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Quante storie

Nel documento S EMANTICHE DELL ’I MPERO (pagine 117-141)

Il manoscritto portoghese è tutto quello di cui disponiamo oggi. Lo ac-compagna una lettera che il traduttore anonimo afferma essere di pugno dall’Imperatore e composta in spagnolo, mentre le Memorie che traduce so-no in francese. Trovandosi in una situazione di estremo pericolo, Carlo V invia precipitosamente il proprio testo al principe Filippo, con queste parole:

Esta historia es la que yo hice en romance, quando venimos por el Rin y la acabe en Augusta: ella no esta hecha como yo queria. Y Dios sabe que no la hize con vanidad, y si della El se tuuo por ofendido, mi ofensa fue mas por ignorancia que por malicia: por cosas semejantes el se solía mucho en-ojar, no queria que por esta lo uviese hecho agora conmigo. Assi por esta como por otras ocasiones no le faltaran causas. Plega a el de templar su yra, y sacarme del trabajo en que me veo. Yo estuue por quemarlo todo, mas porque, si Dios me da a (sic) vida, confio ponerla de manera que el no se de-seruira della, para que por aca no ande en peligro de perderse, os la embio, para que agays que alla sea guardada y no abierta hasta…

En Inspruch, 1552 Yo, el Rey

In questa lettera33 compaiono elementi come il senso di colpa, il timore del castigo di Dio e la professione di umiltà, anche letteraria, che sono estra-nei al discorso delle Memorie, mentre si riallacciano alle preoccupazioni che – si dice – Carlo V abbia espresso a Francisco de Borja, nella sua ultima mora di Yuste. Rispetto al presunto momento della loro redazione, vale a di-re il 1550, la fortuna dell’imperatodi-re è capovolta. Quando egli scrive da In-nsbruch, sta calando da nord l’esercito protestante dei principi guerrieri. Si sono riorganizzati e, tappa dopo tappa, hanno azzerato le conquiste che egli aveva felicemente concluso quattro anni prima. La lettera appare interrotta ad effetto e questo ne rende sospetta l’autenticità. Circa il momento opportu-no di far coopportu-noscere questa sua testimonianza, la volontà dell’imperatore vie-ne fagocitata da tre puntini sospensivi. Se poi egli avesse scritto la lettera a maggio, prima della sua precipitosa fuga notturna verso Dobbiaco, in com-pagnia di soli cinque servitori, il brivido per il destino che l’aspettava sareb-be assicurato.

Vi è infine il dilemma della lingua. Afferma l’imperatore che la sua storia, qui ridimensionata a canovaccio di una versione futura da comporre nei dovuti modi, è stata scritta in romance. Si aprono allora due possibilità.

Sarà il francese, la prima lingua del protagonista, oppure lo spagnolo, la sua lingua d’adozione? Ecco un ulteriore dilemma rimasto senza risposta. Morel Fatio, convinto che l’originale fosse stato redatto in francese, si spinge fino ad analizzare il possibile stile dell’imperatore a partire dalla sola traduzio-ne34. Fernández Álvarez, che fa propria la tesi contraria appoggiandosi allo studio linguistico di Karl Brandi, precisa che il termine romance “era sinó-nimo de castellano” e che “una traducción casi literal del manuscrito portu-gués ofrece un texto muy similar a los otros escritos castellanos del Empera-dor”. Ribadisce, quindi, che il manoscritto portoghese “corresponde a una versión directa del original de las Memorias”35.

È una certezza che sconfina nella fede. Cadenas y Vicent, che alla fine della sua indagine ammette di non poter offrire alcuna conclusione, con i da-ti finora disponibili si atda-tiene unicamente a tre ipotesi. A suo parere queste Memorie possono essere una “copia-traducción del original redactado por el Emperador”; oppure una “copia-tradución de las posiblemente reescritas por Van Male”; o ancora un “invento completo desde la primera a la última línea, incluyendo la carta de justificación”36. Del metaforico autoritratto di parole che sono le Memorie di Carlo V non abbiamo l’originale, solo una traduzione non commisurabile. In linea di principio, essa dovrebbe “dire quasi la stessa cosa”37, ma non c’è per noi possibilità di confronto e di rin-vio. Non sappiamo dove siano le perdite e dove le compensazioni eventuali. Mentre siamo in grado di vedere come l’immagine che di Carlo V ripropone Tiziano mostri quasi la stessa cosa di quella dipinta da Seisseneger, le Me-morie in portoghese di Carlo V sono invece una maschera senza volto, una forma disancorata sia dall’autore che dal modello.

Tema affascinante e sempre attuale per chi si occupi di letteratura, a partire per lo meno da un polveroso mucchio di scartoffie (un “cartapacio”), trovato per caso da un lettore avido che da allora in poi cesserà di essere un narratore scontento. Aveva infatti dovuto interrompere il racconto avventu-roso a cui stava lavorando, perché il manoscritto anonimo da cui traeva le in-formazioni era monco. L’azione cruciale del protagonista, minacciato dalla spada di un avversario di basso rango, era dunque rimasta congelata sine die. Ma una storia priva della fine non ha senso38 e comprensibilmente il suo “segundo autor”, come egli stesso si definisce, non rinuncia alla speranza

34 Ivi, pp. 175-180.

35 M. Fernández Álvarez (a cura di), op. cit., p. 474.

36 V. de Cadenas y Vicent, op. cit., p. 47.

37 U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani, Milano 2003.

38 F. Kermode, The sense of an ending: studies in the theory of fiction, Oxford University Press, London 1970.

che negli archivi e nelle scrivanie della regione ci siano tracce ulteriori del suo eroe, che a suo parere non merita certo l’oblio. Ma quelle tracce egli le trova invece in una strada di Toledo e quando meno se lo aspetta, grazie al suo incondizionato amore per la lettura che gli fa rovistare perfino i vec-chiumi scritti in una lingua che non conosce, l’arabo. È così che, nel fascio di anticaglie che svende un ragazzino, il narratore rimasto senza argomento si imbatte in un libro che attira la sua attenzione, pur senza capirci niente. Ha bisogno di sapere. Va allora in cerca di un morisco – un arabo convertito – che possa dirgli di cosa parla quel testo. Il morisco alfabetizzato lo apre a metà, scorre con gli occhi qualche riga e scoppia a ridere di gusto. Ecco sta-bilito all’istante il vincolo fra chi non solo è capace di leggere-in-comune, ma anche di condividere il valore della comicità, benché i due provengano da culture in conflitto. Si incontrano intorno a una figura femminile: incom-parabile dama per un solo cavaliere e rozzissima contadina per tutti gli altri. Questa incarnazione lacerata dell’apparire e dell’essere prova che quel libro fortunosamente sottratto all’incuria riguarda proprio ciò che il narratore stava cercando con trepidazione. Gli è capitata fra le mani la Historia de Don Qui-jote de la Mancha, escrita por Cide Hamete Benegeli, historiador arábigo. È il suo feticcio. Compra il libro insieme al resto delle carte fra cui era con-fuso e assolda il morisco per farsi tradurre subito tutti i documenti relativi al suo eroe “en lengua castellana, sin quitarles ni añadirles nada”39. La fedeltà alla lettera dei testi non è negoziabile, poiché ne va della verità, lo scopo di chi si documenta con scrupolo e passione. Il nostro lettore/narratore ha fi-nalmente accesso ad altre avventure di colui che lo ha coinvolto a tal punto da indurlo a restituirne al mondo la storia spezzata con un nuovo discorso: il suo. Egli non può trattenersi dal diffondere quanto ha riconosciuto come proprio e reso presente a se stesso sia per ragioni evidenti, legate alla società del suo tempo, che per moti inconsapevoli. Poiché è una vicenda che lo ri-guarda, se ne fa portavoce e diventa un nuovo anello della tradizione.

Questa celeberrima discontinuità inventata da Cervantes ci consente le scorciatoie dell’analogia, stabilendo una relazione di tipo paradigmatico con le Memorie di Carlo V, pur sapendo che in tale relazione “non è mai possibi-le separare […] esemplarità e singolarità”40. Qui il vincolo è dato dai molte-plici racconti esistenti. Come la storia del cavaliere errante Don Chisciotte, la storia dell’imperatore errante Carlo V dipende da un palinsesto di fonti, in

39 M. de Cervantes, Don Quijote de la Mancha, Edición del Instituto Cervantes, dirigida por Francisco Rico con la colaboración de Joaquín Foradellas, Instituto Cervantes-Crítica, Barce-lona 1998, I, IX.

40 G. Agamben, Che cos’è un paradigma?, in Signatura rerum. Sul metodo, Bollati Borin-ghieri, Torino 2008, p. 33.

parte cercate e in parte fortuite, in parte veridiche e in parte fittizie. Inoltre, entrambe le narrazioni sono soggette alle rocambolesche incognite del desi-derio, al piacere del testo da leggere e da raccontare41.

Tanti sono i discorsi nati intorno alle Memorie di Carlo V ma, a tutt’oggi, non possiamo considerarle autentiche e nemmeno attribuirle alla pratica illustre delle contraffazioni. Mentre dimorano nel limbo degli indeci-dibili, che fare? Se si decidesse di svalutarle come testimonianza storiografi-ca, potrebbero essere prese in considerazione come un rifacimento dall’alto grado mimetico rispetto al modello autobiografico in uso. Il testo dell’imperatore diventerebbe allora il testo sull’imperatore. Carlo V passe-rebbe da persona vera a personaggio verosimile. Accantonato l’ambito fat-tuale dell’empiria, le sue Memorie potrebbero entrare nell’universo simboli-co della letteratura. E non simboli-come ripiego.

Dopo i dibattiti novecenteschi, che cosa rappresentino rispettivamente il discorso storiografico e il discorso letterario è noto. Nel vasto grembo delle sue possibilità, oggi più che mai la letteratura – così abituata alle commistio-ni di genere – potrebbe accogliere queste Memorie come un ready made narrativo, alla maniera dei manufatti strumentali recuperati alle arti visive da Marcel Duchamp. L’enigmatico imperatore sarebbe così oggetto di una co-noscenza traslata che si acquisisce secondo il principio del come se, all’incrocio di quei processi di configurazione del tempo umano che pro-muovono sia il racconto veridico che il racconto di finzione42. Della vita tur-bolenta di Carlo V molto è stato detto e molto resta da dire. Conserviamo queste sue Memorie come un piccolo reperto incastonato fra la trama e l’ordito del nostro infinito discorrere.

41 R. Barthes, Le plaisir du texte, Seuil, Paris 1973.

S : ’

DELL

IO NELLA NARRATIVA CINESE

DELLA TERRA NATIA

(1920-1930)

Il termine Impero utilizzato in questo contributo va inteso come una duplice metafora: da un lato come metafora di un codice di comportamento morale e sociale stratificatosi e consolidatosi nei secoli dell’impero cinese, dall’altro come un altrettanto stratificato e consolidato set di convenzioni narrative che contraddistingue in modo particolare la tradizione narrativa ci-nese in vernacolo fino alle soglie del Novecento. Entrambi questi modelli, com’è noto, entrarono in crisi nei decenni a cavallo tra il XIX e il XX secolo.

Nella Cina che si apriva al mondo e alla letteratura mondiale, cercando una propria collocazione dopo il primo impatto ed entusiasmo per sperimen-tazioni accentuate e occidentalismi malcelati, seguiti al cosiddetto Movi-mento del Quattro maggio 1919, la narrativa dedicata al villaggio, alla “terra natia” xiangtu xiaoshuo 乡土小说, può e deve intendersi come una ricerca nuova di identità culturale e artistica al medesimo tempo. Intorno al 1923, fu proprio l’angusto spettro delle tematiche fino ad allora trattate (per lo più au-tobiografiche) a spingere gli autori verso racconti più aperti alla società, ad ambienti estranei alla sfera strettamente personale: nacque così, sotto l’impulso del più grande scrittore cinese moderno, Lu Xun 鲁迅, il filone narrativo della “terra natia”, che spostava l’interesse e la creazione dall’individuo al villaggio, inteso come cronotopo culturale della Cina tradi-zionale. Permane naturalmente un aspetto autobiografico: come nel celebre racconto Guxiang 故乡 (Paese natale, 1922) di Lu Xun, il mondo rurale, in-fatti, viene identificato da questi autori nella propria infanzia e, metonimi-camente, nell’infanzia stessa della Cina la cui cultura tradizionale affonda le radici nella terra tu 土1.

I principali esponenti di questa corrente narrativa sono Wang Luyan 王 鲁彦, Xu Jie 许杰, Peng Jiahuang 彭家煌, Tai Jingnong 台静农, Xu Qin-wen 许钦文 e Qian Xian’ai 先艾. Un afflato nostalgico e intenti di critica

1 Il primo carattere del composto xiangtu (乡土), che qui traduciamo “terra natia”, è xiang 乡 che nella grafia non semplificata 鄉 rappresenta schematicamente due persone (rispettivamen-te identifica(rispettivamen-te da 乡 e 阝) sedu(rispettivamen-te una di fron(rispettivamen-te all’altra con un elemento significan(rispettivamen-te “cibo” al centro. L’offrire cibo all’ospite significava nella tradizione instaurare rapporti stabili con lui, il significato traslato del carattere portò nei secoli a identificare 鄉 con le origini, la famiglia.

sociale animano questa tendenza, le cui tematiche e suggestioni sono lirica-mente espresse nel seguente breve testo di prosa poetica.

Quattro uomini si muovono su un sentiero tra i campi, come quattro ombre, ciascuno abbraccia dentro di sé la propria solitudine e l’amarezza del mon-do.

La luce lunare è nebulosa, il villaggio è ormai lontano. Nel torrentello non scorre acqua, nei campi non c’è raccolto.

Il vecchio pioppo sulle tombe lungo la strada alla luce della luna sembra an-cora più rinsecchito e decrepito.

Solo il vento autunnale sta soffiando malinconico. Non c’è rugiada.

Un viaggio senza meta, dove stanno andando? Il mondo è un grande deser-to.

Tacciono soltanto, come delle ombre.

Camminano a testa bassa guardando la propria ombra scomparire nella pol-vere gialla, pensando al destino di coloro che hanno lasciato al paese nata-le.

Risale alla memoria la vita del tempo antico, oggi quella vita non tornerà più. Perciò i loro passi si fanno ancora più lenti.

Che vita era quella di un tempo? Bastava gettare in terra qualche seme ed era il raccolto. A cosa servivano mani e piedi?

La gente al villaggio soleva far fermentare il vino, tessere, ridere e cantare. C’era gioia nel lavoro. Bastava guadagnare cinque filze di monete, non era

forse un mu di terra propria?

Dolci erano i verdi germogli del grano, profumata la terra.

Ma poco a poco la terra è diventata incolta, e non appartiene più a loro. Quattro uomini si muovono su un sentiero tra i campi, come quattro ombre. Ma nuvole nere s’addensano intorno, ricoprendo la Madre Terra.

“Anche se piovesse, a che servirebbe? Che si può sperare di raccogliere dall’erba ingiallita e dai campi altrui? Chi se ne è andato non può più torna-re. È sempre stato così, sin dai tempi più remoti.”

Così camminano in silenzio, verso una terra ignota.

In fondo al cuore, inconsciamente, sprofondano nella tristezza di dover mo-rire lontano da casa.

Le rane in cerca d’acqua inseguite dalla serpe affamata lanciano un triste grido.

Il vento autunnale fischia incomprensibili maledizioni sulle campagne. “C’è un futuro nelle tenebre?”

Così il cuore intristito sprofonda come piombo, aggravando il pesante far-dello di ciascuno.

Muovendosi, in silenzio, le quattro ombre sono inghiottite dalla nera notte2. Sebbene questo testo non appartenga al filone narrativo qui trattato, del quale è comunque coevo, esso ben si presta a rappresentarlo, calando il letto-re nelle atmosfeletto-re ora amaletto-re ora nostalgiche e nelle tematiche, invece pesan-temente sociali ed economiche, di questo genere narrativo formatosi nella fase iniziale della Cina moderna. Rispetto alla produzione precedente, i rac-conti ‘della terra natia’ approdano a una maggiore sensibilità e complessità sul piano formale, pur rinunciando all’esasperazione di certi esperimenti3. Nei testi appartenenti a questa fase, che intende essere più rappresentativa dell’identità culturale cinese, le strategie narrative sono meno palesemente eccentriche e tuttavia, forse, più sottilmente compiute. Nondimeno, le inten-zioni cultural-nazionalistiche di rappresentare o ricostruire un’identità cinese dopo la crisi del millenario impero collidono in questo sotto-genere narrativo con una duplice contraddizione.

Da un lato, lo scontro/incontro con l’occidente e con la modernità (spesso coincidente nell’immaginario cinese con l’occidente stesso) era stato il primo fattore di crisi e di graduale annichilimento dell’Impero; dall’altro, la ricerca da parte degli scrittori e degli intellettuali del Novecento in genere di una identità autonoma e nello stesso tempo moderna si scontra con la con-sapevolezza della drammatica arretratezza e della necessità di riforma del mondo rurale. Questa sorta di “ricerca delle radici” cinesi ante litteram4 por-ta questi scrittori, paradossalmente, a doverle rigetpor-tare.

Il Movimento del Quattro maggio, citato all’inizio di questo contributo, tra i suoi primari obiettivi si poneva appunto una illuministica liberazione dell’individuo dal giogo del sistema imperiale, sia sul piano strettamente personale che su quello della comunità rurale, vittima da secoli di sfrutta-mento e superstizioni. In estrema sintesi la “narrativa della terra natia” mette in evidenza queste due contraddizioni: lo scontro tra Impero e modernità, e tra Impero e individuo.

2 Li Ni丽尼, Qiu ye 秋夜 (Notte d’autunno), 1934, in Li Ni,Ying zhi ge 鹰之歌 (Il canto

dell’aquila), Zhuhai chubanshe, Zhuhai 1997, p. 65. La traduzione di questo e degli altri brani citati è di chi scrive.

3 Per esempio di autori come Lu Xun e Yu Dafu 郁达夫 nei primissimi anni ’20: questi due autori, infatti, spiccano tra gli altri per l’uso di monologhi interiori, focalizzazioni variabili, in-versioni del tempo narrativo e altre tecniche stranianti, specie per la tradizione cinese.

4 Il movimento della xungen wenxue 寻根文学 (letteratura della ricerca delle radici) sorse al-la metà degli anni ’80 ed ebbe tra i suoi maggiori esponenti scrittori come Acheng 阿城 e Han Shaogong 韩少功.

Spinti da tali tumultuose ma concrete contraddizioni e aspirazioni, gli autori di questa narrativa, dedicata appunto alla terra e alle sue ataviche tra-dizioni, spesso percepite come nefaste, mostrano una padronanza notevole, per la loro giovane età, di tecniche e schemi narrativi innovativi nel quadro della letteratura cinese. La questione tuttora dibattuta è quanto essi fossero consapevoli di tali tecniche e strategie e quanto invece agissero per una in-conscia imitazione di alcuni testi della letteratura occidentale, abbondante-mente tradotta e introdotta in Cina tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Esiste, tuttavia, una terza possibilità: ossia che alcuni mecca-nismi narrativi della tradizione autoctona, re-inventati da questi scrittori alla ricerca di nuove strutture, possano aver condotto il testo narrativo a effetti stranianti, capaci di esprimere il malessere della società contadina in antitesi con il passato imperiale; benché ciò avvenga talora tramite il filtro della sog-gettività, l’autore da un lato impara sempre più a mascherarsi dietro la figura del narratore o tra le pieghe di punti di vista mobili, e, dall’altro, riduce sen-sibilmente la propria distanza dai suoi personaggi5.

Lo strumento adottato con maggiore forza e sottigliezza (anche se non sempre con i risultati attesi) nel tentativo di emancipare la “voce dell’io” dal-la “voce dell’Impero” è di certo l’uso del modo narrativo nelle sue più varie possibilità: si tratta di una scoperta notevole dato che la figura del narratore e il modo narrativo erano strettamente imbrigliati a canoni e convenzioni seco-lari, nati con il cosiddetto “contesto simulato” del narratore/cantastorie (lega-to alle origini orali della narrativa cinese) e conservati nel tempo, secondo Henry Zhao, “because they served some other purposes, the most important of which was to install a stereotyped narrative frame”6.

Questo modello viene decisamente infranto nell’epoca del Quattro maggio. È lecito quindi interrogarsi sull’efficacia del contrasto opposto nelle strategie narrative di questi autori a tali “echi imperiali”, intesi qui duplice-mente: sia sul piano ideologico, come espressione di una mentalità tradizio-nale ormai irrigidita in una stanca ripetizione e pedissequa interpretazione di modelli autoritari confuciani, intrecciati con le tradizioni del daoismo e del

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