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Musei e ambito culturale, Enti certificatori, Case Editrici, Enti dedicati alla mobilità

Nel documento Voci dalla scuola e dal territorio (pagine 149-161)

Trento 20.05.2015 dalle 16.30 – 18.30

Lorenza Liandru Museo Diocesano – Responsabile Servizi Educativi Adriana Osele CLM Trento – Consigliere Delegata

Francesco Zambotti Centro Studi Erickson – Autore e tutor corsi di formazione Serena Tarter Ufficio FSE

Anna Ceccarelli Associazione Culturale Europa – Socia Associazione

Jean-Claude Beacco: questo tavolo è concepito come un tentativo di vedere le lingue nella vita culturale della Provincia. Abbiamo visto poco fa i colleghi della stampa e ci sembrava molto importante vedere anche rappresentanti delle istituzioni culturali, case editrici e così via.

Noi vorremmo avere le vostre reazioni su almeno due cose, il primo è se le vostre istituzioni si sono attrezzate all’interno per gestire la diversità culturale, sia dei membri delle vostre istitu-zioni, quindi del personale, sia gli utenti nel caso dei musei: c’è una didascalia plurilingue ad esempio? Questa è la riflessione sulla vostra istituzione nei rapporti con le lingue. Il secondo punto è, come giudicate il ruolo delle lingue nella vita culturale della Provincia? c’è uno spazio per attività in lingua straniera, avete modo di utilizzare le risorse linguistiche dei nuovi tren-tini ecc., quindi vedere se nell’ambito delle attività culturali c’è una dimensione plurilingue o meno, e se pensate sia opportuno e possibile cercare di svilupparla o ancora, se ci sono altre priorità per le vostre istituzioni. Poi c’è il terzo punto, che cosa pensate del Piano Trilingue, forse come genitori avete delle idee, forse no. Le testimonianze individuali vengono accolte benissimo. Questo sarebbe un po’ l’ingaggio di questo scambio dal quale possono emergere linee di riflessione sia per me che sono più che forestiero, ma anche fra di voi. Forse è meglio cominciare subito dal consumo di lingue, dalla richiesta di lingue dell’editoria in lingua e di tutto ciò che si mostra sul consumo di lingue, sul consumo culturale in lingua.

Adriana Osele: al Clm Bell abbiamo notato, soprattutto negli ultimi 5-7 anni, come l’esi-genza sia molto sentita dalla popolazione adulta che percepisce la necessità di avvicinarsi all’apprendimento della lingua pur con l’inevitabile difficoltà per un’utenza adulta sia a causa delle rigidità che ci sono rispetto all’apprendimento, ma anche per la difficoltà di conciliare i tempi della vita, del lavoro.

Negli ultimi anni abbiamo visto proliferare proposte di insegnamento delle lingue molto va-riegate, anche di “pronto consumo”: magari molto appetibili perché danno l’illusione di im-parare presto e bene.

Noi dobbiamo fare molto lavoro anche di educazione all’avvicinamento alla lingua, sto par-lando dell’utenza adulta, di educazione culturale in questo senso, perché ci rendiamo conto che l’utenza si avvicina all’apprendimento della lingua sperando di fare presto, salvo poi accorgersi che i tempi sono lunghi - soprattutto quando non possono dedicarvisi full immer-sion - per un apprendimento sì rapido, ma che rimanga consolidato. La difficoltà per noi è soprattutto questa anche perché l’offerta è adesso tanta, variegata, ma non sempre di qua-lità e gioca molto sul fattore prezzo, sul fattore accattivante. Questo non è una criticità solo nel nostro ambiente, ma credo che sia una criticità della società attuale. Altre difficoltà sono determinate da alcuni orientamenti un po’ marcati che vengono anche dall’amministrazione e anche attraverso determinati piani di formazione che servono per la riqualificazione. Mi riferisco per esempio ai percorsi per disoccupati o per le persone in mobilità. Sicuramente l’intenzione è apprezzabile ma nuovamente qui ci scontriamo con il fattore tempo: pensare di riqualificare un lavoratore facendogli fare formazione linguistica concentrata in una, due, tre settimane o un mese lascia il tempo che trova: in quel mese quella persona imparerà molto, ma poi? La lasciamo o la dobbiamo continuare a seguire? Questa è un’altra criticità che rilevo.

L’idea è giusta, è nobile, ma le persone vanno seguite, perché altrimenti – lasciate a se stes-se – non hanno il tempo né i mezzi, perché la formazione linguistica di qualità ha un costo.

Un conto è fare un piccolo corso pagandolo per esempio 20 euro per dieci lezioni, un conto invece è fare formazione in un centro di qualità dove il personale docente, come da noi, è se-lezionato in base a qualificazioni precise per l’insegnamento della lingua a non madrelingua, che si aggiorna costantemente e così via. Al Clm Bell abbiamo solo docenti madrelingua o bilingue e comunque tutti hanno certificazioni di insegnamento della lingua.

Francesco Zambotti: noi chiaramente lavoriamo molto sulla parte didattica e scolastica, quindi il discorso delle lingue per noi è strettamente finalizzato ai nostri obbiettivi che sono poi quelli culturali delle edizioni Erickson che sono sicuramente quelli di una creazione di una scuola e di una società maggiormente inclusiva e questo, diciamo, ha un rapporto con le lingue, c’è l’ha in maniera differente, a mio avviso, a seconda delle tipologie delle lingue di cui stiamo parlando, nel senso che la scuola rispetto alle lingue ha una difficoltà a rapportarsi con l’utenza non di madrelingua italiana, quindi sulle lingue straniere, però sono normalmen-te lingue, quelle più comuni della più comune immigrazione, quindi in Italia il cinese, l’arabo, le lingue dell’est Europeo. Quindi da questo punto di vista noi abbiamo diverse proposte edi-toriali che chiaramente intendono veicolare la didattica L2, cioè per la didattica disciplinare e non disciplinare la prima lingua. Quindi abbiamo prodotti per le classi più basse, per le prime classi della primaria e quindi è un approccio alle lingue un po’ diverso rispetto a quello di cui si parla nel Piano provinciale, però questa è una grandissima criticità nelle scuole italiane e non solo della scuola trentina, perché è uno degli elementi che appaiono dirompenti nelle problematiche dei docenti, poi noi in particolare occupandoci di pubblicazioni per la scuola vediamo come ci sia una richiesta maggiore da parte dei docenti, attenzione agli aspetti les-sicali, semantici, morfosintattici non solo della lingua della comunicazione diciamo, la lingua del primo periodo che ti permette una qualche socializzazione con i compagni, con gli adulti, ma proprio poi nella lingua veicolare delle discipline, ma va anche detto che non c’è

moltis-simo in tutto il mondo editoriale, è estremamente complicato, forse mancano ancora com-petenze e poi ci si scontra chiaramente con i numeri dell’editoria. L’altra questione, per noi che lavoriamo nell’ambito culturale l’aspetto della conoscenza delle competenze linguistiche è estremamente importante, questo è evidente, cioè nella vita di qualsiasi ragazzo, persona, bambino che oggi è a scuola, l’aspetto della progressione delle competenze linguistiche è una delle competenze chiave, questo è evidente non può essere dimenticato perché, soprat-tutto per le persone cui ci rivolgiamo noi che sono le persone che hanno maggiore difficoltà nel mondo scolastico e nel mondo sociale, non acquisire le competenze chiave oggi, vuol dire probabilmente non poter entrare in tutti i canali alternativi, tipo CLM, di cui io sono stato per anni utente. Ecco diciamo chiaramente che un ragazzino che viene da una famiglia svan-taggiata o da un contesto culturale svantaggiato o con una disabilità o un DSA deve giocare nella scuola la sua conoscenza linguistica, che poi questa sia di base o avanzata è nella scuola che la deve giocare, perché difficilmente potrà accedere a molte offerte nell’extra-scuola, quindi è un tema molto delicato. Come elemento critico, anzi di riflessione direi, a noi preme molto come Eriksson capire come un insegnamento, ad esempio CLIL o comunque veicolare delle discipline in una lingua straniera, debba essere bene organizzato all’interno di un contesto scolastico inclusivo come quello della scuola italiana, non solo dal punto di vista linguistico, cioè la questione non è solo insegnare una disciplina in una lingua straniera, ma è insegnare una disciplina in lingua straniera in una classe eterogenea come una classe di scuola italiana, che spesso ha un panorama culturale e esperienziale completamente diverso da una scuola di un Paese straniero da cui magari proviene il docente. Non vorrei entrare nel Piano che è l’ultimo punto, però ad esempio se gli insegnanti sono di madrelingua straniera e provengono da Paesi dove non c’è una cultura inclusiva, questo ha un impatto, immagino che sia un punto molto noto a chi studia questi fenomeni, però chiaramente a noi, dal punto di vista culturale, metodologico e didattico questo è l’aspetto che più ci preme approfondire, nel senso che non è solo una questione di lingua in cui si va a veicolare un insegnamento, ma è anche una profonda questione di didattica, di come chi insegna all’interno di questo panorama deve aderire e condividere un modello di scuola inclusiva.

Lorenza Liandru: io presento l’esperienza di un museo, che peraltro non è compreso nel circuito dei musei provinciali e quindi ha delle dinamiche diverse rispetto a questo circuito, con delle direttive che spesso ci diamo noi stessi. È un museo privato, dichiarato di interesse provinciale, che dialoga costantemente con gli altri musei del territorio. Penso che un ente molto piccolo come il nostro abbia molta difficoltà ad approcciare il grande tema delle lingue, perché le risorse del nostro personale in termini di competenze linguistiche sono limitate alle esperienze linguistiche dei più giovani e l’aggiornamento continuo degli strumenti del museo - delle didascalie, dei vari dépliant e di tutto ciò che produce il museo - è molto difficile, per-ché dobbiamo fare ricorso a personale esterno, che chiaramente ha sempre dei costi. Per quanto io possa, nel mio piccolo, tradurre dall’inglese all’italiano e viceversa ciò che occorre per il normale scambio con gli altri musei stranieri (perché comunque è un altro aspetto del museo quello di dialogare con altri musei all’estero), non è possibile che le mie competenze e quelle delle mie colleghe possano produrre dei testi, perché non è il nostro compito. Siamo storici dell’arte più che esperti in lingua. Quindi questa è una difficoltà che noi incontriamo

nel soddisfare le esigenze del pubblico dei turisti che vengono nel museo. Stiamo pensando a una revisione totale delle didascalie del museo, che è un’operazione impegnativa perché non significa solo tradurre, ma ripensare il contenuto stesso anche in funzione del visitatore che legge, e dello sviluppo di strumenti come le app o i tablet per le visite guidate, anche lì comunque noi affrontiamo sempre un costo, che per noi, piccola realtà, è abbastanza im-portante. Nel nostro piccolo tentiamo comunque di approcciare il tema delle lingue con le audioguide e con delle visite guidate condotte da collaboratori che hanno una esperienza specifica e delle certificazioni, proponiamo queste visite a richiesta, però si tratta sempre di qualcosa di episodico e non strutturale. Abbiamo poi scambi con adulti stranieri, abbiamo dei progetti per far conoscere loro il museo e la città, però la lingua veicolare è sempre l’italia-no, perché sono adulti che frequentano corsi d’italiano. È per questo che sono qui, perché il museo comunque è interessato al tema e soprattutto si scontra con questo problema quan-do accoglie classi che hanno come veicolare l’insegnamento in storia e storia dell’arte in lingua. Il museo offre ogni anno attività didattiche a circa. Sono per la maggior parte studenti trentini, ma vi sono classi che vengono anche dalle regioni limitrofe, soprattutto per appro-fondire temi specifici come il Concilio di Trento. Dal territorio trentino provengono soprattutto dalla Valle dell’Adige, ma anche da altre realtà. In generale incontriamo un po’ di difficoltà con le classi in cui l’insegnamento di discipline non linguistiche come la storia e la storia dell’arte avviene in lingua straniera perché notiamo un certo depauperamento linguistico inerente il lessico specifico della storia e della storia dell’arte. Forse, semplicemente, bisognerebbe riuscire a coordinarsi con i docenti, mettersi d’accordo. Noi chiaramente potremmo anche proporre in futuro delle attività in lingua chiedendo ai collaboratori, però va detto che que-sto dipende anche molto dalla scuola, non lo so, sono cose di cui iniziamo a ragionare al nostro interno come museo. Quindi c’è questo aspetto, poi abbiamo attivato negli anni dei percorsi di incremento del lessico in italiano, perché l’altro grande problema che abbiamo è che vengono classi che non sanno neanche parlare in italiano, e sono delle classi di studenti normalissimi, quindi abbiamo dovuto introdurre dei percorsi dove viene proprio fatto l’ABC di cose molto semplici del campo, ma non dello storico dell’arte universitario, ma proprio anche del lessico più comune, del girare in una città storica, quindi delle competenze che devi avere per conoscere il proprio patrimonio. Quindi io penso che si possa adattare be-nissimo anche in lingua però noi ci troviamo di fronte a questa realtà dove c’è un abbassa-mento molto molto forte delle competenze linguistiche anche in italiano sul lessico specifico in ambito museale e di una disciplina, quindi è questo insomma il nostro sentore. Poi molte classi dell’Alto Adige tedesche vengono a Trento per fare un’esperienza in lingua italiana e quindi vogliono l’italiano. Quindi noi abbiamo rapporti con Merano e con Bolzano dove le classi vengono a seguire percorsi e dove chiedono esplicitamente che siamo noi a parlare in italiano. Poi nessuno di noi, né io né i miei colleghi siamo esperti nel campo delle lingue.

Anna Ceccarelli: la nostra associazione era nata per portare una certa conoscenza di pro-blemi di carattere europeistico non certo per diffondere la conoscenza delle lingue. Avevamo in mente una associazione che diffondesse la cultura europeistica. Quando poi abbiamo cominciato a portare, principalmente ragazzi, in vari Paesi europei, ci siamo resi conto che era importante anche dare a loro uno strumento linguistico polivalente. Noi ci appoggiamo,

quando abbiamo questa esigenza, innanzitutto all’opera di volontari e poi all’estero a scuole del posto. Questo costituisce spesso un input per poi poter approfondire al loro rientro in Italia la conoscenza della lingua straniera che hanno appena appena avvicinato in questo soggiorno. I nostri volontari sono quasi tutti di lingua italiana, difficilmente hanno competenze valide per potersi sostituire a un volontario di madrelingua. Quindi noi abbiamo principal-mente come scopo quello di diffondere la conoscenza in termini europeistici, poi a latere si è inserito anche quest’altro aspetto.

Serena Tarter: rappresento in questa sede la Struttura Multifunzionale Ad Personam del Ufficio Fondo Sociale Europeo, che ha al suo interno un proprio ufficio dedicato alla mobilità transnazionale. Eravamo partiti nel 2007 con una serie di progetti nell’ambito del LLP con numeri molto bassi, - si parlava di in effetti di 50-60 persone inviate all’estero. La program-mazione in mobilità transnazionale è stata poi di molto implementata, raggiungendo gli oltre tremila invii l’anno scorso. La creazione di un luogo dedicato all’organizzazione di esperienze di mobilità è stata una intuizione incredibile della Provincia di Trento, considerato che si tratta di diversi anni fa ormai. L’organizzazione vera e propria della mobilità all’estero da parte dell’ente pubblico non è cosa comune - ci chiamano infatti da ovunque in Italia. Questo perché l’organizzazione autonoma della mobilità è ancora oggi di ostacolo alla mobilità stes-sa. Come ente della Provincia ci occupiamo di tutta di la parte organizzativa propedeutica all’invio, non solo per soggiorni-studio, ma anche per tirocini lavorativi, con programmi più specifici. Ovviamente l’organizzazione della mobilità, per soggetti che presentano livelli lin-guistici bassi (pensiamo ad esempio B1), costituisce un ostacolo enorme per la persona e un impedimento a partire. Ricercare autonomamente un’azienda o un alloggio può diventare problematico. Pertanto, è possibile dire che a livello provinciale si è fatto veramente molto.

Nel resto d’Italia i finanziamenti alla mobilità sono largamente diffusi, come è ovvio; tuttavia erogare alla persona esclusivamente un finanziamento, cioè un importo tout court da dover spendere secondo determinati criteri, molto spesso si traduce nella “perdita dell’occasione”

di poter usufruire della mobilità stessa. In molti casi diventa essenziale la presa in carico della persona per permettere realmente la fruizione della mobilità. Ciò è ormai un dato di fatto, soprattutto poi per le fasce deboli. Negli anni abbiamo anche rilasciato una serie di certifi-cazioni linguistiche, attraverso un servizio reso disponibile a valle dell’esperienza all’estero, incaricando CLM-Bell e ISIT, raggiungendo le circa 700 certificazioni erogate negli ultimi anni. Rispetto poi alla certificazione linguistica in senso stretto, ci sarebbero diversi elementi da affrontare. C’è molta enfasi sulla certificazione, che è molto positiva ovviamente - le cer-tificazioni sono un passo importante nel curricolo di una persona, per rafforzare l’autostima, la percezioni di una crescita linguistica, però per esempio, noi riteniamo, ne abbiamo parlato moltissime volte anche con il CLM, che il percorso debba essere molto più accompagnato.

Affrontare una certificazione linguistica in assenza di un percorso propedeutico di accompa-gnamento e di indirizzamento, risultare molto difficile e spesso conduce a esiti fallimentari.

Adriana Osele: sì, concordo. Anche noi abbiamo notato la differenza quando si accompa-gna e quando no. Non stiamo parlando di seguire una persona per mesi o anni, ma una fase di accompagnamento è sicuramente utile allo studente.

Serena Tarter: gli esiti sono completamente diversi, sicuramente è un dato, quindi speriamo che si crei lo spazio di lavorarci. Anche in considerazione dei voucher linguistici che abbiamo proprio in questo periodo preso in carico nell’ambito del trilinguismo per studenti e docenti , per svolgere delle esperienze all’estero.

Gisella Langè: quant’è il voucher più o meno?

Serena Tarter: per i ragazzi gli importi sono differenziati in base alla condizione economica familiare (ICEF) e del Paese presso il quale verrà svolta l’esperienza. Mentre invece per gli insegnanti si è trattato semplicemente di un voucher di importo diverso in ragione del Paese ospitante, quindi per esempio un voucher docenti per Malta aveva un importo inferiore ri-spetto ad un voucher per il Regno Unito. Venivano poi ovviamente considerate le settimane di permanenza. I finanziamenti sono quelli del Fondo Sociale Europeo. A titolo personale vorrei aggiungere che lavorando da oltre dieci anni nel mondo dell’EDA, ho delle perplessità su alcuni schemi che sono stati adottati nell’intervento.... facendo un rapido calcolo abbiamo rilevato un numero altissimo, di docenti, spesso con livelli linguistici molto bassi (A2) ecc., che hanno presentato richiesta per periodi di due settimane a Malta. Rimango perplessa da questo tipo di richiesta. Penso che, nell’ottica di una programmazione CLIL, l’obbiettivo abbia bisogno di essere ben circoscritto, perché, a mio modo di vedere, è logico che sia importante investire sulle competenze linguistiche, siamo però in un momento in cui è neces-sario capire quali siano gli obiettivi, strutturarsi e fare anche un po’ di sintesi.

Mario Dutto: la durata massima qual è?

Serena Tarter: 4 settimane. Io avrei previsto esclusivamente questa opzione, in modo da coinvolgere solamente i docenti più motivati e con una reale necessità.

Jean-Claude Beacco: sulle certificazioni per i ragazzi?

Adriana Osele: noi ne facciamo tantissime soprattutto per il tedesco e l’inglese; più limita-tamente per lo spagnolo. Ripeto, c’è una sensibilità molto diversa a seconda della scuola essendoci discrezionalità. Almeno fino ad adesso. Vedremo poi con il Piano del trilingui-smo se andremo in una direzione che prevede certificazioni più diffuse. Fino ad ora questa sensibilità diversificata ci porta a vedere che ci sono scuole che credono fermamente nella certificazione (e quindi ci si dedicano da anni coinvolgendo anche il personale insegnante, si impegnano e fanno anche un lavoro all’interno del programma scolastico e ritagliano una preparazione specifica per la preparazione all’esame di certificazione). La sensibilità deve partire dall’insegnante, ma soprattutto dal dirigente: se il dirigente non crede nella cosa, non ha voglia di introdurre l’aggravio organizzativo che comunque comporta mandare a certifi-cazione 50-100-200 ragazzi, se il dirigente non riesce a imporsi sulla propria segreteria che

Adriana Osele: noi ne facciamo tantissime soprattutto per il tedesco e l’inglese; più limita-tamente per lo spagnolo. Ripeto, c’è una sensibilità molto diversa a seconda della scuola essendoci discrezionalità. Almeno fino ad adesso. Vedremo poi con il Piano del trilingui-smo se andremo in una direzione che prevede certificazioni più diffuse. Fino ad ora questa sensibilità diversificata ci porta a vedere che ci sono scuole che credono fermamente nella certificazione (e quindi ci si dedicano da anni coinvolgendo anche il personale insegnante, si impegnano e fanno anche un lavoro all’interno del programma scolastico e ritagliano una preparazione specifica per la preparazione all’esame di certificazione). La sensibilità deve partire dall’insegnante, ma soprattutto dal dirigente: se il dirigente non crede nella cosa, non ha voglia di introdurre l’aggravio organizzativo che comunque comporta mandare a certifi-cazione 50-100-200 ragazzi, se il dirigente non riesce a imporsi sulla propria segreteria che

Nel documento Voci dalla scuola e dal territorio (pagine 149-161)