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4 I MODELLI A INDICE

4.1.1 Dal Modello a Indice Singolo al CAPM

L’autore del modello di mercato riconobbe per primo un legame di tipo lineare tra il mercato e il singolo titolo e sulla base degli stessi studi, lo stesso Sharpe (1964), Lintner (1965) e Mossin (1966), indipendentemente, elaborarono il Capital Asset Pricing Model (CAPM), un modello di stima del rendimento del titolo, o rendimento di equilibrio del mercato, in funzione del rischio dell’investimento. In altri termini, il CAPM, assumendo un contesto caratterizzato da efficienza informativa, assenza di costi di transazione, orizzonte monoperiodale, omogeneità di aspettative, presenza di titoli a rischio nullo, etc., indica il trade off tra rischio e rendimento massimizzandone il rapporto. Nel modello in parola assumono importanza tre variabili: il tasso di rendimento dei titoli di Stato, o risk free rate (rf), il coefficiente di rischio sistematico beta (β), che riassume in termini di rischiosità, la correlazione esistente tra titolo e mercato, e il premio per il rischio (Pr) dato dalla misura in cui il rendimento del portafoglio di mercato (rm) è superiore al rendimento risk free. Ne deriva una stima del rendimento (ri) del titolo i come segue:

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(4.2) ri = rf + β (rm - rf) = rf + β (Pr)

Partendo dalla (4.1), sotto alcune ipotesi è possibile dimostrare che essa non è altro che una diversa interpretazione della formula di partenza di Sharpe:

(4.3) ri = rf + βi (Pr) = rf + βi (rm - rf)

ri = rf + βi rm - βi rf

ri = (1- βi) rf + βi rm

Essendo (1- βi) la componente di rischio rf non spiegata dal βi, ponendo αi = (1 - βi) rf è possibile ottenere la retta di regressione:

(4.4) ri =αi + βi ∙ rk + i

dove rm = rk

La relazione appare più chiara qualora si considerino le formule in termini di rendimento atteso dove, grazie alle ipotesi assunte circa la diversificazione, il termine di errore stocastico i assume un valore pari a zero.

Tuttavia, la stessa è valida solo nel caso in cui sia ragionevole ritenere un valore di αi prossimo allo zero. Se fosse vero il contrario, la relazione non sarebbe in grado di spiegare una quota significativa dei rendimenti in eccesso dei titoli. Questa ultima situazione implicherebbe, quindi, l’esistenza di altri fattori oltre il rendimento in eccesso del portafoglio di mercato che influenzano i rendimenti dei titoli. In altre parole se αi > 0 (αi < 0) in maniera significativa, i rendimenti in eccesso dei titoli sono superiori (inferiori) a quanto stabilito dal CAPM.

Nel caso in cui sia ragionevole ritenere αi ≅ 0, il modello sembrerebbe essere molto simile al CAPM ma, nella realtà vi sono due importanti differenze: la prima riguarda la diversità di obiettivo in quanto il CAPM cerca di spiegare la formazione dei prezzi in un mercato di equilibrio mentre il Market Model cerca solo di semplificare i calcoli per la stima del rendimento senza assumere ipotesi di equilibrio; la seconda differenza

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riguarda invece il portafoglio utilizzato per calcolare il beta, uno è rappresentato dal mercato comprendente tutte le attività (CAPM), l’altro da un indice di riferimento di quest’ultimo (esempio l’indice FTSE Italia All Share per le azioni italiane).

Infine, per quanto riguarda un portafoglio composto da più asset, le considerazioni fatte sopra per un solo titolo, valgono nella solita misura per un insieme di posizioni rischiose. Il procedimento sarà ripetuto tante volte quante sono i singoli asset. Risulterà pertanto una mappatura su K fattori di rischio che andranno a sostituire gli N titoli del portafoglio.

Benché alcune delle ipotesi sottostanti appaiano lontane dalla realtà, il CAPM divenne comunque oggetto preferenziale di numerosi studi, finalizzati di volta in volta ad estenderne la valenza pratica. Tra i lavori più significativi condotti intorno al modello in parola si colloca senza dubbio quello di Black del 1972 meglio noto come Zero-Beta CAPM, che adattava le versione originale al caso in cui non fosse disponibile sul mercato un impiego/finanziamento al tasso certo sostituendolo con un’attività o un portafoglio di mercato, e ancora quello di Treynor e Black del 1973. Quest’ultimo sanciva in via definitiva alcune regole guida fondamentali per la gestione di portafoglio mediante strategie di benchmark, o in alternativa tramite strategie attive, riconducibili ad una serie di scommesse avanzate sulle performance prospettiche dei singoli titoli dato che, come gli autori evidenziarono, sul mercato non tutti possedevano le stesse informazioni e pertanto alcuni titoli potevano essere valutati in maniera non efficiente dando luogo così a possibili arbitraggi. Il modello quindi, date le condizioni di informazione non perfettamente distribuita, costruisce il portafoglio ottimale come una somma di due “sottoportafogli”: il primo a gestione passiva46

, contenente tutte quelle attività cui il valore di mercato corrisponde al valore reale (a parer dell’investitore) e l’altro a gestione attiva47

comprendente tutti quei titoli per cui il soggetto prevede la

46 La gestione passiva è una strategia di investimento con la quale il gestore di un portafoglio minimizza

le proprie decisioni di portafoglio al fine di minimizzare i costi.

Nell'ambito di questa strategia, è comune ricorrere al metodo di replica dell'andamento di un indice di mercato (detto benchmark) o di una composizione di essi, acquistando attività finanziarie nella stessa proporzione dell'indice scelto. Tale approccio è più comune nella gestione dei portafogli azionari, attraverso la creazione dei cosiddetti fondi indice, che replicano l'andamento di un indice azionario.

47 La gestione attiva è una strategia di investimento con la quale il gestore prende una molteplicità di

decisioni di investimento nel tempo, finalizzate a ottenere una performance superiore al benchmark, esponendolo perciò ad un rischio maggiore rispetto a tale indice.

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possibilità di un extra guadagno dato dalla personale convinzione di un valore di mercato sottostimato.

L’idea per cui il rendimento in eccesso sul tasso risk free corrisposto dal generico investimento, o portafoglio di investimenti, è commisurato al rendimento in eccesso del portafoglio di mercato per mezzo di un coefficiente segnò così il definitivo passaggio alla moderna teoria finanziaria. Tuttavia nel corso degli anni, le teorie del CAPM subirono numerose critiche e l’idea che il beta non fosse l’unico fattore in grado di spiegare i rendimenti dei titoli azionari prese sempre più corpo. Nell’ottica inquadrata nasce l’Arbitrage Pricing Theory (APT), sviluppata da Ross (1976) e Roll (1977), la quale evidenzia come i fattori che intervengono nella determinazione dei prezzi dei titoli sono molteplici. La stessa, infine, rappresentò l’ultimo anello di congiunzione tra il modello monofattoriale e quello multifattoriale. Infatti quest’ultimo nasce come supporto alla teoria che mancava di alcuni aspetti pratici.