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IL PROBLEMA DELL’ORFISMO

4.1 Orfeo e gli orfici in Platone

Negli ultimi anni, già Masaracchia (1993) e Casadesús (2008) si erano misurati con la questione dell’emergenza di riferimenti agli orfici e a tematiche orfiche nei dialoghi, ma è solo con la recente monografia di Bernabé, Platón y el orfismo (2011), punto di partenza imprescindibile per la mia ricerca, che si è giunti a un’analisi sistematica e puntuale del complesso delle testimonianze platoniche e su Platone relative all’orfismo.209 Molto utile risulta la collezione di testi posta a conclusione del libro. Confrontandomi con la bibliografia sull’argomento, cercherò di costruire una personale e auspicabilmente originale interpretazione della presenza dei Misteri orfici nella filosofia platonica, che andrà a toccare solo alcuni aspetti della questione e a precisarne altri, senza aspirare a offrire un’analisi totale del ricorso alle dottrine orfiche in Platone, poiché ciò rappresenterebbe un’inutile ripetizione di quanto fatto in maniera eccellente da Bernabé.

209 Per una rassegna più completa della bibliografia si veda BERNABÉ 2011, 7-9 e

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4.1.1 Vantaggi e limiti del modello eleusino

Non è sempre immediato stabilire a quali culti misterici Platone alluda quando menziona ἀπόρρητα, καθάρσεις, μυστήρια e τελεταί. Se in alcuni casi il riferimento è trasparente e pregno di significato,210 più spesso il filosofo sembra usare genericamente il lessico misterico per suggerire un’affinità di intenti tra la sfera sacrale e quella filosofica. Qual è la ragione di una simile vaghezza? A questa domanda si possono dare due risposte, che non si escludono necessariamente a vicenda: Platone ha in mente i Misteri per eccellenza, quelli eleusini, che non richiedono alcuna classificazione; Platone non si sente obbligato a fornire ulteriori specificazioni perché guarda alla dimensione misterica nella sua unità - per quanto diverse fra loro, tutte le τελεταί possono essere ricondotte a un unico modello, che costituisce il fulcro dell’interesse platonico. Proviamo a vagliare la validità di queste due ipotesi.

In un fondamentale ma controverso libro del 1974, Eleusis und die orphische

Dichtung Athens in vorhellenistischer Zeit, Fritz Graf postulò l’esistenza di una

connessione molto forte tra Misteri orfici ed eleusini.211 La sua interpretazione, mirata a dimostrare come i confini divisori tra questi culti fossero più fluidi di quanto si pensasse, prendeva le mosse da una tradizione, attestata almeno a partire dal V sec. a.C., che riconosceva in Orfeo il fondatore delle τελεταί (pp. 22-39, cfr.

OF 510-523). Per quanto innegabile sia che Misteri eleusini e orfici condividessero

diversi aspetti fondamentali (vd. infra), sarà più utile evidenziare come essi

210 Si vedano ad esempio, al cap. 2, le occorrenze con il tema βακχ-, κορυβ- e i passi classificati

sotto Ὀρφικός e Ὄρφειος, o ancora il ricorso alla metafora dei Piccoli e dei Grandi Misteri, tipicamente eleusini, in Smp. 209e-210a = TT s.v. ἐποπτικός 1, Grg. 497c = TT s.v. μυέω 4, μυέω 5.

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divergano, se vogliamo capire quali motivi abbiano condotto Platone a prendere le distanze dai secondi, in certi casi, e a contare sui primi come referente pacifico delle sue analogie, immagini e metafore misteriche.

Una delle differenze fondamentali tra il culto eleusino e i riti orfici è l’ufficialità del primo contro l’instabilità dei secondi, a cui corrispondeva, nell’Atene di IV secolo, una maggiore diffusione dei Misteri eleusini. Se Platone puntava a offrire un appiglio immediato e comprensibile a tutti i suoi lettori nel momento in cui sceglieva di istituire un paragone con la sfera misterica, non poteva che appellarsi al modello eleusino o almeno non appellarsi dichiaratamente a quello orfico. Lo schema rituale dei Misteri eleusini era noto a tutti, tanto che Socrate può permettersi di usare con il suo interlocutore la metafora del passaggio dai Piccoli ai Grandi Misteri in Grg. 497c (= TT s.v. μυέω 4) e Men. (76e = TT s.v. μυέω 5, vd. supra 3.2). Le τελεταί di Demetra e Kore - che erano e restarono i Misteri più importanti nel mondo greco-romano – si erano integrate agevolmente nel tessuto religioso e sociale ateniese: avevano la loro sede fissa presso il vicino santuario di Eleusi e presentavano, almeno stando a quanto emerge dalle fonti di età classica, una certa costanza liturgica nell’esecuzione del rituale e una certa unità dottrinale, se di dottrina si può parlare. A differenza di altri culti misterici, quello eleusino, con la scansione periodica dei suoi eventi, regolata dal calendario attico, la sua rilevanza

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politica212 e l’ereditarietà di alcuni uffici sacri,213 aveva assunto una certa istituzionalità e una inattaccabile autorevolezza. I Misteri orfici, al contrario, non si svolgevano in un luogo privilegiato214 né avevano carattere istituzionale. Erano un prodotto di importazione215 piuttosto che un rito autoctono. Il fatto stesso che costruissero il proprio prestigio attorno all’esistenza di una letteratura teologica di riferimento216 attribuita alla figura di Orfeo, figlio della Musa Calliope (vd. OF 902- 911, cfr. infra 4.1.3), non solo li distingue formalmente dagli altri generi di τελεταί, per cui non sembra attestata la centralità di testi rituali, ma rivela anche come l’orfismo fosse in cerca di consenso e credibilità.217 Nella Repubblica (364b-365a), Adimanto parla di ἀγύρται δὲ καὶ μάντεις (364b6) che, appellandosi alle dottrine esposte nei βιβλία di Orfeo e Museo, andavano di città in città a convincere privati e istituzioni di poter piegare la volontà divina ai propri scopi. Il passo platonico è solo uno dei molteplici esempi delle criticità legate al fenomeno orfico già

212 Era Atene, infatti, a detenere il controllo politico su Eleusi, nella persona dell’arconte

βασιλεύς, almeno in età classica (cfr. ARIST. Ath. Pol. 57.1 = SC Eleusi C5). Eleusi, tuttavia, aveva conservato la sua autonomia sulla pratica iniziatica (cfr. la notizia sul conflitto tra Atene e Eleusi riportata da PAUS. 1.38.3 = SC Eleusi C3 e comm. a Eleusi A15, 11-7: “è una tipica guerra mitica che fonda la realtà cultuale-politica del rapporto tra Atene ed Eleusi, da cui emerge la spartizione delle sfere di competenza tra le due città”).

213 Ierofanti e daduchi provenivano dalla famiglia degli Eumolpidi, il cui capostipite Eumolpo

era considerato il primo ierofante (cfr. Schol. Aeschin. 3.18 = SC Eleusi C9, Schol. Soph. OC 1053 = SC Eleusi C8). L’altra famiglia a cui erano riservate alcune cariche eleusine era quella dei Cerici (cfr. Schol. Aeschin. 3.18, 55a-c = SC Eleusi C7).

214 Vd. COLE 2003, 206: “The tablets that record these terms [cioè mystai e bacchoi = L1 da

Hipponion] make no reference to evidence for sanctuary-based mystery ceremonies. In contain no references to temples, sanctuaries, or sacred places […]. Any ritual certifying completion of the ceremonies that generated these texts must have been privately organized, performed in obscurity, fact, they and under no official control”.

215 Sull’alterità del tracio Orfeo e dei suoi riti si veda un’efficace sintesi in BREMMER 2014,

56-58.

216 La selezione di una vera e propria letteratura rituale all’interno del corpus degli scritti orfici

è stata operata da JIMÉNEZ SAN CRISTÓBAL 2008.

217 Per l’orfismo come religione del libro vd. BIANCHI 1974 e JIMÉNEZ SAN CRISTÓBAL

2002. Per la funzione dei βιβλία orfici vd. BURKERT 1982, SANTAMARÍA ÁLVAREZ 2010 e soprattutto WEST 1983.

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riconosciute dagli antichi e persino da un esponente dell’orfismo come l’autore del Papiro di Derveni (vd. infra 4.2.2). Tra queste il carattere itinerante, privato, di questi riti, e una reputazione incerta, che non rendeva certo il referente orfico il più indicato per stabilire in senso generico un parallelo con la sfera misterica.

Che fare allora dell’orfismo? Sbarazzarcene e dedurre che tutti i riferimenti alla sfera misterica privi di classificazione siano riferimenti ai Misteri eleusini? Una simile conclusione risulta alquanto insoddisfacente. Come abbiamo illustrato nel capitolo precedente, lo schema dei Misteri eleusini, verosimilmente noto alla maggioranza dei lettori di Platone, viene sfruttato senza dubbio nel Simposio come

pattern base del discorso di Diotima, ricalcando sulla sequenza purificazione >

piccoli > grandi Misteri la struttura dell’iniziazione del filosofo. Ma in una prospettiva contenutistica e dottrinale quali Misteri hanno attratto maggiormente l’attenzione del filosofo? Da quali ha preso sopprattutto spunto?

Secondo le ricostruzioni più recenti della fisionomia del culto eleusino, in esso è assente tutta una serie di aspetti che devono aver condotto Platone a prediligere i Misteri come referente analogico del suo modo di intendere il ruolo della filosofia e la funzione della vita filosofica: la credenza nell’immortalità dell’anima e nella sua trasmigrazione in altri corpi, la riappropriazione della natura divina originaria da parte dell’uomo e l’esigenza di aderire a uno stile di vita improntato alla purezza, alla giustizia e alla ricerca della verità, caratteri tipici di una parte della ritualità

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orfica218 e del pitagorismo delle origini.219 Di recente, uno studioso degno di credito come Bremmer (2014, 18) ha sostenuto che “no matter how surprising it may seem to one Platonically influenced, there is no mention of immortality at Eleusis, nor of a soul and the transmigration of souls, nor yet of deification”. Per quanto concerne l’aspetto performativo dei Misteri eleusini, tutto sembra rimandare all’auspicio di un raccolto fertile, alla propiziazione di un benessere materiale in questa vita e nell’aldilà: “the connection of Eleusis with agriculture is also manifest in the equally prominent position in Eleusis of Triptolemos, the inventor of agriculture, who only in the fourth century becomes a judge in the underworld” (ibidem).

Possiamo ipotizzare che nell’ampio spettro delle espressioni rituali e letterarie dell’orfismo trovasse spazio, accanto alla controversa schiera degli ἀγύρται, anche una corrente più spiccatamente intellettuale, la cui attività esegetica e teologica si avvicinava per certi versi a quella filosofica. Il Papiro di Derveni, esemplare in questo senso, non doveva essere certo un unicum nel suo genere.220 Anche le laminette orfiche, pur restando inscindibili dal contesto rituale e funerario, rivelano esigenze che vanno oltre un mero formalismo religioso e si spingono nella direzione della riflessione antropogonica e gnoseologica, almeno da parte di chi le ha composte. Osserva in proposito Pugliese Carratelli (2001, 26-27): “con

218 Secondo l’analisi delle lamine d’oro orfiche condotta da PUGLIESE CARRATELLI 2001,

19-25, si può distinguere una corrente “mnemosynia” dell’orfismo e una più formalistica e interessata agli aspetti materiali della vita oltremondana. Sul pitagorismo si veda l’ancora fondamentale BURKERT 1972. Per la purezza in ambito orfico vd. PARKER 1983, 299-307 e PETROVIC-PETROVIC 2016, V 12 e 3.1.3.

219 Per l’intima connessione e la sovrapposizione, già nelle fonti antiche (locus classicus è HDT.

2.81.1-2 = OF 650), tra pitagorismo e orfismo vd. BURKERT 1972, 125-133, GRAF 1974, 92-94 e 148-149, WEST 1983, 7-15, 24-26, BETEGH 2014, 149-166.

220 Sugli aspetti filosofici del Papiro di Derveni si è soffermata PIANO 2016. Vd. anche

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l’evocazione di questa [Mnemosyne] diviene chiaro che protagonista della nuova esperienza è il nucleo spirituale della ψυχή, il νοῦς, e che questo si muove in una sfera tutta nuova: la sfera dell’ἁλήθεια, della verità e del sapere reale, che pitagorici e orfici si sforzavano di raggiungere non solo con l’osservanza di atti rituali e di precetti morali, ma specialmente con un’assidua meditazione sulla natura «siderale» dell’uomo e sul posto dell’episodico vivere umano nell’eternità del cosmo”. La conclusione a cui giunge Pugliese Carratelli ci fornisce un quadro della realtà cultale orfica non verificabile: nulla ci autorizza a ipotizzare che coloro che furono seppelliti con le laminette auree meditassero assiduamente sulla natura

siderale dell’uomo, ma indubbiamente il contenuto di quei lasciapassare per l’Ade

scaturisce da una riflessione che punta in questa direzione e a cui quegli individui, con un grado di coscienza che è impossibile stabilire, aderirono.

Un’ultima necessaria premessa: non deve sembrare strano che Platone, nel tentativo di costruire lo splendido edificio argomentativo a sostegno della nozione di immortalità dell’anima, attinga a un complesso di dottrine religiose e pratiche rituali. I confini tra filosofia e sapienza religiosa, che proprio a partire dalla seconda metà del V secolo iniziarono ad essere tracciati in maniera sempre più netta, non erano così rigidi per l’Ateniese.221 Il filosofo è un σοφός e un homo religiosus; la sua preoccupazione principale è il Bene e il principio del Bene è il dio. Ciò che lo interessa maggiormente è fare chiarezza sulla natura della divinità e sui doveri etici dell’uomo per invitarlo a conformarsi al divino principio ordinatore del cosmo. In questo senso Platone è molto più vicino alle concezioni orfiche, dotate di un

221 A questo proposito si veda il “Platone mistico” di CORNFORD 2001 [1912], 266-284, e di

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maggiore grado di astrazione, che a quelle eleusine, così legate alla terra, alla corporeità e alla materialità, per quanto non prive di profondi significati cosmici. Tuttavia, il filosofo abborre alcuni aspetti di quella variante impazzita dell’orfismo e dei riti di liberazione esercitata da una schiera di impostori che si improvvisavano professionisti del sacro (di questo ci occuperemo diffusamente più avanti, vd. 4.2). Con i Misteri eleusini, invece, proprio in virtù della loro istituzionalizzata costanza, egli non correva alcun pericolo. Possiamo dunque concludere, sintetizzando al massimo, che relativamente alla presenza dei Misteri in Platone troviamo prevalentemente una struttura eleusina e dei contenuti orfici.

4.1.2 Οἱ ἀμφὶ Ὀρφέα

La ben documentata presenza di comunità pitagoriche per il primo pitagorismo ha certamente influito sulla ricerca di forme aggregative equivalenti tra i cosiddetti orfici, viste anche le affinità tra pitagorismo e orfismo.222 Sulla tavoletta ossea A da Olbia (IOlb. 94c Dubois = OF 465 = G&J Olbia 1), datata al V secolo a.C., potrebbe comparire la più antica attestazione dell’esistenza di una comunità orfica.223 Nel margine inferiore della placchetta troviamo incisa l’abbreviazione Διο, forma comune nelle tavolette per Διόνυσος, seguita dalla parola ΟΡΦΙΚ.., che nell’editio

princeps del 1978 Rusyayeva legge Ὀρφικοί. Se l’interpretazione è corretta,

avremmo finalmente individuato uno dei desiderata della critica, la prova che gli orfici avessero costituito dei gruppi su base religiosa. Tuttavia, né c’è consenso

222 Alcune delle quali sono state messe in discussione da BETEGH 2014. Cfr. anche

CASADESÚS 2008a, 1074-1078.

223 Per una discussione critica più approfondita rinvio al recente FERRARI 2015. BURKERT

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sulla ricostruzione di Rusyayeva224 né questa singola attestazione basterebbe a giustificare l’uso pacifico della nozione di comunità orfiche al di là del caso di Olbia. Infatti, la maggior parte delle 111 occorrenze delle forme plurali del sostantivo Ὀρφικοί rimanda, piuttosto che a praticanti dell’orfismo, ad autori di testi orfici (οἱ τὰ Ὀρφικὰ γράψαντες). Un eccessivo scetticismo, che ha portato studiosi come Edmonds (2013, 198-200) a stabilire la sostanziale assenza di comunità orfiche nel mondo antico, va a mio parere ridiscusso nei suoi presupposti. Bisognerebbe prima di tutto chiedersi quali criteri siano necessari a individuare una comunità religiosa. Se si pensa alla convivenza e alla condivisione regolare di attività sulla base di precetti comuni, allora non credo che siamo autorizzati né a confermare né a escludere l’esistenza di comunità orfiche in età classica. Se invece, in una prospettiva più ampia, un numero imprecisato di individui che si riconoscono nei medesimi principi religiosi, partecipando insieme a un rito sacro, come avveniva nel caso dei thiasoi, possono definirsi, almeno temporaneamente, una comunità, allora potremmo forse applicare questa etichetta ai cosiddetti orfici, ma ci toccherebbe estenderla anche agli iniziati ai Misteri eleusini. Le testimonianze cultuali finora non ci hanno dato alcun appiglio sicuro per ricostruire con precisione i lineamenti di un rituale orfico e comprendere la natura della partecipazione dei

224 L’identificazione delle ultime due lettere è problematica, ma si tratta verosimilmente di una

ω rovesciata e di ι oppure ν. WEST 1982, 21-22 ha proposto di leggere ΔΙΟΝΥΣΩΙ ΟΡΦΙΚΩΙ o ΟΡΦΙΚΩΝ, al neutro plurale, supponendo che questa fosse una dedica a Dioniso di qualcosa che si è ottenuto durante una τελετή orfica. Se accettiamo questa ipotesi, possiamo supporre che l’iniziato stesse qui ringraziando il dio per la rivelazione dell’immortalità dell’anima, come si evince dalla sequenza ΒΙΟΣ - ΘΑΝΑΤΟΣ - ΒΙΟΣ del margine superiore. G&J, p. 185, stampano invece ΟΡΦΙΚΟΙ o ΟΡΦΙΚΟΝ, ma il teonimo precedente non giustifica l’accusativo e in ogni caso non mi sembra di poter leggere un omicron, a meno che il loro non sia un tentativo di normalizzare la grafia. EDMONDS 2013, 200 ha addirittura dubitato che il dio in questione sia Dioniso: “Zeus is just as probable”.

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fedeli.225 Se accettiamo come autenticamente orfica l’attività degli ἀγύρται platonici (vd. 4.2), dobbiamo immaginare queste τελεταί come cerimonie a carattere privato, sporadico, che prevedevano sacrifici e formule magiche (θυσίαις τε καὶ ἐπῳδαῖς, Rsp. 364b8) e potevano coinvolgere ora intere città ora singoli individui (cfr. Rsp. 364e5, οὐ μόνον ἰδιώτας ἀλλὰ καὶ πόλεις). Tuttavia, la varietà delle testimonianze, dei contesti sociali e geografici di riferimento, non ci legittima a trarre conclusioni definitive. Sarebbe forse più prudente sospendere il giudizio e parlare, piuttosto che di comunità orfiche, di fenomeno dell’orfismo o di orfismo come movimento religioso, o più genericamente di orfici, stabilendo di volta in volta una distinzione tra praticanti e autori di testi. Ma veniamo finalmente al nocciolo della questione. Chi erano gli orfici per Platone?

Voglio momentaneamente circoscrivere il campo della mia ricerca alla presenza esplicita degli orfici nei dialoghi, lasciando per ora da parte la vexata quaestio dell’identità degli ἀγύρται e dei μάντεις della Repubblica e le coincidenze dottrinali tra i dialoghi e le fonti orfiche in nostro possesso. Solo due volte in Platone si fa riferimento, utilizzando la medesima formula, a οἱ ἀμφὶ Ὀρφέα: nel Cratilo (400c = TT s.v. Ὀρφεύς 2) viene attribuita loro un’etimologia del termine σῶμα, mentre nel Protagora (316d = TT s.v. Ὀρφεύς 5) τοὺς ἀμφί τε Ὀρφέα καὶ Μουσαῖον

225 Vedi i tentativi di RIEDWEG 2011, che si è basato sulle laminette auree, e in generale di

JIMÉNEZ SAN CRISTÓBAL 2008b. Il Papiro di Gurob (OF 578), fortemente frammentario, documenta con dovizia di particolari una τελετή che non possiamo ritenere esclusivamente orfica (COLLI 1978, 404 ha parlato a tal proposito di “confluenza orfico-dionisiaco-eleusina”). In ogni caso, la sua datazione all’età ellenistica (circa la fine del III sec. a.C.) esclude questa testimonianza dal discorso sui lineamenti rituali dell’orfismo in età classica.

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nascondono di essere in realtà dei sofisti dietro la maschera delle iniziazioni e dei vaticini.

Comprendere il significato dell’espressione οἱ ἀμφὶ Ὀρφέα presenta delle difficoltà: Platone si sta riferendo a Orfeo, a Orfeo e ai suoi seguaci o solo ai suoi seguaci? Stabilirlo è importante, se è vero, come tenterò di dimostrare nella prossima sezione, che Platone mette in dubbio il prestigio della figura di Orfeo. Prima di tutto, va rilevato che questo costrutto con Orfeo come oggetto non trova riscontro nella letteratura, se si escludono due testimoni indiretti del passo del

Cratilo (CLEM. ALEX. Strom. 3.3.16.4 e STOB. 1.41.9), ma ha diversi paralleli

nei dialoghi con altri nomi propri in accusativo. L’unico confronto possibile è quello con il costrutto οἱ περί + accusativo nominis proprii, che compare solo in Clemente Alessandrino con Orfeo come oggetto (Strom. 1.21.107.4 = EUS. PE 10.12.28) e il cui unico significato possibile è “Orfeo”.226 È stato evidenziato, tuttavia, come il costrutto può avere anche valore inclusivo, venendo a significare “la persona X e i suoi” (vd. RADT 1980).227 In Platone il costrutto con περί è usato solo una volta, sempre nel Cratilo (440c), dove οἱ περὶ Ἡράκλειτόν può essere inteso come Eraclito o Eraclito e i suoi seguaci. Ma torniamo a ἀμφὶ + accusativo

nominis proprii e alle 8 occorrenze in Platone, andando ad analizzarle di volta in

volta. Tranne che nell’Apologia (18b3), in cui τοὺς ἀμφὶ Ἄνυτον sono coloro che appoggiano l’accusa di Anito contro Socrate (o “Anito e i suoi”, espressione

226 ἀλλ’ ἴστω γε ὅτι μετὰ Φημονόην ἔτεσιν ὕστερον εἴκοσι ἑπτὰ οἱ περὶ Ὀρφέα καὶ Μουσαῖον

καὶ Λίνον τὸν Ἡρακλέους διδάσκαλον. Cito dalla traduzione di PINI 1985: “... sappia però che 27 anni dopo Femonoe vennero Orfeo, Museo, Lino maestro di Eracle”; chiaramente Clemente Alessandrino si sta riferendo al solo Orfeo.

227 GORMAN 2001 precisa le conclusioni di Radt, analizzando l’uso del costrutto in Strabone

ed evidenziando come in alcuni casi sia usato in maniera esclusiva (il nome proprio in accusativo non è coinvolto nell’azione) e come spesso sia impossibile determinarlo.

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equivalente), il costrutto viene impiegato per riferirsi ai seguaci di un sapiente o presunto tale: Eutifrone228 condivide la stessa visione filosofica sulla relazione tra φύσις, ψυχή e σῶμα con la sua cerchia (... τοῖς ἀμφὶ Εὐθύφρονα, Cra. 400a1); nel

Teeteto (170c6) τις τῶν ἀμφὶ Πρωταγόραν non può che essere un seguace del

sofista, mentre nell’Eutidemo (286c2) il significato dell’espressione οἱ ἀμφὶ Πρωταγόραν non è chiaro,229 così come quello dell’espressione parallela, ὑπὸ τῶν ἀμφὶ Εὐθύδημον (Euthd. 305d6-7). Nell’incipit del Sofista (216a3-4) ritorna il caso di Tht. 170c6: lo Straniero di Elea viene presentato come uno τῶν ἀμφὶ Παρμενίδην καὶ Ζήνωνα. L’unico punto fermo è che, con genitivo partitivo, l’espressione va intesa come “uno dei seguaci di...”. Che fare di οἱ ἀμφὶ Ὀρφέα? Platone usa il costrutto in senso esclusivo (Orfeo non è coinvolto nell’azione predicata dal verbo) o inclusivo? E in questo caso, l’uso del nome proprio di Orfeo implica che i suoi seguaci ripropongano le concezioni di cui è autore o che si rifacciano convenzionalmente a lui? Credo che nel Cratilo Socrate usi il costrutto in senso esclusivo, dal momento che attribuisce ai seguaci di Orfeo una concezione del corpo molto vicina a quella dello stesso Platone, e quindi non attribuibile a Orfeo stesso, il quale, come vedremo più avanti, è considerato alla stregua di un poeta del tutto privo di velleità filosofiche. Inoltre, gli orfici avrebbero potuto difficilmente, agli occhi di Platone, aver instaurato un rapporto di apprendimento diretto con il

228 Per l’identità tra il personaggio dell’omonimo dialogo e quello evocato nel Cratilo (396d-

397a) come ispiratore della δαιμονία σοφία etimologica socratica vd. NAILS 2002, 153. Un’interpretazione che prende sul serio il riferimento platonico alla sacralità dell’attività

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