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La moltiplicazione delle sedi di conciliazione quale (presunto) incentivo

3. Le novelle del Collegato lavoro Sacconi (l n 183/2010)

3.1.2 La moltiplicazione delle sedi di conciliazione quale (presunto) incentivo

Il legislatore del 2010 ha voluto alimentare la “buona conciliazione” e, per farlo, è ricorso anche all’espediente della moltiplicazione delle sedi conciliative. In questo modo, però, si è esposto alle critiche che derivano dall’avere attribuito competenze così delicate, come quelle che attengono alla composizione delle controversie di lavoro, a organismi e soggetti non adeguatamente, e soprattutto non appositamente, formati.

E’ stata però configurata una procedura conciliativa dettagliata e rigorosa, che ricalca quella prevista per l’esperimento del tentativo di conciliazione nelle controversie di lavoro pubblico sino all’entrata in vigore del Collegato. Se da un lato questa procedura pone una serie di regole probabilmente pensate dal legislatore per indurre le parti a svolgere con attenzione il tentativo di conciliazione nella speranza che esso si concluda positivamente, dall’altro, essa allontana dall’istituto della conciliazione per via della sua eccessiva rigidità.

Bisogna, tuttavia, dare conto del fatto che le sedi conciliative hanno in realtà adottato prassi più semplici e rapide della procedura di legge.

E’ diffusa innanzitutto la prassi della richiesta congiunta alla competente Direzione territoriale del lavoro della convocazione per l’espletamento del tentativo di

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Cass. civ., sez. lav., 19 giugno 2006, n. 14087, in Riv. it. dir. lav., 2007, II, p. 188 e ss., con nota di PARDINI A.

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Ex multis, TISCINI R., Il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, p. 1087 e ss.

conciliazione facoltativo. Lo stesso Ministero del lavoro ha predisposto un apposito

modulo di richiesta congiunta41 che il lavoratore e il datore di lavoro richiedenti possono

compilare con i propri dati (compresa, per quanto riguarda il lavoratore, l’indicazione del contratto collettivo applicato al rapporto e, per quanto riguarda il datore di lavoro, l’indicazione del numero dei dipendenti occupati in azienda all’atto della richiesta) e con la descrizione dell’oggetto della controversia, ed inviare alla Direzione territoriale affinché questa proceda a convocarli per la sottoscrizione dell’accordo già raggiunto.

La prassi, dunque, ha aggirato la volontà del legislatore di fare in modo che la fase conciliativa, peraltro resa facoltativa, non si limitasse ad essere il momento di ratifica di un’intesa già raggiunta in altra sede dalle parti, ma si trasformasse, anche attraverso la predeterminazione di un procedimento rigoroso, in un vero momento di confronto per l’elaborazione dell’accordo.

La prassi dimostra il fallimento della procedura di cui al nuovo art. 410 c.p.c. Essa è applicabile a tutte le controversie di lavoro, sia del settore privato, sia di pubblico impiego, con espressa abrogazione per mano del Collegato lavoro degli artt. 65 e 66 del d.lgs. n. 165/2001. Sono stati abrogati dall’art.31 del Collegato anche gli artt. 410 bis e 412 bis c.p.c.; sono stati, invece, novellati gli artt. 410, 411, 412, 412 ter e 420, comma 1, c.p.c.

Il procedimento per la conciliazione in sede amministrativa presso gli uffici ministeriali, di cui all’art. 410 c.p.c., dovrebbe prendere avvio da una domanda di parte di convocazione della Commissione di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro territorialmente competente. La competenza territoriale deve essere individuata secondo i parametri dettati dall’art. 413 c.p.c.

La Commissione è composta dal direttore dell’ufficio stesso o da un suo delegato o da un magistrato collocato a riposo, in qualità di presidente, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei datori di lavoro e da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei lavoratori, designati dalle rispettive Organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello territoriale. Quando ve ne sia la necessità (ma è ciò che comunemente accade, anche per far fronte alla scarsità di risorse umane a tale scopo disponibili), le Commissioni affidano l’esecuzione del tentativo di conciliazione a proprie sottocommissioni, presiedute dal direttore della Direzione territoriale del lavoro o da un suo delegato, che rispecchino la composizione prevista dal terzo comma. In ogni

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Il modulo può essere scaricato dal sito istituzionale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, alla sezione dedicata alla modulistica.

caso per la validità della riunione è necessaria la presenza del presidente e di almeno un rappresentante dei datori di lavoro e almeno un rappresentante dei lavoratori.

Il Collegato lavoro ha introdotto una novità anche nella composizione della Commissione (o delle sottocommissioni) di conciliazione, che può essere presieduta dal direttore dell’Ufficio del lavoro, ma in alternativa anche da un magistrato collocato a riposo in qualità di presidente. La novità sembra essere stata dettata dall’esigenza, da più parti avvertita prima della riforma, di rendere l’Organo collegiale professionalmente più qualificato e più autorevole. A quanto consta, però, la previsione non è stata sfruttata a beneficio del migliore funzionamento della conciliazione, in quanto restano a presiedere le Commissioni amministrative i funzionari ministeriali. Forse questo accade per prassi e per fare in modo che la gestione dell’attività conciliativa resti una prerogativa ministeriale. Ad ogni modo non è facile trovare magistrati in pensione disposti a svolgere

questi compiti dietro compensi modesti42. Si tratterebbe di trovare persone disposte a

svolgerli per assicurare un servizio ai cittadini, alla collettività e al sistema della giustizia, e a mettere in secondo piano il proprio interesse ad un compenso elevato.

Nel prevedere che la Commissione debba essere composta da quattro rappresentanti del datore di lavoro (e quattro supplenti) e da quattro rappresentanti dei lavoratori (e quattro supplenti), i quali devono essere designati dalle Organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello territoriale, la legge del 2010 ha accolto un’istanza emersa nella precedente esperienza, che aveva evidenziato l’opportunità di valorizzare la rappresentanza sindacale decentrata: si è fatto riferimento al criterio della maggiore rappresentatività piuttosto che a quello, ormai molto utilizzato dalle leggi sul lavoro, della rappresentatività comparativa.

Tornando all’atto introduttivo della procedura, l’art. 410 c.p.c. prescrive che la richiesta di esperimento del tentativo, che la parte interessata può presentare anche per il tramite dell’associazione sindacale alla quale conferisce mandato, deve necessariamente contenere una serie di requisiti. Essi mutuano i requisiti che erano previsti dall’art. 66 del Testo unico sul pubblico impiego. Si tratta, più precisamente, di: nome, cognome e residenza dell’istante e del convenuto (se l’istante o il convenuto sono una persona giuridica, un’associazione non riconosciuta o un comitato, l’istanza deve indicare la denominazione o la ditta nonché la sede); il luogo dove è sorto il rapporto ovvero dove si trova l’azienda o sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli

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Cfr. FERRARO G., La conciliazione, in CINELLI M., FERRARO G. (a cura di), Il contenzioso del lavoro

prestava la sua opera al momento della fine del rapporto; il luogo dove devono essere fatte alla parte istante le comunicazioni inerenti alla procedura; l’esposizione dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa.

Si ritiene opportuno mettere in evidenza proprio quest’ultimo requisito, che il Collegato lavoro ha reso ancora più rigoroso rispetto al suo precedente valevole nelle controversie di pubblico impiego: i fatti e le ragioni posti a fondamento della pretesa non possono essere esposti in maniera soltanto sommaria.

La prosecuzione del procedimento dipende dal fatto che questo venga accettato dalla controparte. In caso affermativo, l’accettazione deve essere comunicata mediante il deposito, presso la Commissione ed entro venti giorni dal ricevimento della domanda introduttiva, di una memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto alle pretese della parte richiedente, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale. Ove ciò non avvenga, ciascuna delle parti è libera di adire l’autorità giudiziaria.

Nei dieci giorni successivi al deposito della memoria la Commissione deve convocare le parti all’incontro per l’esperimento del tentativo, che dovrà compiersi entro i successivi trenta giorni. Dinnanzi alla Commissione il lavoratore può farsi assistere anche da un’Organizzazione cui aderisce o conferisce mandato.

L’art. 411 c.p.c. disciplina ora il processo verbale di conciliazione e prevede che se la conciliazione esperita ai sensi del precedente art. 410 c.p.c. (l’art. 410 bis c.p.c. è stato abrogato dal Collegato lavoro) riesce, anche limitatamente ad una parte della domanda, deve essere redatto e sottoscritto un processo verbale di avvenuta conciliazione, che dovrà essere poi depositato presso la Direzione territoriale del lavoro a cura di una delle parti o per il tramite di un’associazione sindacale. Il direttore, o un suo delegato, accertatane l’autenticità, deve a sua volta depositare il verbale nella Cancelleria del Tribunale nella cui circoscrizione esso è stato redatto. Il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del verbale di conciliazione, lo dichiara esecutivo con decreto.

Per il caso in cui le parti non siano invece in grado di raggiungere un accordo, la norma assegna alla Commissione quel ruolo propositivo e propulsivo che l'art. 66 del d.lgs. n. 165/2001 già riconosceva ai Collegi di conciliazione. La Commissione è chiamata, infatti, a formulare una proposta per la composizione della controversia. Se la proposta non è accettata, i termini sono riassunti nel verbale, nel quale devono essere riportate altresì le valutazioni espresse in proposito dalle parti. Delle risultanze della proposta formulata dalla Commissione e non accettata senza adeguata motivazione il

giudice tiene conto in sede di giudizio.

L’ultimo comma dell’art. 411 c.p.c. indica, infatti, che il verbale di mancata