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4. Lo spirito continua

4.3. Un presente che va lontano

Nelle pagine conclusive di L’amore degli insorti, Sonia confessa al protagonista del romanzo, Paolo Emilio Calvesi, di essere sua figlia. Come è già stato osservato nel secondo capitolo di questa tesi, la ragazza decide di rivelare la propria identità al padre per comprendere le ragioni che hanno spinto quest’ultimo ad abbandonare lei e la madre. Queste motivazioni, spiega Paolo Emilio, affondano le proprie radici negli eventi che hanno segnato gli anni Settanta italiani: senza specificare a quale gruppo politico appartenesse, infatti, la giovinezza di Paolo Emilio è caratterizzata dalla militanza nella sinistra extra-parlamentare e la sua fuga, pertanto, si è resa necessaria in seguito alla recrudescenza da parte dello Stato della repressione nei confronti della lotta armata. 522 K. MARX, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, cit., pp. 44-45.

Il dialogo tra padre e figlia, oltre a restituire al lettore considerazioni decisive sulle modalità con le quali il sapere storico su una data epoca viene a formarsi, getta luce sul presente nel quale il romanzo è stato scritto e lo fa dipingendo Sonia non solo come la depositaria di una testimonianza legata a episodi dei quali non ha esperienza diretta, ma anche come un soggetto attivo che appartiene alla realtà in cui vive e che, come il padre, aspira attraverso l’azione politica alla realizzazione di una società più equa. Per tentare di spiegare a Paolo Emilio la presunta diversità antropologica tra le due generazioni di militanti, i violenti degli anni Settanta e i nonviolenti di oggi, Sonia non può non fare riferimento all’episodio più significativo di mobilitazione politica avvenuto in Italia negli anni Duemila, ovvero quello legato allo svolgimento del G8 a Genova nel luglio del 2001. La ragazza, infatti, afferma:

A Genova non c’ero, ma mi sono riconosciuta in quel movimento, specie quando […] ha definitivamente scelto di chiudere con le pratiche violente. Ed è proprio questo il punto: per voi la violenza era, a seconda dei casi, uno strumento di lotta o un male necessario; per me, e per la stragrande maggioranza dei miei coetanei, è qualcosa di aberrante.523

Se da un punto di vista letterale il termine «aberrante» descrive la qualità di un oggetto o di un’azione che è qualitativamente differente rispetto a delle caratteristiche che la collettività reputa normali, ritenere che la violenza sia tale è sicuramente condivisibile da un punto di vista idealistico. Come si è già spiegato facendo riferimento ai concetti elaborati da Slavoj Žižek nel secondo capitolo, tuttavia, si possono contare diverse tipologie di violenza – fisica, sistemica e simbolica - e nessuna di esse esiste in maniera disincarnata. Ogni loro manifestazione è situata, prevede vittime e carnefici e, pertanto, non può essere valutata facendo riferimento a categorie morali sempre uguali a se stesse. Alla luce di queste considerazioni, quella che Paolo Emilio tenta di trasmettere alla figlia mediante la sua testimonianza non è tanto un'apologia della lotta armata, quanto la necessità di comprendere che la violenza degli anni Settanta, per quanto infruttuosa da un punto di vista strategico, non è stata il frutto dell'irrazionalità collettiva, ma un mezzo per 523 S. TASSINARI, L'amore degli insorti, cit., p. 163.

fare fronte alla violenza sistemica del capitalismo e a quella simbolica e oggettiva dello Stato italiano. Il passaggio di consegne da una generazione all'altra, quindi, non riguarda la ripresa delle pratiche politiche in sé, ma la riemersione della possibilità di un cambiamento sociale che può avvenire soltanto a due condizioni: nel primo caso, è necessario, come è stato detto con Badiou, correggere da parte delle nuove generazioni gli errori compiuti dai loro predecessori; nel secondo caso, il rivoltoso di oggi deve agire con la consapevolezza di vivere in un presente storicizzato, la cui conoscenza può derivargli dagli esempi che lo hanno preceduto.

Utilizzando le parole di Benjamin, il racconto di Paolo Emilio «implica un utile, un vantaggio» per Sonia, perché questa, dopo avere ascoltato la testimonianza del padre, è finalmente in grado di contestualizzare delle azioni che in precedenza poteva valutare esclusivamente attraverso categorie morali astratte. Paolo Emilio, quindi, si dimostra «persona di"consiglio" per chi lo ascolta»,524 dove per "consiglio" non si intende tanto «la

risposta a una domanda», quanto «la proposta relativa alla continuazione di una storia (in svolgimento)».525 L'elemento imprescindibile per alimentare la circolarità di questa storia

comune, il tratto necessario per «essere in grado di raccontarla»,526 tuttavia, è quello di

avere a propria volta una storia da raccontare: l'ingiunzione a proseguire il racconto presente nelle narrazioni che rappresentano la rivolta, pertanto, dimostra che l'eredità narrativa ricevuta dalle generazioni precedenti rimane sterile se colui che la riceve non affianca ad essa forme di azione concreta nella realtà. Di fronte all’ammissione di Sonia: «A Genova non c’ero»,527 quindi, sarà più utile al nostro scopo prendere in esame un altro

romanzo di Stefano Tassinari, I segni sulla pelle (2003): al suo interno, infatti, l’autore italiano narra le vicende di Caterina Ramat, una giornalista, la quale, verosimilmente coetanea di Sonia, si trova a Genova durante il G8 per documentare la protesta dei movimenti contrari alla globalizzazione.

Mentre raggiunge con il treno da Bologna il capoluogo ligure, Caterina descrive le 524 W. BENJAMIN, Il narratore, cit., p. 323.

525 Ibidem. 526 Ibidem.

persone presenti nel suo vagone e che, come lei, si stanno recando a Genova per partecipare alla manifestazione. Ciò che durante il viaggio attira maggiormente l’attenzione della giornalista è la variegata composizione anagrafica dei passeggeri della carrozza. Caterina, infatti, dopo avere notato un gruppo di ragazzi della sua stessa età, osserva:

Passa una coppia con il doppio dei loro anni, che l’esperienza ha reso più concreta. C’è gente che non molla mai, pensa Caterina, nemmeno davanti alle sconfitte, all’indifferenza, ai riflussi, allo sforzo immenso di riprendere da capo. Al loro posto, lei non riesce a immaginare se sarebbe in grado di emularli, o se finirebbe col mettere tra parentesi un periodo incauto della propria vita. Sa solo che li ammira, come si fa con chi è capace di dare l’esempio, anche se un certo mondo, figlio di una sinistra perbene, li considera retorici, fuori del tempo.528

Seppure nella sua brevità, questo brano di I segni sulla pelle conferma e permette, quindi, di riassumere molte delle proposte teoriche avanzate fino a questo punto: in primo luogo, quella osservata da Sonia non è una coppia di adulti qualsiasi, ma è costituita da un uomo e da una donna che durante la loro giovinezza hanno vissuto in prima persona il clima politico degli anni Settanta. In virtù di questa esperienza, ovvero di ciò che ha reso la coppia più «concreta», questa può consigliare ai contestatori più giovani come affrontare al meglio il corteo. In secondo luogo, Sonia «ammira» la coppia poiché in essa ritrova l’entusiasmo che sa suscitare «chi è capace di dare l’esempio»: l’uomo e la donna di mezza età non si sono limitati a militare «in un periodo incauto della loro vita», ma continuano a farlo, a dispetto delle sconfitte passate, sia recandosi in prima persona alle manifestazioni sia cercando di essere utili a coloro che partecipano per la prima volta in vita loro a un evento di questo tipo. In terzo e ultimo luogo, l’essere «fuori del tempo» che caratterizza la coppia di attempati rivoltosi entra in risonanza con l’amletico “The time is out of joint”529

impiegato da Jacques Derrida per teorizzare la natura spettrale dell’insegnamento marxista e concettualizzare ciò che egli a definito l’hantologie, ovvero quella «dimensione 528 S. TASSINARI, I segni sulla pelle, Milano, Tropea, 2003, pp. 12-13. Il corsivo è mio.

dell’interpretazione performativa […] che trasforma quel che interpreta»530 e della quale, in

questo lavoro, si è tentato di individuare le ricadute e le ripercussioni in ambito narrativo. Si è notato, infatti, che, proprio come il marxismo descritto da Derrida, ogni ricomparsa del racconto della rivolta «non appartiene più al tempo, se con questo nome si intende la connessione dei presenti modalizzati»,531 e che esso dà origine a una semantica

dei tempi storici che disarticola l’ordine cronologico dell’orologio in favore di quello ciclico del calendario. Specificatamente politico, quindi, non è più solo il contenuto della narrazione, ma anche l’atto stesso del raccontare storie, poiché, sempre secondo Derrida, il susseguirsi ininterrotto dei cicli di oppressione, lotta e sconfitta sarebbe alimentato proprio dal mito politico della rivolta, il quale, quindi, finirebbe per rappresentare l’elemento costitutivo di «una politica della memoria, dell'eredità e delle generazioni».532 La

dimensione temporale inedita dischiusa dal racconto, pertanto, origina un presente che è «messianico», ma «senza messianismo»,533 e che, in virtù di questa sua caratteristica, apre

nello spettro dei futuri realizzabili la possibilità emancipatrice del cambiamento sociale. Esso, tuttavia, non dipende più da alcuna entità trascendentale, ma, al contrario, può verificarsi solo attraverso l’intervento umano sulle relazioni di forza e di potere che governano la realtà. Sempre con Derrida, ad operare nel messianico «sarebbe l’urgenza, l’imminenza, ma anche, paradosso irriducibile, un’attesa senza orizzonte di attesa»:534 in

questo presente arricchito la ritenzione del passato e la protensione verso il futuro perderebbero la loro tentazione rispettivamente nostalgica e teleologica, conservandone, tuttavia, sia il patrimonio di esperienze sia la condizione di realizzabilità.

Introducendo il concetto di «mito interrotto» elaborato da Jean-Luc Nancy, si può ipotizzare che ciò che accomuna hantologie e mito della rivolta non è solo il loro nucleo più profondo, individuabile nella proposta di un’idea di giustizia sociale e democratica; essi, infatti, funzionerebbero esattamente nello stesso modo, il primo operando nel campo della teoria marxista, il secondo in quello della narrativa. Come afferma il filosofo francese, 530 J DERRIDA, Spettri di Marx, cit., p. 69.

531 Ivi, p. 6. 532 Ivi, p. 4. 533 Ivi, p. 79. 534 Ivi, p. 211.

infatti, «il comunismo dell’essere in comune della scrittura […] consiste interamente […] nel gesto inaugurale che ogni opera riprende, che ogni testo traccia di nuovo»:535

inaugurazione senza fondazione e conclusione che non porta a termine sono le caratteristiche dei romanzi che sono stati analizzati e le cui peculiarità, appunto, sono quelle di «giungere al limite, lasciarlo apparire come tale».536 Ogni racconto, quindi, ha il

pregio di riprendere e, contemporaneamente, di «interrompere il mito» della rivolta, generando una semantica storica sincopata, quella lettura controtempo che in precedenza è stata definita “in levare” e che, aperta all’eredità selezionata dal passato, è già in procinto di diventare anch’essa lascito per le generazioni future. In altre parole, «la letteratura non porta a termine proprio nel punto in cui porta a termine» e compie questo cortocircuito tra ripresa e compimento laddove «il racconto passa ad altri racconti».537

Ciò che permette al racconto della rivolta di sfondare il muro che separa fiction e realtà e che quindi permette alla prima di intervenire concretamente sulla seconda, è quella che Yves Citton ha definito come pratica della «scenarizzazione»: il romanzo di Tassinari, infatti, non coinvolge il lettore solo perché descrive un evento del quale questo è a conoscenza o al quale, addirittura, ha partecipato, ma anche in virtù della «forzatura metalettica» presente nel testo e che «trasforma i comportamenti dei personaggi fittizi in comportamenti di individui reali».538 La «forzatura metalettica» sarebbe un elemento

fondamentale, in questa prospettiva, perché, secondo Althusser, la «coscienza», nel nostro caso quella del lettore, «accede al reale non per mezzo di un suo sviluppo interno, ma per mezzo della radicale scoperta dell’altro da sé».539 Nel caso di I segni sulla pelle, l’elemento

metalettico, per esempio, è costituito dalle domande che Caterina si pone verso la fine del romanzo; la giornalista, infatti, dopo avere assistito alla sanguinaria repressione del corteo dei manifestanti culminata con l’uccisione di Carlo Giuliani, chiede a se stessa, interpellando allo stesso tempo il lettore:

535 J.-L. NANCY, La comunità inoperosa, Napoli, Cronopio, 2005, pp. 140-141.

536 Ibidem.

537 Ivi, pp. 135-136.

538 Y. CITTON, Mitocrazia. Storytelling e immaginario di sinistra, Roma, Alegre, 2010, p. 110.

È stata la violenza a cambiarmi? Da qualche parte ho letto che sarebbe “la levatrice della Storia”... La definizione non mi piace, e certo non la farei mia, eppure mi affascina, nel senso che, per quanto un’idea del genere possa sembrare orribile, è sempre stato così, nel bene e nel male, e allora non so se valga la pena continuare a nascondersi dietro il paravento delle buone intenzioni. Abbiamo riportato molte ferite […] e temo che molte altre ce ne verranno inferte se non inizieremo a difendere, anche con durezza, i pochi spazi che ci restano. Lo diceva Che Guevara, no? “Dobbiamo essere duri, senza perdere la tenerezza”, e visto che siamo e vogliamo essere diversi è proprio quella tenerezza a rappresentare il confine tra i nostri e i loro comportamenti.540

I dubbi di Caterina - «È stata la violenza a cambiarmi?» - spingono il lettore a porsi la medesima domanda e lo invitano a riconsiderare con attenzione la peculiarità degli eventi che hanno avuto luogo a Genova nel luglio del 2001. Se la cancellazione dei graffiti nei testi di Cortázar, Englander e Tassinari restituiva a livello simbolico la natura oppressiva del regime argentino, in questo caso i «segni sulla pelle» del titolo del romanzo, le ferite riportate dai contestatori, smascherano il nesso che lega la responsabilità dello Stato italiano e il suo utilizzo della violenza fisica, sistemica e simbolica, esemplificate rispettivamente dall’intervento delle forze dell’ordine a difesa degli interessi neoliberisti contro i quali la contestazione era stata indetta e nella criminalizzazione dei manifestanti.

Il «paravento delle buone intenzioni» a cui fa riferimento Caterina in questo brano, quindi, sembra criticare l’atteggiamento ingenuo nei confronti della violenza espresso da Sonia in L’amore degli insorti: la protagonista di I segni sulla pelle non sta affatto compiendo un’apologia della violenza, ma invita il lettore a riflettere con più attenzione su tutti i modi attraverso i quali questa può manifestarsi. La violenza, in questa prospettiva, non costituisce chiaramente una strategia da adottare per avanzare una controffensiva, ma rappresenta, se subita, una dolorosa soglia di politicizzazione: nel momento di verità che il suo scoppio sancisce, essa rende esplicita quella «distinzione tra amico (Freund) e nemico (Feind)»541 che per Carl Schmitt fonda la categoria stessa del politico.

Di fronte alla violenza bruta delle forze dell’ordine, Caterina, infatti, non può che 540 S. TASSINARI, I segni sulla pelle, cit., pp. 153-154. Il corsivo è mio.

domandarsi: «Capisci? Ci hanno trattato come soldati di un esercito nemico, solo che noi eravamo disarmati e non sapevamo di essere in guerra».542 La morte di Carlo Giuliani,

l’irruzione nella scuola Diaz e le sevizie inflitte nella caserma di Bolzaneto ai giovani manifestanti smascherano la retorica di uno Stato soltanto in apparenza democratico e che, invece, di fronte all’imponenza della contestazione organizzata contro il G8, non esista ad accantonare la politica del consenso e a svelare la sua vera natura repressiva, scatenando contro gli oppositori il proprio potere coercitivo e avvalorando l’assunto di Michel Foucault, il quale, rovesciando la tesi di von Clausewitz, definisce «la politica come guerra continuata con altri mezzi».543 La presa di coscienza di questa contrapposizione è proprio

ciò che esorta Caterina a rimarcare «il confine tra i nostri e i loro comportamenti» e che la spingerà, in futuro, nonostante i segni sulla pelle, o forse proprio grazie a quelli, a continuare a organizzarsi con gli altri militanti per tentare di realizzare una società con meno diseguaglianze. La «scenarizzazione», quindi, obbliga il lettore a fare i conti con se stesso e a stabilire, in base al meccanismo di immedesimazione innescato dalla funzione metalettica del testo, chi, tra i manifestanti e i loro oppositori, sarà per lui Freund o Feind.

I segni sulla pelle, tuttavia, non si limita a mettere il lettore di fronte alla necessità di

compiere una scelta di campo, ma, grazie alla professione di giornalista di Caterina, tematizza l’aspetto eminentemente politico delle modalità con le quali gli episodi di conflitto sociale vengono raccontati: anche in questo romanzo, richiamando alla memoria le osservazioni dei due capitoli precedenti, è possibile incontrare quel processo di criminalizzazione riservato dai media agli oppositori dello status quo, che serve al discorso dominante per delegittimare agli occhi della società civile la proposta politica dei contestatori. Per esempio, appena arrivata nel capoluogo ligure, Caterina si trova di fronte una Genova che mostra tutti i sintomi di una paura generata ad arte dalle campagne informative che hanno preceduto il G8: come scrive Tassinari, «la città è quasi deserta, molti negozi sono chiusi, e il rumore più forte è quello prodotto dagli elicotteri sulle […] teste».544 Quello che viene descritto dall'autore sembrerebbe assomigliare, più che al

542 S. TASSINARI, I segni sulla pelle, cit., p. 156.

543 M. FOUCAULT, Bisogna difendere la società, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 23.