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Università, Ricerca, Organismi internazionali Trento 19.05.2015 dalle 11.00 alle 13.00

Nel documento Voci dalla scuola e dal territorio (pagine 113-125)

Federica Ricci Garotti Università degli Studi di Trento – Docente Dominic Stewart Università degli Studi di Trento – Docente

Mario Zen FBK – Fondazione Bruno Kessler - Staff di Direzione CMM Roberto Viola Fondazione Edmund Mach – Dirigente Centro Ricerca

e Innovazione

Stefano Barbieri OCSE Trento – Direttore OCSE Trento Alessandra Proto OCSE Trento – Analista delle politiche

Loredana Bettonte Direttrice ISIT (Ist. Univ. per interpreti e traduttori)

Jean-Claude Beacco: lo scopo principale di questo incontro è di raccogliere le vostre opi-nioni sull’adeguatezza del Piano come è stato adottato dalla Giunta, a più livelli. Direi il primo, in termini di adeguatezza al contesto sociale e culturale dal punto di vista delle politiche linguistiche del territorio; poi, voi siete nel campo della didattica delle lingue, della psicolin-guistica ecc. quindi ci interessa vedere come studiosi e ricercatori quali opinioni avete sull’a-deguatezza del piano. Poi, come vedete il vostro apporto possibile, la vostra collaborazione come università, come fondazione, come OCSE, come prevedete la vostra partecipazione a questo Piano che è pluriennale, che ha risorse importanti e che segna un momento piut-tosto raro nelle politiche linguistiche, che è quello in cui un’amministrazione al più alto livello di decisione decide, primo, che l’educazione è prioritaria e, secondo, che nell’educazione le lingue sono prioritarie. Fatto che io non ho mai incontrato in 15 anni di lavori sulle politiche linguistiche, quindi è un qualcosa che si deve prendere in considerazione, tenendo in con-to quescon-to elemencon-to fondamentale che conoscete tutti che è quello delle coesione sociale, sappiamo che ci sono movimenti in tutta Europa dove le lingue sono prese in ostaggio per le identità esclusive, e che il ruolo della scuola è di cercare di prevenire e di far sì che le lin-gue vengano usate per altri fini, anche questo come cittadini c’è da rifletterci sopra e vorrei raccogliere i vostri pareri.

Roberto Viola: io posso dare la mia esperienza personale, io sono fuori dal sistema scola-stico. Le mie tre figlie sono tutte nate in Gran Bretagna dove ho vissuto per vent’anni. Mia moglie è tedesca ed il metodo usato nella mia famiglia è stato “one parent-one language”

(OPOL), ovvero: abbiamo esposto le bambine alla madrelingua dei genitori e poi a scuola hanno acquisito l’inglese. Tra noi, abbiamo solo e sempre parlato la lingua nativa, e questo

ha portato al trilinguismo che comprende tutto l’aspetto dell’inflessione e dell’accento che, secondo me, rappresenta un elemento e una ricchezza importantissima. Quindi, per me, una cosa importante sarebbe avere insegnanti madrelingua a partire da una età molto pre-coce (ripeto, parlo della mia esperienza personale, qua ci sono degli esperti...). Nella nostra famiglia, noi genitori abbiamo iniziato a parlare, appena possibile, la lingua nativa, e questo è stato fondamentale per portare ad un’acquisizione linguistica comprensiva di inflessione ed uso di idiomi culturalmente associabili alla lingua. Non c’è voluto tanto, perché il tempo che ho dedicato come unica fonte d’italiano, per i miei figli era limitato,visto che lavoro tutto il giorno. Però è stato sufficiente per dare una base che poi ha portato all’acquisizione molto rapida, una volta in Italia, di tutti gli idiomi necessari. L’esposizione da parte di una persona di lingua madre per me è importante e quindi l’uso di insegnanti non lingua madre e magari con una competenza linguistica limitata, anche se grammaticalmente adeguata, è un punto interrogativo che porrei. L’accento sul CLIL come strumento aggiuntivo e integrativo, fornito eventualmente anche tramite madrelingua, lo riterrei estremamente importante.

Jean-Claude Beacco: cosa è successo una volta arrivati in Italia rispetto all’insegnamento delle lingue a scuola?

Roberto Viola: noi siamo stati fortunati a venire a vivere vicino al confine tra il Trentino e l’Alto Adige perchè a Salorno, abbiamo trovato un plesso bilingue dove era disponibile sia l’insegnamento in italiano con tedesco come seconda lingua e sia tedesco con italiano come seconda lingua: noi abbiamo scelto di metterli nel corso italiano con seconda lingua il tedesco, per rafforzare l’italiano e mantenere un ambiente bilingue. Questo ha aiutato molto nell’inserimento delle nostre figlie, arrivate qui che avevano una decina d’anni, a fine scuole elementari, inizio medie. Devo dire che successivamente il problema principale è stato il metodo di insegnamento della matematica piuttosto che di altre materie. L’impatto è stato un po’ traumatico perché proprio la modalità d’insegnamento, ma poi anche tutto l’excursus della materia, è molto differente, non so se questo può contribuire perché evidentemente ciascuna società e cultura sviluppa i propri percorsi didattici, ma devo dire che è stato pro-prio traumatico passare da un sistema come quello britannico al sistema italiano. Quindi magari se questo vi interessa potrebbe essere un ragionamento, ci dovrebbe essere una maggiore uniformità di curricoli su alcuni aspetti. Anche sulle metodologie d’insegnamento.

Per il resto è stato tutto abbastanza fluido. A tutt’ora mancano dei vocaboli specifici quando ad esempio mia figlia studia diritto o filosofia, però diciamo che complessivamente non ripor-ta altri problemi, se non una ovvia ricchezza personale.

Jean-Claude Beacco: la questione della cultura educativa nel modo di fare matematica in Inghilterra, in Francia o in Italia è una questione importante perché se si insegna la matema-tica in inglese, bisogna chiedersi se sono insegnate all’italiana o all’inglese? Che cosa vuol dire insegnare le matematica all’italiano in inglese? Lì c’è un problema di cultura educativa, e cosa vuol dire insegnare matematica in inglese all’inglese in un contesto dove l’esperienza dei ragazzi viene normalmente da un modo di insegnare matematica che è diverso. Quindi que-sto problema della didattica e delle lingue, nel CLIL, è molto grosso e deve essere affrontato.

Federica Ricci Garotti: mi aggancio a quello che diceva il dottor Viola, poi aggiungo due cose sul Piano in generale. Il discorso dei metodi didattici che Lei ha colto come padre è in realtà il fuoco più importante in senso positivo e negativo nella formazione CLIL. I cor-si univercor-sitari CLIL continuano a rimanere un buco nero dell’istituzione, nel senso che noi diamo come università un titolo che teoricamente è l’abilitazione ad insegnare CLIL, ma in realtà non c’è ancora dal punto di vista istituzionale, nessun riconoscimento professionale per gli insegnanti CLIL. Questo secondo me è un problema grosso che l’amministrazione prima o poi deve decidersi ad affrontare, non abbiamo un parterre di insegnanti CLIL come previsto dalla legge Gelmini e in particolare dall’art. 14 della 249 che delega all’università la formazione dei docenti CLIL nelle scuole superiori, però non è prevista nessuna forma uffi-ciale di riconoscimento. Quindi noi abbiamo avuto grandissime difficoltà anche solo a capire cosa mettere nel diplomino che noi gli diamo, che cosa mettiamo, abilitato all’insegnamento CLIL? Mettiamo idoneo all’insegnamento CLIL? Cosa mettiamo, visto che la figura non è riconosciuta?

Gisella Langé: non è che non è riconosciuta, c’è un percorso di formazione definito con i criteri e due modalità, una per quelli che fanno i corsi per 60 crediti e l’altro per quelli che fanno i corsi per 20 crediti. Il titolo che voi rilasciate è il titolo valido a tutti gli effetti per dare al docente la possibilità di insegnare CLIL. Poi il fatto che questo titolo abbia per il momento solo il riconoscimento di un punto è un altro paio di maniche, però voi quello che lasciate al termine del vostro percorso di insegnamento è un titolo valido a tutti gli effetti.

Federica Ricci Garotti: certo che non ci sono dubbi sulla validità del titolo, il problema però è che sappiamo benissimo che se facciamo un bagno di realtà, sappiamo benissimo due cose, la prima cosa è che l’insegnante CLIL oltre a farsi questa formazione lavora molto più di un insegnante. La realtà è che almeno qui in Trentino, io giro molto nelle scuole quindi lo so, avendo la scuola molto bisogno di insegnanti CLIL ed essendo gli insegnanti CLIL, diciamo, che hanno seguito il percorso canonico molto pochi rispetto al territorio, alla fine insegna CLIL, non voglio dire chiunque, ma chi è disponibile a farlo, e questo è un’altra del-le conseguenze amministrative del probdel-lema del non riconoscimento contrattuadel-le, ma non volevo aprire questo capitolo, volevo solo buttare un sassolino per riallacciarmi a quello che diceva il dottor Viola e cioè, il problema della formazione di questi insegnanti: da una parte c’è il problema della competenza linguistica, ma di questo è inutile parlarne perché sappia-mo che gli italiani non brillano in questo aspetto, comunque non voglio affrontare questo, è soprattutto l’aspetto didattico, metodologico, cioè la maggior parte degli insegnanti italiani, quindi anche trentini sono abituati a una lezione disciplinare molto strutturata. Quindi con una grande quantità di tempo-parola lasciata all’insegnante e pochissimo tempo-parola lasciato agli studenti; sono appena tornata dall’Inghilterra l’ho visto, il sistema tedesco lo conosco molto bene, c’è maggiore responsabilità e maggiore coinvolgimento dei ragazzi in modo che in classe hanno modo di interagire molto di più anche nella lingua, quindi c’è un problema di tipo formativo. Però questo è un problema strutturale, il CLIL può mettere la pulce nell’orec-chio, nel senso che tutti gli insegnanti che hanno frequentato il corso universitario del CLIL hanno avuto questo shock, perché quando noi gli diciamo si insegna la matematica in

ingle-se come si fa in Inghilterra o come si fa in Germania, oppure si cerca di esingle-sere meno frontali e strutturati possibile, ovviamente loro sono persone disponibili, perché solo il fatto che si siano resi disponibili a fare questo corso significa che hanno una apertura mentale, però questo è il nodo principale intorno a cui poi si svolge tutto il lavoro di formazione. Questo per dire che la sua percezione è assolutamente giusta e corretta.

Sul Piano voglio dire due cose. Siccome io faccio parte su richiesta dell’IPRASE del tavolo che stenderà un report sulle politiche linguistiche dell’università, devo dire che dal lavoro che stiamo concludendo emerge un quadro interessante. Io stessa mi sono stupita di fronte alla quantità, relativamente alta, di iniziative di insegnamento universitario che vengono svolte in una lingua straniera, peccato che non si possa parlare di plurilinguismo, ma di colonialismo inglese perché queste iniziative vengono svolte tutte in inglese. Allora se un punto critico si può individuare è che mentre il Piano tende chiaramente al plurilinguismo, la realtà dell’u-niversità tende chiaramente ad un monocultura straniera che è quella anglosassone. Non ci sono corsi di dottorato, corsi di master, corsi anche nella triennale, nel bachelor o nella specialistica in una lingua diversa dall’inglese quando è lingua straniera, non ce n’è nemme-no unemme-no, nemme-non c’è il russo, nemme-non c’è il tedesco, per esempio il francese, lo spagnemme-nolo nemme-non esiste, quindi non ci sono altre lingue. Questo cozza con la richiesta, perché nel Centro Linguistico di Ateneo, il CLA, che offre corsi linguistici a tutti gli studenti trentini, c’è una richiesta invece che va molto verso il plurilinguismo, aumentano le richieste di corsi di russo, di cinese, di francese, di spagnolo, di tedesco, ovviamente l’inglese è sempre la lingua straniera maggio-ritaria, ma c’è una enorme richiesta da parte di studenti di specializzarsi e andare veramente verso un plurilinguismo. Non dimentichiamoci questa è la generazione Erasmus, quindi è una generazione che sicuramente riconosce l’inglese come lingua veicolare internazionale, ma sa altrettanto bene che non basta, l’inglese lo devi sapere come devi sapere la tua lingua, ma non basta. Questa è una cosa che io trovo contraddittoria all’interno dell’offerta universitaria che non va nella direzione del Piano. Non è vero che la richiesta non c’è, la richiesta c’è, oltretutto per attrarre anche studenti stranieri, che è il grosso problema dell’università, certa-mente i corsi d’inglese sono importanti, ma io sono sicura che verrebbero molti più studenti dalla Germania, dalla Russia, dall’Est se avessimo anche un’offerta di corsi in altre lingue, perché quelle in inglese le trovano già a casa loro.

Jean-Claude Beacco: bisogna però vedere chi le fa. Questo problema è un problema poli-tico di alto livello, che esiste qua, che esiste in Francia, dove è proibito per legge fare il dot-torato in un’altra lingua, anche se certe università lo fanno tranquillamente in inglese. Quindi questa è una questione di politica molto rilevante, perché se una lingua perde la legittimità di essere lingua della conoscenza, allora è in pericolo. Guarda cosa è successo in Svezia dove per esempio hanno dovuto tamponare perché tutto si faceva in inglese e la legittimità dello svedese di poter essere uno spazio d’innovazione per la ricerca e la tecnologia in generale era compromesso. Questo è un problema nazionale, che è di sicuro da mettere in evidenza.

Federica Ricci Garotti: io sono contentissima di questo Piano perché finalmente qualcu-no ha avuto il coraggio di mettere l’accento sul fatto che il tedesco sia, dovrebbe essere, un punto di eccellenza in una regione di confine. È da 20 anni, da quando sono qui, che

combatto con l’opinione pubblica trentina sui giornali, che ha un atteggiamento a mio pa-rere molto ambiguo e per me molto incomprensibile nei confronti del tedesco. Se qualche trentino mi illumina io sono contenta perché in 20 anni non ho ancora capito cosa hanno i trentini contro il tedesco.

Mario Zen: io sono trentino della generazione dove nelle scuole si poteva studiare solo tedesco e, solo alla fine dei miei corsi di studi avevano introdotto una classe sperimentale di inglese, una su cinquanta. Diciamo che il motivo di attrito non è linguistico, ma sociale.

Riguardo al Centro di ricerca in cui lavoro, noi abbiamo il 40% di stranieri che lavorano da noi, provenienti dai Paesi dell’Est, da Germania, USA, molti asiatici. Chiaramente non sono studenti che escono dalla scuola superiore, ma sono persone che hanno fatto l’università e mediamente il dottorato e la lingua al 100% è inglese per obbligo, non per scelta, gli stessi stranieri, tra di loro parlano inglese. Anche perché storicamente nelle scienze la lingua uffi-ciale è l’inglese, se devi fare un progetto per la comunità europea devi scriverlo in inglese, c’è veramente un monopolio. Quindi in buona sostanza neanche tra di loro parlano la loro lingua ed è abbastanza ridicolo. Questa è la situazione, purtroppo bisogna scrivere, parlare, esprimersi, fare seminari, parlare tutto in inglese, cosa che non è che mi entusiasmi ma la realtà è questa. La CE esige che i report, le riunioni, tutto sia in inglese. Abbiamo dei corsi anche in tedesco, ma in maniera molto minoritaria. Cinesi, russi, tutti parlano in inglese.

La mia esperienza è che con il passare degli anni il livello degli studenti italiani che parlano inglese è migliorato di molto, dieci anni fa arrivavano semianalfabeti, ora c’è stato un ottimo miglioramento. Cosa manca? La specificità della lingua inglese scientifica, a parte che non so nemmeno se definirlo inglese quello che si parla su da noi, è una lingua franca, che se un inglese l’ascoltasse gli verrebbe un po’ di fastidio psicologico, ma nella media è un progresso non trascurabile, manca il vocabolario tecnico-scientifico. Gli italiani sono molto migliorati, si vede che la scuola li ha preparati meglio.

Roberto Viola: mi aggancio a questo per parlare del centro di ricerca della Fondazione Mach. Abbiamo avuto rispetto alla fondazione Kessler un percorso evolutivo molto più ve-loce, nel senso che storicamente la fondazione Kessler ha avuto una forte componente internazionale, mentre io sono arrivato 10 anni fa in quello che era chiamato Istituto agrario di San Michele all’Adige, una struttura abbastanza tradizionale molto focalizzata sul tema territoriale. Quando io arrivai all’Istituto agrario c’era solo un dipendente di origini straniere e quindi la componente internazionale era quasi inesistente. Da allora abbiamo iniziato un percorso evolutivo molto accelerato che ha portato questa componente di origine interna-zionale a crescere sino alla centinaia di unità tra collaboratori, dottorandi. Abbiamo anche attivato una scuola di dottorato internazionale. Questi ricercatori, arrivati da tutti gli angoli del mondo, hanno creato un grosso subbuglio culturale all’interno dell’istituzione perché la parte amministrativa, a differenza della fondazione Kessler, non è integrata nel centro di ricerca, è una struttura sovraordinata che ha mantenuto un posizionamento culturale tradizionale. Nel mondo della ricerca l’inglese è la lingua franca, nel mondo amministrativo si fa tutto in italia-no, tutte le norme, le direttive, le circolari, tutto in italiano. Così abbiamo promosso un fortis-simo tentativo di apertura nei confronti dell’amministrazione centrale che gradualmente ha

cominciato ad aprire. Tuttavia permangono difficoltà di integrazione. Sicuramente non aiuta la notevole barriera linguistica, nel senso che nella nostra amministrazione la componente di funzionari che parla inglese è molto limitata, quindi ci sarebbe una difficoltà a produrre do-cumentazione, a rendere fruibili documenti importanti come regolamenti e contratti. Si deve operare la traduzione legale di questi documenti per renderli a prova di bomba. Tuttavia que-sto rende il processo molto complicato e coque-stoso.Il risultato è che alla fine si danno agli stra-nieri i documenti in italiano e questo secondo me non va nella direzione giusta. Allo stesso tempo un arricchimento culturale complessivo è evidente, quindi qualcuno sta cominciando ad apprezzare questa spinta verso l’apertura. Ma da dove viene questa spinta? Non è che arriva Viola e dice: si parla l’inglese! Come diceva Mario, se vuoi confrontarti a livello interna-zionale la lingua che si parla è l’inglese, se vuoi essere connesso devi parlare quella lingua.

La nostra non è una spinta ossessiva verso l’esterofilia, è una necessità nell’interesse proprio degli stakeholders, che però in questo momento ancora oppongono resistenza.

Io vorrei parlare di un problema che è stato esposto anche in sede EU nell’ambito del Par-tenariato Europeo per l’Innovazione (PEI), una nuova iniziativa promossa dalla DG Ricerca in collaborazione con la DGAgricoltura, per cercare di migliorare gli strumenti per l’innovazione in campo agricolo. In passato sono stati i fondi per l’innovazione sono stati veicolati verso l’università e gli enti di ricerca e non hanno generato sufficienti ricadute e spinte innovative.

Allora cosa hanno pensato a Bruxelles? Uno strumento nuovo per mettere insieme due mondi e che cerca di puntare alla promozione dell’innovazione a livello di base, delle comu-nità rurali. Opera tramite la creazione spontanea di gruppi operativi che si costituiscono nei territori, esprimono un bisogno per particolari innovazioni e poi si aggregano in reti a livello europeo. Uno dei problemi principali è che le comunità rurali non parlano le lingue, e quindi hanno una barriera all’innovazione che è dovuta alla propria posizione che è anche di difesa ad oltranza della lingua, del dialetto, delle tradizioni locali, intesa nel senso positivo dal loro punto di vista, però io espongo questa problematica nel senso che l’innovazione è una dina-mica globale che adesso ha strumenti molto potenti, chi prima ci arriva, prima ne beneficia.

Quindi questa difesa ad oltranza di una lingua che rappresenta una cultura contro il colo-nialismo, da un punto di vista economico e di accesso all’innovazione diventa una barriera sempre più importante.

Mario Zen: d’altro canto quando l’Europa ti spinge a fare consorzi internazionali, ne fai uno con l’Ungheria, uno con la Grecia, l’Irlanda, che lingua vuoi parlare?

Jean-Claude Beacco: non vorrei aprire il dibattito perché è abbastanza complesso. Prima non è vero in tutte le discipline, se uno fa storia, psicologia, storia dell’arte, il discorso è di-verso. L’altro problema è che sappiamo che ci sono tradizioni della scrittura della scienza, del modo di fare scienze che sono culturalmente diversi anche nello stesso ambito scientifico, perché se uno scrive un articolo in inglese deve scrivere un articolo come lo scrivono gli

Jean-Claude Beacco: non vorrei aprire il dibattito perché è abbastanza complesso. Prima non è vero in tutte le discipline, se uno fa storia, psicologia, storia dell’arte, il discorso è di-verso. L’altro problema è che sappiamo che ci sono tradizioni della scrittura della scienza, del modo di fare scienze che sono culturalmente diversi anche nello stesso ambito scientifico, perché se uno scrive un articolo in inglese deve scrivere un articolo come lo scrivono gli

Nel documento Voci dalla scuola e dal territorio (pagine 113-125)