῶν ἐποπτικῶν. Ma questa è, appunto, un’eccezione significativa. Quello iniziatico è sempre un percorso lento, che implica un processo di aggregazione non automatico, delle tappe e delle prove, delle difficoltà e la suprema ricompensa del disvelamento di una verità preclusa a chi rimane fuori dal cerchio invisibile che separa iniziati e non.

Tra le svariate ragioni per cui Platone si richiama a un referente misterico c’è, senza dubbio, questa dimensione di approccio graduale, climatico, a un τέλος perseguito per il suo valore salvifico e spirituale, questa distinzione tra un momento precedente e uno finale, tra una condizione che precede l’iniziazione e lo status di iniziato, ottenibile solo tramite il completamento della τελετή. In questa sezione faremo, dapprima, il punto sulla ricostruzione degli stadi iniziatici a Eleusi e vedremo poi come Platone, impiegando talvolta la lingua dei Misteri, talaltra spie e connotazioni solo vagamente misteriche, suggerisca che la filosofia è una forma di iniziazione. Nell’excursus filosofico della VII Lettera116 - che ritengo composta

116 L’ipotesi dell’interpolazione dell’excursus è stata presa in considerazione a partire da

RITTER 1910, 370 sgg., convinto sostenitore dell’autenticità storica della lettera, ma detrattore del discorso filosofico in essa contenuto. Più recentemente TARRANT 1983, 75-103 ha condannato l’excursus come neoplatonico, poiché conterrebbe tematiche attribuite a Platone solo in età tarda da Plutarco (De E apud Delphos) e dai neoplatonici (l’argumentum e silentio non è, però, sufficiente a

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da un membro dell’Accademia, a fini apologetici, forse per colmare quel vuoto autobiografico che l’evanescente Platone aveva lasciato alla sua morte – è enunciato in maniera cristallina che la conoscenza filosofica non è trasmissibile come le altre (341c-d).117 L’autore, che si basava verosimilmente sulla propria esperienza, descrive in termini enigmatici il momento di acquisizione della verità come risultato improvviso (ἐξαίφνης) di una dimestichezza quotidiana con la pratica filosofica (συνουσία) e del συζῆν con la figura-guida del maestro.118 La filosofia non può essere oggetto di una τέχνη perché ha uno statuto epistemologico e sacrale che la pone su un piano completamente diverso da quello degli altri saperi.

3.2.1 Stadi e gradi iniziatici

L’iniziazione ai Misteri eleusini prevedeva una serie di tappe obbligate, che delineavano, con la lentezza del sacro, il percorso di avvicinamento del μύστης all’ultimo atto della τελετή, l’ἐποπτεία, la quale ne sanciva il compimento. D’altronde il termine τελετή, che in greco indica complessivamente il rito, porta con sé l’idea di concludere qualcosa, condurla al suo stadio finale e perfetto. Se si escludono i più tardi Misteri di Mitra, caratterizzati dalla complessità del meccanismo di aggregazione e dalla molteplicità dei gradi iniziatici (vd. BREMMER 2014, 125-141), i Misteri eleusini sembrano quelli più articolati,

giustificare questa posizione). Io rifiuto sia l’autenticità della lettera, che considero un prodotto dell’Accademia appena successivo alla morte di Platone, sia l’ipotesi dell’interpolazione.

117 ῥητὸν γὰρ οὐδαμῶς ἐστιν ὡς ἄλλα μαθήματα, ἀλλ’ ἐκ πολλῆς συνουσίας γιγνομένης περὶ τὸ

πρᾶγμα αὐτὸ καὶ τοῦ συζῆν ἐξαίφνης, οἷον ἀπὸ πυρὸς πηδήσαντος ἐξαφθὲν φῶς, ἐν τῇ ψυχῇ γενόμενον αὐτὸ ἑαυτὸ ἤδη τρέφει.

118 Il termine συνουσία occorre in Platone nel senso di “comunione con” (ἡ τοῦ θείου σ.., Phd.83e) e “conversazione” (Tht. 105d, Sph. 217e, Smp. 176e), nonché di “intercourse (with a

teacher), company, party” (LSJ s.v.); συζῆν, invece, significa semplicemente “vivere insieme”, e in questo senso ricorre, ad es. in Plt. 302b.

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almeno per quanto le fonti ci lasciano intravedere: la cerimonia era scandita in due, tre o addirittura quattro momenti distinti,119 e circa sette mesi intercorrevano tra la celebrazione dei τὰ μικρὰ - che si tenevano durante il mese di Antesterione, nel pieno dell’inverno, ad Agra, un quartiere di Atene sulle rive dell’Ilisso (vd. ad es.

IG II² 847, 22, POLYAEN. 5.17.1) - e dei τὰ μεγάλα, che avevano luogo a Eleusi

nel mese di Boedromione, a metà settembre (vd. ad es. PLU. Demetr. 26.2).120 Partecipare ai Misteri non solo doveva comportare una qualche spesa per l’iniziato, ma anche una temporanea cessazione delle attività lavorative o domestiche: ognuna delle fasi, infatti, durava più giorni (vd. BREMMER 2014, 4 sgg.).

Dall’Inno a Demetra, considerato per molti aspetti il mito di fondazione dei Misteri eleusini, non emerge ancora una distinzione tra Piccoli e Grandi Misteri. Le prime attestazioni letterarie sono di età classica (vd. ad es. AR. Pl. 845, PL. Grg. 497c, IG 12.313.144, 22.1672.4) e la prima testimonianza dell’obbligo di celebrare i τὰ μικρὰ prima dei τὰ μεγάλα è il passo del Gorgia di Platone che commenterò più avanti (vd. anche lo scolio a Grg. 497c). Il mito eziologico che spiegava l’origine dei Piccoli Misteri li ricollega alla vicenda dell’iniziazione eleusina di Eracle. Secondo Diodoro Siculo (4.14.38) essi furono fondati appositamente da Demetra per permettere all’eroe, uno straniero, di parteciparvi.121 Questa tradizione

119 È oggetto di dibattito se i riti purificatori preliminari avessero o meno luogo nel corso dei

Piccoli Misteri e se ai Grandi Misteri seguisse, il giorno successivo o a distanza di un anno, un’altra cerimonia (l’ἐποπτεία), tramite la quale si accedeva a un grado iniziatico superiore, quello di ἐπόπτης.

120 Per una collezione di fonti sulla correlazione tra Piccoli e Grandi Misteri, da Aristofane alla

patristica, che ci offrono una visione sintetica delle variazioni a cui andò incontro il rito, rimando a SCARPI 2002 (= SC Eleusi B1-B11 e comm. 477-480).

121 Per versioni alternative del mito cfr. X. HG 6.3.6, PLU. Thes. 30.5, APOLLOD. 2.5.12.

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adombra la realtà storica: probabilmente fu solo sotto i Pisistratidi che i riti delle due dee vennero aperti ai non Ateniesi e non Eleusini (vd. PARKER 1996, 98).

È dibattuto se, in età classica, i Piccoli Misteri consistessero esclusivamente in una serie di azioni purificatorie122 o se in essi trovasse spazio altro: Clemente Alessandrino (Strom. 5.71.1), ad esempio, parla di un insegnamento e di una

preparazione ai Grandi Misteri (μετὰ ταῦτα δ’ ἐστὶ τὰ μικρὰ μυστήρια διδασκαλίας

τινὰ ὑπόθεσιν ἔχοντα καὶ προπαρασκευῆς τῶν μελλόντων). Non c’è alcun dubbio, tuttavia, che la τελετή non potesse dirsi completa senza aver partecipato almeno alla solenne celebrazione dei Grandi Misteri: una processione partiva dall’agorà di Atene e, attraverso la Via Sacra, si concludeva ad Eleusi, teatro della μύησις. Il corteo doveva contare migliaia di partecipanti ed essere particolarmente festoso.123 Musica e danze allietavano un itinerario di circa trenta chilometri, che vedeva probabilmente alla testa della sfilata una statua di Iacco, talvolta identificato con Dioniso, portata in processione.124 All’arrivo ad Eleusi, dopo il tramonto del sole, è molto probabile che la prima giornata si concludesse tra canti e danze. Il giorno successivo aveva luogo la celebrazione dei Grandi Misteri: l’iniziando completava finalmente un processo rituale intrapreso mesi prima. Cosa accadesse in questo stadio non possiamo dirlo con sicurezza: sono state avanzate diverse ipotesi, ma nessuna è quella definitiva. Una delle ricostruzioni più invalse di recente vi colloca una sorta di dramma sacro, l’inscenamento del rapimento e del ritrovamento di Kore

122 Gli scholia vetera al Pluto (845) affermano esplicitamente che si configurassero come

προκάθαρσις καὶ προάγνευσις τῶν μεγάλων.

123 Seguo la ricostruzione di BREMMER 2014, 5-6.

124 Vd. SOPH. Ant. 1146-1152 e AR. Ra. 397-402, dove il dio è colui che compie tanta strada

ἄνευ πόνου. È sicuro che questa divinità venisse invocata, come testimonia già Erodoto (8.65.1-4, cfr. AR. Ra. 316-317; vd. GRAF 1974, 40-50).

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da parte dei membri più importanti della casta sacerdotale eleusina.125 Secondo la maggior parte degli studiosi ad Eleusi la μύησις poteva essere integrata con un’iniziazione, verosimilmente facoltativa, di grado superiore, nota come ἐποπτεία.126 Plutarco (Dem. 26) afferma che vi si poteva accedere almeno un anno dopo la μύησις. Anche Platone, come vedremo meglio più avanti, pone l’enfasi su questo ulteriore grado epoptico, che rappresenterebbe, stando al Simposio, davvero il culmine dei Misteri. Senza entrare ulteriormente nel merito, per il momento, della scansione interna delle τελεταί eleusine e limitandoci a riconoscere l’articolazione e la relativa lunghezza del percorso iniziatico, passiamo ora a esaminare come nei dialoghi platonici venga sfruttata la struttura dei Misteri e perché.

3.2.2 Iniziazioni mancate

“Sei fortunato, Callicle, perché sei stato iniziato ai Grandi Misteri prima che ai Piccoli: io non credevo che fosse legittimo”.127 Infatti non lo è, e l’affermazione, che proviene dal Gorgia (497c = TT s.v. μυέω 4), è un ottimo esempio di ironia socratica. Callicle non è iniziato alla filosofia, ha una grande confusione su questioni di fondamentale importanza come l’identità del Bene, il fine a cui il discorso di Socrate tende sin dall’inizio del dialogo, nonostante le obiezioni dei tre

125 Cfr. ad es. BREMMER 2014, 9-11 e SOURVINOU-INWOOD 2003, 29-31, che discute

criticamente il dibattito precedente e le fonti antiche, tra le quali si vedano almeno CLEM. ALEX.

Protr. 2.12.2 ed EUS. PE 3.12.

126 Vd. ad es. MYLONAS 1961, 239, che distingue tre gradi iniziatici, corrispondenti a tre fasi:

la μύησις, la τελετή e l’ἐποπτεία; DOWDEN 1980, che ipotizza un’iniziazione all’esterno del τελεστήριον per gli iniziati di grado inferiore e all’interno del τελεστήριον per gli epopti; BREMMER 2014, 5-16, che invece colloca anche la celebrazione della μύησις all’interno del τελεστήριον, durante la prima notte dei Misteri, e l’ἐποπτεία la seconda notte.

127 Εὐδαίμων εἶ, ὦ Καλλίκλεις, ὅτι τὰ μεγάλα μεμύησαι πρὶν τὰ σμικρά· ἐγὼ δ’ οὐκ ᾤμην θεμιτὸν

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sofisti con cui si confronta, agendo come una forza centrifuga, tentino di stornare l’attenzione da esso. Questa frase non solo è un documento importante del fatto che, all’epoca di Platone, fosse obbligatorio passare per un’iniziazione preliminare alla celebrazione dei τὰ μεγάλα, ma ha anche un valore non accessorio e profondo, che a molti commentatori del passo è sfuggito. L’ironia socratica non deve indurci a sminuire l’importanza del ricorso al lessico misterico in questa fase del dialogo, soprattutto in vista del mito escatologico che lo conclude. Bisogna tenere conto, inoltre, dell’incursione di Socrate in campo orfico-pitagorico (cfr. 493a-b = TT s.v. ἀμύητος 3) appena precedente. Il filosofo ha proposto, infatti, una dottrina di enigmatica provenienza, dai connotati vagamente misterici, attribuita a un sapiente di ambito magnogreco in cui molti commentatori hanno intravisto un pitagorico o Empedocle,128 che potremmo riassumere come segue: l’anima, sepolta nel corpo, può cadere facilmente preda delle passioni, assomigliando a un orcio forato, insaziabile di piaceri; questo genere di anima appartiene ai non iniziati (ἀμύητοι), cioè, fuor di metafora, ai non filosofi, coloro che non si sono forgiati in quell’esercizio quasi ascetico di distaccamento della ψυχή dal σῶμα (493a-d). In questa categoria va inserito, evidentemente, anche Callicle, il quale reagisce all’esposizione di questa dottrina non solo dicendosi non persuaso (494a), ma opponendovi una concezione della vita entusiasticamente edonistica, in cui piaceri e beni vengono a coincidere (λέγω, καὶ τὰς ἄλλας ἐπιθυμίας ἁπάσας ἔχοντα καὶ δυνάμενον πληροῦντα χαίροντα εὐδαιμόνως ζῆν, 494c, vd. sgg.). A questo punto

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Socrate inizia a confutare il suo interlocutore, fino a dimostrare la non identità di piacere e bene (497a).

Messo alle strette, l’irrequieto Callicle si spazientisce e accusa Socrate di perdersi in sottigliezze (οὐκ οἶδ᾽ ἅττα σοφίζῃ, 497a6, vd. LSJ s.v. II 1), di avere la cattiva abitudine di domandare e rispondere partendo da minuzie, indegne di attenzione (σμικρὰ καὶ ὀλίγου ἄξια ἀνερωτᾷ καὶ ἐξελέγχει, 497b7). Spronato da Gorgia, accetta a malincuore di proseguire nel ragionamento, insistendo ancora sulla piccolezza e sulla mancanza di un respiro più ampio nell’argomentazione socratica (Ἐρώτα δὴ σὺ τὰ σμικρά τε καὶ στενὰ ταῦτα, 497c1). Come ogni lettore dei dialoghi sa, è proprio prendendo le mosse da queste distinzioni in apparenza futili che il personaggio Socrate arriva a costruire edifici teorici della più grande complessità. L’ἔλεγχος procede dal piccolo al grande, proprio come la purificazione è preliminare all’accesso ad un grado superiore dell’iniziazione. Il fatto che Callicle soffra nel vedersi confutato ne rivela l’inadeguatezza sul piano filosofico e, di conseguenza, etico.129 Non solo egli non ha goduto del privilegio di poter celebrare direttamente i Grandi Misteri, ma non ha nemmeno afferrato il senso dei Piccoli, poiché la sua anima è ineducata. Paragonando le proprie domande “σμικρά τε καὶ στενὰ” alla più venerabile tra le cose “piccole”, cioè ai τὰ σμικρά (μυστήρια), Socrate non solo sta nobilitando il proprio metodo, ma sta anche suggerendo che la filosofia è un’iniziazione costituita da una fase preliminare ed elenctica, il cui fine è purificare l’anima dalla δόξα, necessaria alla transizione ad una fase superiore, nella quale si colloca la παράδοσις, la trasmissione del sapere. Attraverso esempi a

129 Al contrario, Socrate riconoscerebbe in Callicle un benefattore, qualora egli volesse

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portato di mano, come quello della fame e la sete (cfr. 496c-497d), Socrate avanza lentamente verso la definizione di un concetto: il piacere non si identifica con il bene; dunque cos’è il bene e come esso rientra tra gli obiettivi del politico e del retore? Possono politica e retorica avere come proprio scopo il bene? Di tutti questi interrogativi il filosofo si occuperà nella sezione finale dell’opera, prevalentemente monologica. Callicle, infatti, rinuncia a dialogare con lui (505c-506c).

Quest’ultima parte è caratterizzata dalla discussione delle grandi tesi etiche relative all’anima, alla giustizia, all’ordine del cosmo e al ruolo sociale di retori e politici (506c-523a). Socrate, costretto dal ritiro di Callicle a sospendere la purificazione, decide comunque di tirare le somme del percorso intrapreso (505c- d), affermando, significativamente, che non vuole lasciarlo incompiuto (Τίς οὖν ἄλλος ἐθέλει; μὴ γάρ τοι ἀτελῆ130 γε τὸν λόγον καταλίπωμεν, 505d6-7). A ribadire che lo scambio con il sofista ha esito di per sé fallimentare e che l’iniziazione non può compiersi, coopera il ricorso al mito escatologico che suggella il dialogo, a cui il filosofo ricorre come extrema ratio. Esso avrà valore parenetico e paradigmatico. L’impiego di un dispositivo mitico tradizionale non corrisponde, però, a una definitiva capitolazione da parte di Socrate. Benché sia conscio che l’aitante sofista non verrà sfiorato dal minimo timore e considererà la storia sull’Ade appena udita alla stregua di un racconto di vecchiette (Τάχα δ’ οὖν ταῦτα μῦθός σοι δοκεῖ λέγεσθαι ὥσπερ γραὸς καὶ καταφρονεῖς αὐτῶν, 527a5-6),131 il suo obiettivo mi

130 Sono convinta che Platone qui sfrutti l’ambiguità semantica dell’aggettivo ἀτελής, che

significa non solo “incompiuto”, ma anche “non iniziato” nel lessico misterico (vd. LSJ s.v. IV, uso attestato, ad esempio, nell’Inno a Demetra, v. 481). Per dei paralleli platonici rimando a Smp. 179d = TT s.v. Ὀρφεύς 3 (vd. discussione infra 4.1.3) e Phdr. 248b4-5. Per la discussione della ἀτελής φιλοσοφία di Alcibiade (Rsp. 495b) vd. infra 5.3.

131 Tutt’altra presa avevano simili racconti sul vecchio popolano Cefalo nella Repubblica (330d-

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sembra qui spostarsi dai suoi interlocutori, con i quali ha smesso ormai una qualsiasi forma di comunicazione attiva, ai suoi lettori, ai quali viene posta una scelta, cioè se sia meglio identificarsi con Callicle o con Socrate in vista del destino che toccherà all’anima dopo la morte.

Agli occhi del filosofo il mito escatologico finale non è μῦθος, ma λόγος. A sostegno della sua veridicità Socrate chiama in causa persino Omero (523a, 525d- e, 526d).132 Come ha sostenuto Bernabé (2013, 103-111), siamo davanti a una commistione di elementi omerici, orfici e autenticamente platonici, dal momento che il sistema di giustizia retributiva qui evocato corrisponde, nelle sue linee generali, a quello attestato nelle fonti orfiche (cfr. ad es. OF 340 e BERNABÉ 2013, 105-106), ma il nucleo fondamentale del racconto non trova riscontro in alcuna testimonianza antica. Zeus, avvisato del mal funzionamento del meccanismo di giudizio delle anime, decreta che esse non vengano più giudicate vestite e ancora in vita, ma nude, cioè prive del corpo e dei suoi orpelli. Solo così la destinazione dell’anima sarà corretta: i malvagi, a loro volta distinti in curabili e incurabili, verranno puniti nell’Ade, poiché la punizione è il massimo dei beni per l’ingiusto (525b-526c), mentre il filosofo avrà accesso alle Isole dei Beati (526c, cfr. Rsp. 519c). Anche se siamo lontani dall’esplicito impiego di elementi e dottrine afferenti a una dimensione orfico-pitagorica che caratterizza un’opera come il Fedone (vd.

infra cap. 4) e nonostante questo mito escatologico differisca dagli altri per linearità

e attinenza ad alcune credenze escatologiche popolari (cfr. ANNAS 1982, 122- 125), non c’è dubbio che qui Socrate stia ricorrendo alla logica dei Misteri per

132 Potrebbe trattarsi di una concessione al suo uditorio. Per il rifiuto della visione dell’oltretomba

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convincere Callicle, e il lettore che simpatizza per Callicle, a prendersi cura della propria anima. Si può sfuggire alla giustizia umana e persino cadere da innocenti sotto la sua scure, come il processo al filosofo del 399 a.C. avrebbe dimostrato, ma la condizione della ψυχή, priva del suo involucro corporeo, non potrà mai essere travisata dal giudizio infallibile dei tre δικασταί oltremondani e dalla divinità.

Ecco che il cerchio aperto a 493a-d, con l’immagine del tormento patito dalle anime dei non iniziati, delineatosi attraverso la battuta di Socrate a 497c, si chiude con l’esortazione finale a Callicle di vivere in maniera giusta, in vista di un utile di cui godere non solo su questa terra, ma anche nell’aldilà (527c), proprio come proclamavano i Misteri eleusini (cfr. ad es. ISOC. Pan. 4.28). Mi pare significativo che l’ultima, lunga, sezione dell’opera sia monologica e che i tre sofisti vengano “zittiti” dal taglio dato al dialogo da Platone. Anche se questa è un’iniziazione mancata, le parole di Socrate riecheggiano potenti a perenne monito per il lettore.

Molte affinità con il Gorgia si possono riscontrare, dal punto di vista del ricorso a un referente misterico, nel Menone: anche qui compare un personaggio che non

trova il tempo per essere iniziato e anche qui Socrate introduce una dottrina, quella

dell’ἀνάμνησις, che si ricollega alla credenza orfico-pitagorica nell’immortalità e nella trasmigrazione dell’anima.

Menone è un giovane tessalo di passaggio ad Atene, ospite di Anito, il principale responsabile dell’incriminazione di Socrate (vd. NAILS 2002, 204-205). Sappiamo principalmente da Senofonte, il quale gli fu compagno durante la spedizione di Ciro contro Artaserse, che in qualità di comandante di un’ala dell’esercito venne torturato a morte dai Persiani (An. 2.6.29) e che aveva tenuto una condotta alquanto

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discutibile, sempre pronto a salire sul carro del più forte per agire con la massima licenza (2.6.21). La connotazione immorale con cui nell’Anabasi (2.6.21-29) viene tratteggiato il suo ritratto ci conferma che fosse un degno prodotto di quell’educazione sofistica tanto deplorata da Platone.133 Proprio all’inizio dell’omonimo dialogo, infatti, si insinua che Menone fosse stato avviato all’arte retorica da Gorgia, il quale si era intrattenuto per un periodo presso la città di Larissa (70b-c). Se il sofista leontino aveva offerto ai Tessali una visione competitiva della dialettica, che non punta al vero ma al prevalere sull’interlocutore, guadagnandosi un’apparenza di sapienza (καὶ δὴ καὶ τοῦτο τὸ ἔθος ὑμᾶς εἴθικεν, ἀφόβως τε καὶ μεγαλοπρεπῶς ἀποκρίνεσθαι ἐάν τίς τι ἔρηται, ὥσπερ εἰκὸς τοὺς εἰδότας, 70b5-c1), Socrate avvisa il giovane che egli non troverà nulla di simile ad Atene: qui si procede per sottrazione,134 per ammissione di insipienza, e nessuno si direbbe capace di rispondere alla domanda con cui Menone inaugura il dialogo, “La virtù può essere insegnata”? (70e-71a). Si dovrà procedere, semmai, a individuare cos’è l’ἀρετή, nozione di cui Menone ha una visione pluralistica (cfr. 71e-72a), contrariamente a Socrate, che vuole ricondurre il concetto alla sua unità (72d).

Senza entrare nel merito del dialogo,135 possiamo osservare che Socrate si rivolge a Menone con un’espressione simile a quella che aveva indirizzato a

133 Si veda, in particolare, 2.6.25-26: Menone si guardava dai malvagi, ma sfruttava i buoni,

ritenendoli vili (τοῖς δὲ ὁσίοις καὶ ἀλήθειαν ἀσκοῦσιν ὡς ἀνάνδροις ἐπειρᾶτο χρῆσθαι); della propria abilità a ingannare, mentire e deridere gli amici menava vanto e, in maniera ancora più emblematica, valutava l’educazione di un uomo sulla base della sua predisposizione ad essere pronto a tutto (τὸν δὲ μὴ πανοῦργον τῶν ἀπαιδεύτων ἀεὶ ἐνόμιζεν εἶναι). Senofonte, che ebbe modo di stare a contatto con il tessalo più a lungo di quanto abbia mai potuto fare Platone, ci svela la meschinità e la sfrontatezza dell’uomo.

134 Si pensi all’ironico inaridimento della sapienza a cui allude il filosofo in 70c4 (αὐχμός τις

τῆς σοφίας).

135 Rimando alle edizioni commentate principali EBERT 2018, LONG – SEDLEY 2010, SCOTT

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Callicle, anche se più pacata: οἶμαι δὲ οὐδ’ ἂν σοὶ δόξαι, εἰ μή, ὥσπερ χθὲς ἔλεγες, ἀναγκαῖόν σοι ἀπιέναι πρὸ τῶν μυστηρίων, ἀλλ’ εἰ περιμείναις τε καὶ μυηθείης (76e = TT s.v. μυέω 5). Alcuni commentatori hanno letto in queste parole un cenno allo stesso tempo letterale e figurato ai Misteri eleusini, tanto da ipotizzare, come data drammatica per l’opera, un giorno tra gennaio e febbraio, ovvero quel mese di Antesterione in cui si celebravano i Piccoli Misteri, gli unici a cui Menone avrebbe potuto accedere (vd. ad es. BLUCK 1961, 254). Benché sia plausibile che un Ateniese inviti uno straniero ad approfittare di trovarsi in città per prendere parte alle τελεταί più importanti del mondo greco, mi sembra più probabile che qui Socrate intenda solo una cosa: il giorno prima Menone ha annunciato che non si soffermerà ad Atene, cioè che non ha intenzione di intraprendere il cammino di iniziazione alla filosofia socratico-platonica, i cui tempi, come quelli di una τελετή eleusina, sono scanditi in maniera lenta, delineando un percorso che punta all’acquisizione del vero bene e della vera virtù, qualità applicabili anche alla prassi politica. Menone non riesce a cogliere il valore di questa iniziazione né la ritiene degna di sforzo.

Se restituiamo il passo al suo contesto, noteremo come il filosofo abbia appena allettato Menone con una definizione del colore à la manière di Gorgia (76c-e). Il pesce ha abboccato all’amo, attratto da un modo di procedere che gli è congeniale

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