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Modi di dire

Nel documento S EMANTICHE DELL ’I MPERO (pagine 104-111)

Cominciamo dalla strategia con cui sono inanellati i fatti, siano essi puntuali o inesatti o perfino omessi. Oltre a rilevare ciò che l’imperatore di-ce, con qualche sondaggio stilistico potremo cogliere anche cose che l’imperatore non fa trapelare, in modo deliberato e perfino inconsapevole.

Il racconto è alla terza persona, nel solco di un’antica tradizione, come per esempio il De Bello Gallico, un libro che Carlo V portò con sé nel ritiro di Yuste, quando ormai aveva abdicato a tutto e la sua vita era agli sgoccioli. Ma quel possibile modello classico non basta a identificare il genere lettera-rio di queste Memorie. Rispetto alla lezione che veniva dal Medioevo e dall’Umanesimo, esse rappresentano una rottura del canone. Fino ad allora, oltre ai santi, i soli uomini ritenuti degni di fama erano coloro che si distin-guevano con la spada. Toccava poi agli uomini di penna lasciare ai posteri la storia scritta delle gesta degli eroi. Chi, come il Marqués de Santillana o Jor-ge Manrique era abile sia nell’uso delle armi che delle lettere, non scriveva comunque di sé. O, per lo meno, non direttamente. Da questo punto di vista, le Memorie di Carlo V – che paiono essere state composte a metà del secolo

XVI – rappresentano una novità che il sistema letterario coevo stava inglo-bando velocemente con diverse declinazioni di genere, quali il romanzo pi-caresco, l’epica coloniale e le autobiografie di soldati.

Tuttavia, il caso dell’imperatore Carlo V non rientra nemmeno nel nuovo spazio autobiografico che si sta formando. Quando scrive queste Memorie, esistono già su di lui molte opere storiche coeve, di varia prove-nienza e fattura2. Alcuni testi si dovevano a umanisti prestigiosi, scelti diret-tamente dall’interessato per svolgere il ruolo di cronista imperiale. Il primo a ricevere l’incarico fu Antonio de Guevara, che in modo tanto diffuso ed ele-gante scrisse di Carlo V, senza mai giungere a comporre un libro che gli fos-se specificamente intitolato3. Il secondo fu Juan Jinés de Sepúlveda, autore di De Rebus Gestis Caroli Quinti, il quale raccoglie in minima parte testi-monianze oculari e racconta ciò che conviene al modello storiografico dei classici greci e latini 4 . Avere una buona cultura non giovava all’informazione storica quale si concepisce oggi. Valutare in modo affidabi-le la parabola di Carlo V è considerata un’impresa chimerica perfino dagli specialisti del secolo XX, a causa della debordante quantità di fonti e docu-menti sparsi per l’Europa. E, data la difficoltà di arrivare a una sintesi che agglomeri le molteplici dimensioni politiche di questo sovrano, ancora oggi si pubblicano lavori che dedicano capitoli separati a Carlo I di Spagna e a Carlo V imperatore5.

Resta il fatto che l’autore di queste Memorie fa tutto da solo: compie le res gestae e redige la historia rerum gestarum, nell’età in cui in pittura si sta affermando l’autoritratto e nelle lettere fa capolino la scrittura dell’io. Inver-te, pertanto, quella che per Lotman è il diritto alla biografia, cioè il diritto a trasformare le esperienze di un individuo in una storia modellata dai codici culturali di una determinata epoca6. L’imperatore – nonostante le molte ver-sioni pubbliche della sua biografia – si attribuisce unilateralmente il diritto di riscrivere da sé la storia della propria vita, facendo confluire nella sua perso-na funzioni fino ad allora divise. La sua è infatti uperso-na scrittura mondaperso-na, riperso-na- rina-scimentale nel senso che pone sé stesso al centro del proprio destino. Appare invece priva degli ornamenti umanistici in voga, che imponevano sempre l’ideale sul reale. Carlo V era stato uno studente svogliato che preferiva

2 V. De Cadenas y Vicent, Las supuestas “Memorias” del Emperador Carlos V, Hidalguía, Madrid 1989, pp. 59-62.

3 A. Morel Fatio, op. cit., pp. 21-41.

4 Ivi, pp. 42-72.

5 J. Lynch, Los Austrias (1516-1700), Crítica, Barcelona 2000.

6 J. Lotman, Il diritto alla biografia. Il rapporto tipologico fra il testo e la personalità

dell’autore, in La Semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, a cura di

samente la vita attiva a quella contemplativa. Ignorando i precetti letterari, si prese ampie libertà nelle forme e nei contenuti delle sue Memorie, per esem-pio non ricorrendo alla mitologia greca e romana e quasi ignorando anche la provvidenza divina. Quest’ultima emerge per lo più dove proprio non pote-va mancare, pote-vale a dire nella parte in cui l’autore racconta le guerre di reli-gione contro i protestanti. La sua straordinaria missione imperiale resta sot-tintesa come una linfa invisibile.

Fin dall’inizio del testo il narratore e protagonista si designa come l’”Archiduque Carlos”, “neto” dell’Imperatore. Di questi egli loda la “pru-dencia”, la virtù di chi governa, nonché l’“esforço costumado”, la virtù di chi fa la guerra7. Tali sono i caratteri della stirpe prescelta da Carlo per la propria presentazione. Si tratta di quella patrilineare. Poche righe più sotto, l’imperatore si riferisce a se stesso come a “Sua Mag[estade]”, adottando quindi il punto di vista del narratore adulto e non quello del protagonista adolescente della storia appena iniziata. Siamo già nel 1516 e Carlo (non an-cora I né V) registra tre avvenimenti che lo riguardano. L’ordine in cui li e-lenca è una spia delle sue priorità politiche: la visita alla parte dei Paesi Bassi che ancora non aveva salutato in veste ufficiale; la sua prima convocazione, a Bruxelles, del capitolo dell’Ordine del Toson de Oro, il cui titolo gli era stato conferito dal padre quando aveva appena un anno; l’acquisizione del regno di Castiglia e Aragona. Messa in coda alla lista, questa notizia è a dir poco laconica. Ma c’erano molti motivi per non dilungarsi troppo sull’argomento.

Recita testualmente il passo: “E foi o anno em que morreo El Rey Ca-tholico, e dentão por diante o Archiduque tomou o titulo de Rey”8. Fregiarsi di questo titolo era come minimo una forzatura, messa in atto dal sagace Guillaume de Croy. Poiché aspirava alla carica elettiva di imperatore, Carlo aveva tutta la convenienza a presentarsi in veste di re piuttosto che di arcidu-ca. Tuttavia, rispetto al nonno spagnolo che gli offriva da morto tale fortuna, il nipote non esplicita nemmeno il rapporto di parentela. Malgrado la sua faccia fosse inequivocabilmente asburgica, Carlo aveva nelle vene molto più sangue iberico che francese o tedesco9. Ma Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, i re cattolici che nel 1492 avevano espulso gli ebrei e conquista-to l’ultima roccaforte araba, non sono nei pensieri di Carlo. Paradossalmente egli avrebbe finito per farsi spagnolo al di là di ogni aspettativa. Eppure tale metamorfosi, ancora incompleta nel momento in cui redige queste Memorie, non incide affatto nella retrospettiva dei suoi esordi politici. Pur essendo il

7 A. Morel Fatio, op. cit., p. 186.

8 Ivi, p. 188.

difensore della stessa religione dei nonni spagnoli, l’interesse di Carlo si sa-rebbe spostato su altri nemici, vale a dire gli eretici luterani e i turchi infedeli. Qualunque sia la ragione, in questo punto del testo l’ascendenza matrilineare è omessa.

Eppure della madre non può fare a meno di parlare e non proprio per ragioni sentimentali. Vi accenna poco più avanti, quando ricorda il suo viag-gio in Spagna, con un seguito di borgognoni raffinati, sprezzanti e avidi, di cui non fa parola. A diciassette anni, Carlo metteva piede per la prima volta in una terra di cui ignorava quasi tutto, non ultima la lingua. Non era questo il caso del fratello minore Ferdinando, che in Castiglia era nato e cresciuto e che buona parte della nobiltà locale avrebbe decisamente preferito come re-gnante. In una situazione dinastica tutt’altro che stabile, avviene l’incontro fra i due possibili contendenti, registrato da Carlo in questo modo: “indo á Mojados, achou ao Infante Dom Fernando seu irmão, ao qual recebeo com grande e fraternal amor”10. L’aspirante imperatore e ancora incerto re spa-gnolo tiene con sé il fratello fino al 1518, anno in cui lo fa andare nei Paesi Bassi, alla corte della zia Margherita, allontanandolo quindi da eventuali so-stenitori autoctoni. La notizia è data in modo essenziale, senza che trapeli al-cuna rivalità. Sapendo la piega che avrebbe preso la storia europea nel corso dei decenni successivi, e sapendo anche quanto temibile fosse Ferdinando nel momento in cui queste Memorie venivano scritte, è difficile stabilire se questa scelta si debba soltanto alla logica del potere.

Le omissioni sono di varia natura. Per esempio, l’imperatore non no-mina mai la sorella maggiore Leonor, che lo accompagna nel suo primo viaggio in Spagna: in quel momento la giovane non è un familiare politica-mente rilevante. Né sono degni di nota gli abitanti delle regioni spagnole che non hanno peso nel suo futuro di sovrano. Ciò che successe quando approdò alla costa delle poverissime Asturie non gli strappa neanche una parola. Cre-dendolo un invasore, gli abitanti si spaventarono tanto da fuggire armati sul-le montagne. Ma Carlo si cura solo di ciò che riguarda il suo ruolo non anco-ra legittimato in Spagna. La tanco-raversata, l’approdo e il viaggio all’interno del-la Castiglia vengono così sintetizzati: “embarcandose sua Mag. em Vlissin-ga, como ditto he, passou o mar do poente, e veo á Hespanha a primeira vez, onde esteve tee o anno de 20. E continuando seu caminho atee Tordesillas, foi beijar as mãos á Rainha sua mai […]”11.

Perché menziona qui la regina? Non aveva egli già ereditato il titolo di re di Castiglia e di Aragona? Non del tutto o non così chiaramente. Sua ma-dre, che fino al 1555 regnò forse di diritto ma non certo di fatto, era stata

10 A. Morel Fatio, op. cit., p. 188.

prannominata non a caso Giovanna la Pazza. La visita del figlio che vedeva quell’estranea per la prima volta da quando era piccolo durò una settimana. Tanto aveva impiegato il lungimirante Guillaume de Croy per assicurarsi che la regina non pretendesse di esercitare il suo potere. A Tordesillas, la madre di Carlo viveva in un isolamento che, dopo quella visita, diventò se-gregazione. E segregata rimase anche la sorella minore Catalina, l’unica fi-glia da cui la regina non voleva staccarsi. Era nata dopo che l’amatissimo marito era già morto e Carlo la vedeva per la prima volta, come il fratello Ferdinando. Ma nemmeno lei è un soggetto politico e non ha posto in queste Memorie.

Ogni tanto vi affiorerà invece la madre scomoda, un fantasma che morì solo tre anni prima di suo figlio imperatore, che fu obbligato a condividere con lei il titolo di re di Spagna fino al momento in cui decise di abdicare. Si capisce dunque perché non tralasci questo nodo giuridico, pur senza rivelar-ne i retroscena. Si trattava di una imposiziorivelar-ne della nobiltà spagnola, per niente entusiasta della sua venuta. Annotando dunque di aver convocato le Cortes di Castiglia a Valladolid, al fine di ottenerne ufficialmente l’investitura, egli scrisse: “foi jurado por Rey juntamente con a Rainha sua mai”12.

Ottenere la stessa investitura dimezzata richiese mediazioni laboriose anche nel regno di Aragona. Ancora più complesse furono le negoziazioni con la Catalogna. Ma proprio mentre si stava spostando dall’uno all’altro ter-ritorio, quello che era soltanto il re Carlo I “no caminho soube da morte do Emperador Maximiliano seu avo”13. Di nuovo la genealogia che gli sta cuo-re è messa bene in risalto, perché egli sa già cosa gli sacuo-rebbe successo. I con-flitti e gli intrighi che precedono ogni sua affermazione politica sono rimossi. Si veda, per esempio, il silenzio che avvolge la sua complicata elezione a imperatore, così costosa sul piano diplomatico ed economico. Quando scrive questa prima parte delle Memorie, l’imperatore si attiene ai dati nudi, positi-vi, alla concatenazione degli effetti trionfali, senza alcun esame delle cause determinanti, né tanto meno degli scampati pericoli. Carlo V asserisce senza spiegare o provare. Concisamente ricorda che a Barcellona, nel 1519, men-tre erano riunite le Cortes che gli dovevano dare l’investitura di re, “lhe vie-ram novas da sua eleição ao Imperio, a qual lhe foi mandada denunciar pelo Duque Federico Conde Palatino. De là se partio para se ir embarcar em a Corunha, e tomar a primeira coroa em Aquisgran”14.

12 Ibidem.

13 Ivi, p. 190.

In realtà egli partì quasi un anno dopo, dovendo preparare il viaggio con l’aiuto del suo regno di riferimento, la Castiglia, la terra più ricca della Spagna. Ai nobili locali, già poco felici di averlo come re, non interessava che diventasse anche imperatore, la cui politica sovranazionale non li riguar-dava. Eppure è a La Coruña, dove aveva riunito le Cortes, che Carlo I, sul punto di diventare Carlo V, presenta il suo programma di difensore mondia-le della fede cattolica. In realtà questa è la scusa per battere cassa, ma con il senno di poi le precarietà degli inizi dovettero sembrargli di nessuna impor-tanza. E tace al riguardo, come pure tralascia altre questioni rilevanti di quel momento, prima fra tutte la dirompente rivolta dei comuneros.

La secchezza comunicativa non varia con l’avanzare del racconto. L’imperatore, per esempio, snocciola parecchi fatti rilevanti in poche righe: la sua partenza da Vienna, salvata poco prima dall’assalto dei Turchi; l’epidemia di peste che colpisce l’esercito; l’ammutinamento di una guarni-gione italiana, lasciata a difesa del territorio austriaco; il secondo incontro poco fruttuoso con il papa Clemente VII, avvenuto a Bologna; il ricongiun-gimento con l’imperatrice a Barcellona, dopo quattro anni di assenza15. A Bologna Carlo V aveva incontrato anche Tiziano, della cui arte tanto si sa-rebbe compiaciuto poiché aveva la capacità di nobilitare artisticamente la sua immagine pubblica. Al 1533 risale, infatti, il magnifico ritratto Carlo V con un cane, che reinterpreta un precedente ritratto ideato e dipinto da Jacob Seisenegger. Era stata così soddisfatta una richiesta dell’imperatore, che però non include tali vanità nelle sue Memorie.

Lo stile del testo rimane uniforme fino quasi alla fine, con l’eccezione delle guerre di Germania (1546-1547), che per Carlo V realizzano il sogno di unificazione religiosa dei territori dell’Impero. Solo a questo punto la die-gesi delle sue Memorie si espande, cede a una narrazione più varia e mode-ratamente appassionata. Per esempio, si metta a confronto questa parte del testo dell’imperatore con il Comentario de la Guerra de Alemania hecha por Carlos V, máximo emperador romano, rey de España, di Luis de Ávila y Zúñiga, un altro dei cronisti ufficiali che in questo caso aveva il privilegio di essere davvero un testimone oculare e che seguì l’imperatore anche a Yu-ste, nel tempo del declino. Limitatamente a queste guerre, fra la testimonian-za di Luis de Ávila, subito pubblicata a Venezia nel 1548, e quella di Carlo V, che parrebbe composta due anni dopo, le differenze saltano all’occhio. Da un lato il cronista ossequia l’imperatore lodando in modo ricorrente e to-pico il suo operato virtuoso e straordinario, che paragona a quello di Cesare e Carlomagno. Dall’altro, lo riverisce con la non meno topica consegna del silenzio, un’autocensura che gli fa scartare dalle proprie pagine qualunque

ombra che possa offuscare l’immagine del supremo esecutore dei disegni della provvidenza divina16. Così l’ideale del potere vaglia la verità e ne for-nisce la versione più conveniente, secondo una pratica socialmente condivi-sa.

A questo punto l’indagine comparativa finisce per andare a tutto van-taggio delle Memorie, il cui protagonista e narratore appare – per differenza – umanissimo. Oltre a descrivere accampamenti e trincee brulicanti di solda-ti, oltre a indugiare su battaglie e scaramucce fra le rive del Danubio e dell’Elba, Carlo V si vanta della sua lungimiranza strategica per smussare alcuni errori tattici; oppure ammette qualche umiliazione per sottolineare la condotta di alleati poco limpidi. Insomma non confonde la propria forza, di cui va molto fiero, con l’onnipotenza che gli attribuiscono i cronisti imperia-li, benché ai posteri sia chiaro che egli misurò per difetto le intenzioni sia de-gli avversari che dei sostenitori. Per esempio, il cronista Luis de Ávila si guarda bene dal riferire che Paolo III decise di ritirare le truppe pontificie di stanza a Ulm, all’inizio del 1547. Era un affronto che blandiva di fatto non solo il re di Francia, nemico di Carlo V, ma che beneficiava gli eretici prote-stanti. L’imperatore tenta inutilmente di evitare il danno. Alla fine lo subisce e ne scrive:

E por mais que o Emperador instou que tal não fizesse e que quisesse ter parte na honra da victoria, o não quis ouvir, e assi os d[ichos] Italianos se foram. E achandose sua Mag. Confuso de ver de huma banda que mal podia dividir suas forças e da outra que sua saude pedia cura, estava em duvida ao que devia accodir17.

Ammissioni del genere hanno rilevanza dal punto di vista di una scrit-tura autobiografica che si stava facendo strada fra convenzioni e istituzioni di tutt’altra natura. L’eredità letteraria del passato e l’intransigenza ideologica del presente stavano ingessando l’espressione di ogni contenuto fattuale en-tro griglie anacronistiche. Oggi gli storici, che sono i naturali specialisti di queste Memorie, badano fondamentalmente ai contenuti, e con ragione dal punto di vista della loro disciplina. Ma passaggi come questi rappresentano delle novità destinate a emergere in modo duraturo nell’ambito della rappre-sentazione biografica e autobiografica. La concezione del discorso destinato a esprimere la verità sta cambiando. È in corso un conflitto fra le regole del

16 L. de Ávila y Zúñiga, Comentario de la Guerra de Alemania hecha por Carlos V, máximo

emperador romano, rey de España, en el año de MDXLVI y MDXLVII. Venetia, 1548,

Bi-blioteca Virtual Miguel de Cervantes, Alicante 2001.

decoro comunicativo e le spinte a raccontare l’esperienza senza sotterfugi. Non si deve dimenticare che la partigianeria era la regola, non l’eccezione. Malgrado le rituali rivendicazioni di attendibilità da parte dei cronisti, legate alla loro presenza fisica sul luogo degli avvenimenti o almeno al giusto va-glio dei resoconti dei testimoni oculari, si finiva per avere il panegirico o il vilipendio. Il fatto che il protagonista delle Memorie, pur consapevole del proprio ruolo, metta per iscritto certe sue debolezze politiche non era con-templato da alcun canone, mentre era ovvio che ciò rientrasse nelle preroga-tive degli oppositori. È dunque in gioco la nascita di un soggetto nuovo, im-prevedibilmente sincero.

Nel documento S EMANTICHE DELL ’I MPERO (pagine 104-111)

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