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Dal monopolio all’oligopolio: la dissoluzione della Standard Oil Co e lo Sherman Antitrust Act

2. Big Oil negli Stati Uniti:

2.1. Dal monopolio all’oligopolio: la dissoluzione della Standard Oil Co e lo Sherman Antitrust Act

Come detto nell’introduzione, la storia dell’industria petrolifera americana si sviluppò principalmente con la nascita della Standard Oil Co. Fondata nel 1870, rimase in quasi totale controllo del mercato petrolifero americano fino alla sua dissoluzione voluta nel 1911 da una sentenza della Corte Suprema (Pratt, 1980: 816). Negli anni Ottanta dell’800, la maggior parte della produzione americana di petrolio era infatti già sotto il suo controllo. La compagnia operava anche oltre oceano, ma controllava, attraverso consociati, il 90% della capacità di raffinazione domestica e del sistema di trasporto che riforniva le raffinerie. Era così in grado di regolare la produzione di petrolio e stabilirne il prezzo sul mercato americano (McGovern, 1981: 5; Garavini, 2019: 12).

La moderna struttura del mercato del petrolio iniziò ad emergere verso la fine del XX secolo, quando si presentarono nuovi attori sulla scena, che andarono così a sfidare il monopolio della Standard Oil Co (Pratt, 1980: 816). I difensori della struttura oligopolica dell’industria e dell’integrazione verticale delle compagnie, ossia l’organizzazione in una sola compagnia di produzione, raffinazione, trasporto e vendita, le difendevano come caratteristiche naturali dell’industria stessa e come inevitabili conseguenze della sua evoluzione. Sostenevano quindi che fosse l’economia e non la politica ad aver determinato la struttura dell’industria e che le politiche pubbliche volte a cambiare la struttura dell’industria avrebbero rotto il delicato equilibrio che rifletteva le realtà economiche fondamentali alla base delle varie operazioni quotidiane (Pratt, 1980: 815).

Le origini del movimento antitrust possono essere comprese solo nel contesto dei profondi cambiamenti sociali ed economici che stava vivendo l’America all’inizio del XX secolo (Coleman, 1985: 266). In questo contesto, le lotte legali tra le compagnie petrolifere e lo Stato tendenzialmente finivano con la sconfitta del governo, aumentando il disdegno popolare nei confronti di Big Oil. Lo scrittore e giornalista inglese Anthony Sampson disse di Rockefeller: “His lack of scruple and his mendacity provoked a continuing distrust of the oil industry” (Bower, 2010). Dopo anni di inerzia da parte dei presidenti Cleveland e McKinley, che avevano ricevuto contributi alle rispettive campagne elettorali da parte della Standard per più di 250.000 di dollari, a maggio del 1907 il Dipartimento di Giustizia intentò una causa contro la Standard Oil Co. per violazioni della legislazione antitrust. Il governo vinse finalmente la causa nel 1911, quando la Corte Suprema ordinò la dissoluzione della compagnia in compagnie più piccole (Coleman, 1985: 269).

Le cause della dissoluzione del monopolio della Standard Oil Co. sono state identificate in due filoni principali: uno economico e uno legislativo. Vi sono opinioni contrastanti dal momento che ogni

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filone è stato identificato come la principale causa della dissoluzione da alcuni studiosi e non da altri. Da un lato, si riteneva che da alcuni decenni le ‘forze di mercato autonome’ avessero iniziato a minare il monopolio della Standard. Secondo questa visione, la decisione della Corte Suprema di scogliere la compagnia avrebbe semplicemente accelerato quel processo di competitivizzazione del mercato che era iniziato ‘internamente’ (Pratt, 1980: 817). Questa teoria sembrò riscuotere notevole consenso: il professore e storico americano Alfred D. Chandler Jr. attribuì, infatti, un ruolo secondario alla legislazione antitrust nel passaggio dal monopolio all’oligopolio nel campo del petrolio. In merito alla natura poco competitiva dell’industria petrolifera sosteneva in particolare che:

markets and technology and not antitrust laws have determined why the automobile, rubber and oil industries have always been concentrated and that the furniture, apparel and leather industries have almost never been (…). Clearly the passing of laws will not readjust the fundamental structure of a modern industrial economy (Pratt, 1980: 818).

D’altro canto, pur non negando l’importanza dei fenomeni interni al mercato, vi erano coloro che sottolineavano la rilevanza in sé della legislazione antitrust e il legame involontario e perenne che venne a crearsi tra essa e la vita stessa dell’industria petrolifera. I fenomeni interni, quali “size, quality, and location of crude discoveries and the limited success in restricting market space in the new fields on the part of Standard Oil Company” (Pratt, 1980: 818), svolsero un ruolo fondamentale e senza questi fenomeni non vi sarebbero state le basi per la riuscita effettiva della legislazione; tuttavia, gli sviluppi più significativi si ebbero su scala legislativa statale, prima ancora di avvenire a livello nazionale. La dissoluzione della Standard Oil Co. andò quindi a concludere un preesistente processo economico che aveva iniziato a generare maggiore competizione all’interno dell’industria, che venne però fortemente aiutato dalle leggi antitrust statali promulgate prima del 1911 (Pratt, 1980: 818). Si può quindi dire che la legislazione nazionale e la decisione della Corte Suprema del 1909 furono influenzate ed ispirate dalle legislazioni statali e la loro applicazione ed implementazione vennero facilitate – o meglio non ostacolate- in virtù dei fenomeni interni del mercato che sostenevano il superamento del monopolio (Pratt, 1980: 819).

Osservando poi le regole generali introdotte dalla sentenza e dalla legge che la seguì, lo Sherman Antitrust Act, si nota facilmente come la Standard Oil Co. abbia subito un danno enorme solo in apparenza, in quanto le venne permesso di operare in ogni fase dell’industria (Pratt, 1980: 822). Un problema con la dissoluzione fu di per sé strutturale; infatti la Standard era sempre stata organizzata e specializzata internamente in produzione, distribuzione, e così via. Dato che la decisione della Corte

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portò alla divisione della compagnia lungo la filiera del greggio, le nuove compagnie erano praticamente costrette ad avere delle strette relazioni d’affari tra di esse. Un altro enorme problema fu la divisione delle azioni che ordinò la corte, perché invece di assegnare ai diversi azionisti un gruppo di azioni all’interno di una sola delle nuove compagnie, diedero ad ognuno azioni di ogni compagnia (Coleman, 1985: 269). Inoltre, la Standard era una delle poche aziende ad avere l’accesso ai capitali, alle conoscenze e ai mercati necessari per costruire e gestire raffinerie abbastanza grandi da poter acquistare quantità consistenti di petrolio dai giacimenti in espansione (Pratt, 1980: 823).

Se la competizione ritornò parzialmente nel mercato non fu grazie all’attività legislativa, ma grazie alla scoperta di nuovi giacimenti in Texas e in Oklahoma e alla nascita di nuove compagnie che, come detto prima nel caso della Texaco e della Gulf Oil, beneficiarono del ruolo iniziale di monopolista dalla Standard. La sua dissoluzione portò invece alla nascita di un oligopolio e la competizione aumentò a tal punto da portare la Exxon (all’epoca Standard Oil of New Jersey), la Shell e la BP a firmare un accordo di cartello, l’Accordo di Achnacarry del 1928, che prevedeva che ogni compagnia accettasse la sua corrente porzione di mercato e che i prezzi venissero fissati al livello dei prezzi del mercato statunitense, all’epoca i più alti al mondo (Coleman, 1985: 270; Garavini, 2019 33).

Ora della fine della Seconda guerra mondiale, l’industria petrolifera americana era diventata internazionale tanto quanto la sua controparte inglese, che invece era sempre stata marcata da un maggiore internazionalismo, vista l’assenza di risorse sul territorio inglese e l’esistenza dell’impero britannico. Big Oil, all’epoca le 5 grandi compagnie americane, (Standard Oil of New Jersey – Exxon, Socony-Vacuum Oil – Mobil, Standard Oil of California – Chevron, Texaco e Gulf Oil) ottennero così anche un controllo decisivo sul mercato del petrolio europeo (Engdahl, 2004: 89).