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1.3. Il funzionamento e l’attività delle lobby 1 Categorizzazione delle lobby

1.3.4. Il rapporto tra le compagnie e le lobby

“Economic concerns are likely to be the sine qua non of political conflict in America” (Schlozman & Tierney, 1986: 24). Gli obbiettivi economici sono infatti quelli che predominavano tra

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gli obbiettivi perseguiti tramite l’azione politica. Dal secondo dopoguerra molti conflitti nacquero proprio quando venivano messi a confronto attori che avevano interessi diversi, quindi non semplicemente economici, ma anche di altro tipo, che comunque si andavano a scontrare con quelli economici. In questo contesto era anche importante differenziare tra interessi privati, quelli associati alla comunità aziendale, e interessi pubblici, quelli da cui poi derivarono le già nominate public interest lobby. Se da un lato gli studiosi non riuscirono a raggiungere un consenso su cosa fossero esattamente gli interessi pubblici, dall’altro lato mancarono le critiche riguardo le loro attività e la loro apparente ‘superiorità morale ed etica’. Una pubblicità del 1979 della Mobil Oil Co. sul Wall Street Journal diceva, in merito ai gruppi d’interesse pubblico: “most such groups don’t represent any broader interest than that of their own members; (...) they grind a private ax and claim that it really belongs to all of us” (Schlozman & Tierney, 1986: 28). In merito a questo si può portare l’esempio della diatriba sull’estrazione del petrolio nell’Atlantico a largo della costa del Maine. Gli interessi in conflitto erano da un lato quello dell’industria petrolifera e dall’altro quelli della protezione ambientale e della conservazione dell’ecosistema marino. A un primo colpo d’occhio, l’interesse economico dell’industria petrolifera era chiaro, presente ma più nascosto era invece l’interesse della pesca commerciale, che più che interessata al bene comune, si opponeva in quanto l’estrazione del petrolio avrebbe minato la propria fonte di reddito (Schlozman & Tierney, 1986: 24-28).

Nonostante diverse imprese avessero iniziato formando lobbisti in-house, lobbisti dipendenti effettivi della società stessa, molte di esse optarono comunque per servirsi di lobbisti indipendenti per una gran parte del lavoro, una tendenza in particolare negli anni Settanta e Ottanta. Erano diversi i fattori che portarono a questo risultato. In primis, una compagnia nazionale non necessariamente possedeva abbastanza lobbisti in-house e staff disponibile per coprire Washington e le diverse capitali statali in cui aveva bisogno di essere presente. “It helps if you live with them [legislators] and drink with them” (Rosenthal, 1993: 55): poteva invece così avvalersi dell’esperienza di lobbisti indipendenti che avevano già esperienza in quello Stato. Sia a livello statale che a livello nazionale, i lobbisti in- house erano in svantaggio dal momento in cui non avevano il tempo per sviluppare il tipo di relazione che i lobbisti indipendenti potevano sviluppare lavorando sempre nello stesso contesto. In aggiunta, avere una presenza fissa nel luogo che si vuole influenzare è un chiaro vantaggio. “We’d better be located where the action takes place” (Rosenthal, 1993: 56): se una società nazionale non ha una sede o una presenza fissa a Washington, potrà ottenere maggiori benefici rivolgendosi a dei lobbisti che invece lavorano sempre a Washington (Rosenthal, 1993: 55). Questo portava vantaggi anche perché i lobbisti indipendenti poteva iniziare a svolgere il lavoro di pressione anche in un momento iniziale del

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processo, mentre con i lobbisti in-house si correva il rischio che una volta che fossero arrivati nella capitale prescelta, il processo fosse già troppo avanzato per riuscire ad ottenere i risultati concreti desiderati. Inoltre, essendo più ‘di casa’, avevano una reputazione più conosciuta e quindi era possibile che avessero maggiore influenza (Schlozman & Tierney, 1986: 99). D’altro canto, alcune società preferivano svolgere l’attività di lobbying in prima persona, perché una conseguenza dell’avvalersi di un lobbista indipendente era che la società perdeva in parte la sua identità, che veniva messa in secondo piano rispetto a quella del lobbista (Rosenthal, 1993: 56). A volte le compagnie si rivolgevano a lobbisti esterni per complementare le proprie conoscenze. “It seems that the primary reason that organizations need the services of outsiders, however, is to gain access to those members of Congress or executive branch officials to whom the client does not have easy entrée” (Schlozman & Tierney, 1986: 100). Infatti, anche se l’organizzazione aveva numerosi contatti con i legislatori, non era detto che fosse in relazione con tutti quelli che avrebbe voluto influenzare. Anche per questo molti ex dipendenti governativi diventarono lobbisti; avevano le connessioni e le relazioni che erano richieste dalle organizzazioni. D’altro canto, mentre molte aziende non la percepirono come una necessità, non è sorprendente che alcune aziende decisero di spostare il proprio quartier generale a Washington. Le altre invece avevano uffici separati a Washington oppure erano membri di un’associazione commerciale che si occupava dei loro interessi nella capitale (Schlozman & Tierney, 1986: 67).

Le relazioni tra il lobbista e i propri clienti variavano fortemente in base a quanti fondi la società fosse disposta a stanziare. I fattori principali che andavano ad agire sulla dimensione erano il tipo di settore industriale, la dimensione della compagnia e le politiche pubbliche in cui è coinvolta. Alcune compagnie, infatti, avevano delle relazioni di partenza più strette con le comunità locali e statali, come potevano essere le compagnie che si occupano delle utenze. Tali compagnie dovevano stanziare somme chiaramente maggiori per il mantenimento delle relazioni con il governo e con le comunità locali. In generale, le società maggiormente interessate dai regolamenti statali preferivano essere più strettamente coinvolte nel processo (Rosenthal, 1993: 45; Schlozman & Tierney, 1986). Inoltre, nonostante una società potesse teoricamente fare pressione sul governo in autonomia, per alcuni problemi le società preferivano avvalersi di un’associazione. Infatti, prendendo posizioni forti in merito a determinati problemi, avrebbero corso il rischio di vedere i loro prodotti boicottati. I motivi per cui le società desideravano lavorare di più sulle proprie relazioni governative andavano dal tentativo di aumentare i propri profitti al tentativo di limitare l’interferenza del governo nel funzionamento del mercato. Le associazioni di imprese e le associazioni di settore svolgevano un ruolo ancora importante nel rappresentare gli interessi dei propri membri. In entrambi i casi, esistevano

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associazioni con focus statale, associazioni con focus federale e associazioni con sede a Washington ma focus statale. Un esempio di questo ultimo è l’American Petroleum Institute, associazione nazionale che rappresentava gli interessi del settore del petrolio e del metano, che aveva uno staff di grandi dimensioni a Washington e dirigenti regionali che garantivano una presenza nelle rilevanti capitali statali per circa 2/3 dell’anno (Rosenthal, 1993: 49; Schlozman & Tierney, 1986).

In particolare, per quanto riguarda il legame tra le società e le lobby, David Vogel, nel suo articolo The Power of Business in America: A Re-Appraisal (1983), sottolineava come negli anni Settanta vi fossero stati diversi autori e studiosi che tentarono di sottolineare il ruolo privilegiato che la comunità aziendale avesse nel contesto della politica americana nazionale. L’idea era che la comunità imprenditoriale fosse quasi una classe dominante, un’élite di potere o un governo privato e che quindi possedesse un livello di influenza che andava oltre quello di ogni altro gruppo d’interesse. Questa idea si basava su quattro principi:

a) L’abilità della comunità imprenditoriale di definire l’agenda politica; b) I benefici sproporzionati che la comunità ottiene dal processo politico;

c) La necessità del fatto che le autorità elette devono conservare un alto livello di fiducia da parte della comunità;

d) La capacità di mobilitare risorse politiche, di collaborare strettamente e di modificare l’opinione pubblica.

Partendo da quest’analisi però, si vuole sottolineare come la relazione tra la comunità imprenditoriale e il governo non potesse essere vista come statica e immanente. L’efficacia e l’attività politica delle società variarono nel tempo e sarebbe chiaramente necessaria un’analisi di queste variazioni temporali per poter migliorare la comprensione che si ha di tali rapporti (Vogel, 1983: 20).

Per molta della loro esistenza le aziende sono state criticate per la loro visione limitata dell’influenza sul governo. Erano tendenzialmente sempre preoccupate delle conseguenze a breve termine, in particolare economiche, che una determinate legge poteva avere su di esse. Negli anni Settanta si assisti però ad una presa di coscienza degli obbiettivi e delle preoccupazioni comuni alla comunità aziendale e alla volontà condivisa di agire (Vogel, 1983: 34). Una rappresentazione evidente di questo si ebbe nella Business Roundtable. I principali dirigenti delle 190 maggiori società industriali, finanziarie e commerciali americane si associarono nella Business Roundtable. Questa associazione, fondata nel 1972 con un budget iniziale di 2 milioni di dollari, diventò una sorta di elitaria camera di commercio, volta a ottenere immediata udienza presso il mondo politico. Bisogna sottolineare che non esiste un elenco pubblico dei membri dell’associazione (Franco, 1988: 1974; Levitan & Cooper, 1984:

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34). La Business Roundtable non era semplicemente un meccanismo per aumentare l’efficacia dell’attività di lobbying aziendale, ma aveva anche la funzione di aumentare la consapevolezza dei principali dirigenti, educandoli sulle problematiche che potevano colpire in generale la comunità aziendale, e promuovere l’idea che ‘l’amministratore delegato del futuro’ doveva, volente o nolente, essere una figura pubblica, disposta a farsi carico di dover mediare direttamente con rappresentanti del governo (Vogel, 1983: 34). La Roundtable riuscì a bloccare il disegno di legge del 1975 che avrebbe permesso ai procuratori generali di Stato di portare avanti una causa collettiva a nome dei cittadini di uno Stato per raccogliere i danni provocati dalle azioni monopolistiche delle società. Ora del 1974, la Business Roundtable aveva subito un intenso processo di riorganizzazione interna. In cima alla gerarchia interna si aveva il comitato esecutivo, sotto al quale stava il policy committee e poi delle piccole task-force che avevano il compito giornaliero di fare ricerca e svolgevano l’attività di lobby dell’organizzazione. Tra il 1974 e il 1979, i membri crebbero da 100 a 192. Tra questi 192 vi erano gli amministratori delegati delle 10 maggiori compagnie della Fortune 500 del 1980 (Exxon, General Motors, Ford, Texaco, Standard Oil of California, Gulf, IBM, General Electrics, Standard Oil Indiana). Le principali aree di focus delle task-force erano numerose e includevano l’antitrust, le riforme di regolamentazione, la tassazione, l’energia, il commercio internazionale, l’organizzazione economica, le riforme del lavoro, ecc. Una volta identificato il problema la task-force incaricava una compagnia principale, che sarebbe stata quella che avrebbero portato avanti l’azione nei confronti della legislazione, normalmente guidata dall’amministratore delegato (McQuaid, 1982: 294-295; Levitan & Cooper, 1984: 37).

In generale si può affermare che, nella cosiddetta Washington pressure community, era più comune che venissero rappresentati alcuni tipi di interessi rispetto ad altri. La rappresentazione a Washington era infatti limitata nell’ampiezza e nettamente a favore dei più facoltosi. Nel 1981, le aziende rappresentavano il 45,6% di tutte le organizzazioni con una presenza a Washington, ma solo il 20,6% delle organizzazioni con sedi a Washington. In generale, quindi non considerando solo le società, la pressure community di Washington era nettamente a favore delle organizzazioni aziendali, che rappresentavano il 70% di tutte le organizzazioni con presenza a Washington e il 52% delle organizzazioni che erano rappresentate dal proprio ufficio nella capitale (Schlozman & Tierney, 1986: 67; Ainsworth, 2002:113-115).