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2. Il periodo assiale della rivolta Intrecci, confessioni e testimoni

2.2. Il museo e i suoi custodi

Nella sezione precedente si è tentato di definire il ruolo giocato dalla cornice narrativa all’interno del gioco delle significazioni possibili in L’amore degli insorti e The Rotters’ Club. Se dovessimo proseguire lo studio dei due romanzi instaurando una similitudine tra la cornice narrativa e quella di un quadro, balzerebbe immediatamente all’occhio come le rappresentazioni pittoriche che sono racchiuse nella seconda sono a loro volta inserite metaforicamente in una cornice più ampia, quella del museo. All’interno di quest’ultimo i dipinti non sono distribuiti in maniera casuale: alcuni di questi sono esposti nelle sezioni più importanti, mentre altri, invece, trovano posto nei corridoi meno in vista. Allo stesso modo, le rappresentazioni letterarie, così come quelle storiografiche, degli anni Settanta costituiscono un museo virtuale, privo di una sede materiale, all’interno del quale certe opere godono di una certa visibilità e altre, invece, sono relegate nei punti meno visitati, se non addirittura nel magazzino del museo, al quale l’ingresso da parte del pubblico non è consentito. Sia nel museo reale sia in quello virtuale l’obiettivo è quello di trasmettere i manufatti contenuti alla posterità, permettere che ciò che viene considerato degno di essere tramandato possa raggiungere il futuro. Essi, in altre parole, assolvono entrambi alla funzione di archivio. Per questa ragione, prima di continuare le nostre riflessioni, sembra opportuno richiamare alla memoria la definizione che Michel Foucault offre di questo dispositivo di trasmissione del sapere:

l’apparizione degli enunciati come avvenimenti singoli [...]. L’archivio è anche ciò che fa sì che tutte queste cose dette non si ammucchino all’infinito in una moltitudine amorfa […], ma si raggruppino in figure distinte, si compongano le une con le altre secondo molteplici rapporti, si conservino o si attenuino secondo regolarità specifiche.135

Questa definizione illustra il principio razionale alla base dell’idea di archivio: esso, instaurando «la legge di ciò che può essere detto», circoscrive un campo epistemologico. Potenzialmente, tutti gli «avvenimenti singoli» coerenti con la tipologia dell’archivio, quelli dotati, per esempio, di affinità tematica, possono entrare a farne parte e instaurare con gli altri testi «molteplici rapporti» di somiglianza, diversità, contrasto, e così via. Se consideriamo l’archivio testuale dedicato agli anni Settanta, esso contiene, tra le altre cose, romanzi, saggi storici, memoriali, film e fumetti: il fatto che sia possibile suddividere un repertorio così ampio di testi in queste categorie è la prova ulteriore di come l’archivio sia «ciò che fa sì che tutte queste cose dette non si ammucchino all’infinito in una moltitudine amorfa».

Se da un punto di vista analitico e descrittivo questa suddivisione permette di sistematizzare un’ingente quantità di documenti in categorie testuali ordinate, dall’altro «la legge di ciò che può essere detto» che traspare da questa configurazione sembra promanare dai testi stessi e appare come una norma trascendentale che regolamenta la loro emersione e la loro disposizione. Per questa ragione, ciò che ci deve interessare non è tanto lo studio del rapporto reciproco tra gli oggetti, quanto la razionalità che struttura il campo dell’archivio. Come sostiene sempre Foucault, infatti,

l’ordine è, a un tempo, ciò che si dà nelle cose in quanto loro legge interna, il reticolo segreto attraverso cui queste in qualche modo si guardano a vicenda, e ciò che non esiste se non attraverso la griglia d’uno sguardo, d’un attenzione, d’un linguaggio.136

La condizione d’esistenza dell’archivio, pertanto, non è costituita soltanto dalla «legge interna» degli oggetti che lo compongono; esso, infatti, «non esiste se non attraverso la 135 M. FOUCAULT, L'archeologia del sapere, cit., p. 173. Il corsivo è mio.

griglia d’uno sguardo, d’un attenzione, d’un linguaggio». Ciò fa sì che «la legge di ciò che può essere detto» non appaia come una regola disincarnata, una norma trascendentale, ma rappresenti, al contrario, il frutto di una razionalità umana e, proprio per questo, un principio regolatore che non può che essere determinato da finalità, obiettivi e intenti specifici.

Proprio a quest’ultima questione Jacques Derrida ha dedicato parole decisive: il filosofo francese, iniziando la sua analisi a partire dall’etimologia del termine “archivio”, ci informa del fatto che «arché […] indica assieme il cominciamento e il comando»137 e che la

radice dell’archivio vede intrecciarsi tra loro il disciplinamento dei e il disciplinamento tramite i testi. Se da una parte la nascita dell’archivio permette di inaugurare l’intelligibilità di un periodo storico – il suo «cominciamento» -, dall’altra emerge la questione fondamentale dell’imparzialità dell’archivio e viene smentita l’ingenua convinzione che i documenti siano in sé neutri. Come aggiunge sempre Derrida, infatti, «gli arconti», ovvero coloro che hanno in gestione l’archivio, «ne sono in un primo momento i guardiani»: essi, tuttavia, non si limitano a preoccuparsi della sola preservazione dei documenti, poiché «si accorda loro anche il diritto e la competenza

ermeneutica».138

Una volta delineati la regola di formazione e il principio di funzionamento dell’archivio, non resta che individuare chi sono gli individui ai quali è delegata «la competenza ermeneutica» del campo discorsivo costruito attorno agli anni Settanta e chi sono coloro che sono investiti della carica di «arconti». Per fare ciò, si farà riferimento al concetto di «primary definer»: questo, secondo gli studiosi del CCCS, è colui che, esercitando la sua funzione istituzionale di politico, di agente dell'ordine o, più in generale, di personalità di rilievo, ha la possibilità di circoscrivere l'ambito in cui un determinato fenomeno può essere discusso, delimitando, in questo modo, il ventaglio delle sue possibili interpretazioni e bloccando sul nascere qualsiasi forma di critica che, benché pertinente, possa rivelarsi controproducente per le finalità che i primary definers 137 J. DERRIDA, Mal d'archivio. Un'impressione freudiana, Napoli, Filema, 2005, p. 11.

intendono perseguire.139

La direzione impressa in questo modo al discorso viene a sua volta amplificata da un meccanismo che vede coinvolti in prima persona i media: questi, infatti, essendo implicati nella «structures of news production» e riprendendo le dichiarazioni rilasciate dai

primary definers, finiscono «in the “last instance”, to reproduce the definitions of the powerful,

without being, in a simple sense, in their pay».140 Questo processo è decisamente insidioso

poiché «this interpretation then “commands the field” in all subsequent treatment and sets the terms of reference within which all further coverage or debate takes place»:141 se, come

si è visto in precedenza, la razionalità dell’archivio è determinata teleologicamente da interessi che imprimono a quest’ultimo una determinata struttura anziché un’altra, questo processo si rivela particolarmente rischioso laddove gli interessi di una parte della società non trovano posto all’interno di questa rappresentazione. È per questo che Bill Anderton, un personaggio di The Rotters’ Club, sindacalista presso gli stabilimenti della British Leyland di Birmingham, è consapevole dell’importanza che i documenti che testimoniano le lotte operaie portate avanti dai lavoratori inglesi debbano non solo essere preservati, ma conservati da lui, un lavoratore, affinché gli interessi dei suoi colleghi possano essere difesi in prima persona dagli operai stessi. Si legge, infatti, nel romanzo:

Bill filed the letter carefully among his papers. He would not dignify it with a reply, bot nor would he destroy it. It would come in useful, he was sure of that. And besides, he made it a point of principle not to destroy any documents. He was building up an archive, a record of class struggle in which every detail was important, and for which future generations of students would be grateful. He already had plans to donate it to a university library.142

Come si può notare in questo brano, la speranza di Bill Anderton è quella di costituire «a record of class struggle»: questa necessità, motivata dalla persistenza del conflitto tra capitale e lavoro, tuttavia, sembra mettere in discussione ciò a cui era stato fatto 139 Cfr. S. HALLETAL., Policing the Crisis. Mugging, the State, and Law and Order, London, Macmillan, 1978, p.

59. 140 Ivi, p. 57. 141 Ivi, p. 58.

riferimento ad inizio capitolo come “affluent society” inglese, la pax augustea che, come nel caso del “boom” economico italiano, sembrava essere stata la conquista del secolo, in grado di mettere in soffitta una lotta di classe considerata, forse anzitempo, un vecchio retaggio primonovecentesco.

La compresenza nel discorso sugli anni Settanta di sintagmi di significato opposto come “affluent society” e “class struggle” non indica semplicemente due modalità differenti di riferirsi a uno stesso periodo, ma evidenzia come «non ci potrebbe essere archiviazione senza titolo»; come, in base alla provenienza politica dell’istanza interpretativa, sia necessario mobilitare i significati disponibili attorno alla visione del mondo che si vuole sostenere e come il «principio arcontico di legittimazione» risulti fondamentale per far prevalere all’interno dell’opinione pubblica una modalità di intendere la realtà piuttosto che un’altra.143

Gli studiosi del CCCS sono consapevoli dell’importanza del processo di denominazione appena illustrato; nel loro lavoro collettivo dedicato allo studio della crisi inglese degli anni Settanta, infatti, scrivono:

Labels are important, especially when applied to dramatic public events. They not only place and identify those events; they assign events to a context. Thereafter the use of the label is likely to mobilise this whole referential context, with all its associated meanings and connotations.144

Stuart Hall e colleghi non solo sottolineano come le «labels» siano in grado di mobilitare il «referential context» che determina l’attività ermeneutica svolta attorno agli anni Settanta, ma evidenziano anche come queste offrano il meglio di sé proprio in occasione di «dramatic public events»: come nel caso degli attentati terroristici che si verificano in Italia e in Inghilterra, ai quali ci si riferisce rispettivamente con le espressioni “Anni di piombo” e “Birmingham Six”, l’evento drammatico scatena l’emotività degli individui, annebbia momentaneamente la lucidità d’analisi e trova nelle «labels» una razionalizzazione di quanto successo, che, per quanto ideologica, permette all’individuo di entrare in possesso 143 Cfr. J. DERRIDA, Mal d'archivio, cit., p. 53.

di una cornice interpretativa capace di metterlo al riparo dalla presunta irrazionalità del male.

Mentre le due definizioni, “Anni di piombo” e “Birmingham Six”, verranno analizzate e messe in discussione nella prossima sezione, per ora si può comprendere come questi sintagmi, una volta formulati, pronunciati e messi in circolazione, richiamino e implichino dialetticamente quelli che, al contrario, vengono taciuti, quelli che, momentaneamente, sono stati sconfitti nell’agone per l’egemonia sull’interpretazione degli anni Settanta.

Questi ultimi, come per esempio “lotta di classe”, infatti, sono latori di una «parola ordinaria assente ma disponibile»,145 veicolano una visione alternativa della realtà il cui

esprimersi, pur essendo realizzabile nello stesso contesto enunciativo in cui opera il discorso ideologico dominante, appare invisibile «poiché la luce del campo lo attraversa ciecamente senza riflettersi su di esso».146 Le parole di Althusser aiutano a comprendere

alla perfezione quale sia il campo di battaglia sul quale le visioni del mondo si scontrano e si contendono una posizione privilegiata all’interno del discorso pubblico; il filosofo francese, infatti, sostiene che

l’invisibile è definito dal visibile come proprio invisibile, propria proibizione di vedere: l’invisibile non è dunque semplicemente, per riprendere la metafora spaziale, il di fuori del visibile, la tenebra esterna dell’esclusione, sibbene la tenebra interna dell’esclusione, interna al visibile stesso perché definita dalla struttura del visibile.147

Essendo implicate da un punto di vista dialettico, la visione dominante e quella subalterna sono irrimediabilmente intrecciate, i loro destini non sono mai determinati in autonomia dall’una o dall’altra. Secondo Terry Eagleton sarebbe proprio questo il punto debole dell’ideologia dominante: benché questa abbia il potere di oscurare e di relegare l’oppositore nella «tenebra interna dell’esclusione», essa, per autodefinirsi in termini 145 P. RICOEUR, La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione, Milano, Jaka Book,

1981, p. 27.

146 L. ALTHUSSER, Dal "Capitale" alla Filosofia di Marx in ID. - E. BALIBAR, Leggere "Il Capitale", Milano, Feltrinelli,

1971, pp. 11-76: 28. 147 Ivi, p. 27.

differenziali rispetto a ciò cui si oppone, è costretta «to recognize an “other” to itself and inscribing this otherness as a potentially disruptive force within its own forms».148

Sarebbe proprio questa condizione di subalternità e, allo stesso tempo, di implicazione a permettere alla letteratura di aprire un dibattito con l’ideologia, «di rappresentare e rendere accessibile l'estraneità del discorso nel discorso stesso».149 L’amore

degli insorti e The Rotters’ Club, per esempio, gettano luce sugli invisibili degli anni Settanta,

restituiscono una visibilità ai marginali, a tutti coloro le cui storie, benché presenti nella memoria collettiva, non hanno mai trovato nessuno che le indicizzasse e promuovesse o, come è stato detto in precedenza, un «principio arcontico di legittimazione». Le esistenze opache dei militanti rivoluzionari sconfitti, degli operai e delle operaie inglesi che lottavano a difesa del loro posto di lavoro, dei migranti caraibici e pachistani che vivono in Inghilterra raccontate nei romanzi di Tassinari e Coe costituiscono, direbbe Mario Domenichelli, «dei varchi, delle soglie che si aprono su altre dimensioni, su una molteplicità di altre storie inscritte e al tempo stesso celate, represse e tuttavia segnalate da quelle opacità».150

Il racconto dei due autori opera una «lettura […] sintomale» dell’archivio: la narrazione in L’amore degli insorti e The Rotters’ Club da una parte «scopre ciò che si cela nel testo che legge»,151 illumina le zone d’ombra oscurate dall’ideologia dominante,

smascherandone le strategie retoriche di costruzione del consenso e proponendo, allo stesso tempo, una visione del mondo più democratica e inclusiva; dall’altra parte, invece, essa dimostra come certe critiche rivolte alla letteratura di finzione, come quella di avere la «pretesa di dare risposte a problemi che la sovrastano»152 o di voler contendere alla storia il

ruolo di giudice sugli eventi del passato, risultano poco centrate e fuori fuoco. Nel processo della «lettura sintomale», infatti, «il secondo testo [– il racconto di Tassinari e

148 T. EAGLETON, Ideology. An Introduction, London – New York, Verso, 2007, p. 45.

149 H.R. JAUSS, Estetica e interpretazione letteraria. Il testo poetico nel mutamento d'orizzonte della comprensione,

Genova, Marietti, 1990, p. 28.

150 M. DOMENICHELLI, Lo scriba e l'oblio, cit., p. 15.

151 L. ALTHUSSER, Dal "Capitale" alla Filosofia di Marx, cit., p. 29.

Coe-] si articola sui lapsus del primo»,153 ovvero sull’archivio di testi sugli anni Settanta,

non tanto per rivelarci qualcosa di nuovo o fornirci una risposta che non potrebbe dare, quanto per perturbare l’archivio stesso, per riarticolare la sua configurazione e, infine, per riformulare «la domanda complessa che ne è la condizione».154 Nella prossima sezione,

pertanto, si cercherà di individuare come opera questa lettura sintomale e come, giustapponendo i romanzi di Tassinari e Coe ad altri documenti dell’archivio, l’invisibile oscurato dall’ideologia dominante possa acquisire di nuovo una corporeità ben riconoscibile.

2.3. I quadri esposti e quelli coperti