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4. Lo spirito continua

4.1. Un presente che viene da lontano

Come è già stato accennato nei capitoli precedenti, The Closed Circle è il romanzo di Jonathan Coe in cui giungono a compimento le vicende di molti dei protagonisti di The

Rotters’ Club. Anche in questo romanzo, ambientato a Birmingham a cavallo tra gli anni

Novanta e gli anni Zero del Duemila, l’autore restituisce al lettore un affresco dettagliato della società inglese, facendo attraversare ai suoi personaggi finzionali i principali avvenimenti storici di quegli anni.

Uno di questi eventi è l’ennesima ristrutturazione aziendale a cui vengono sottoposti gli stabilimenti industriali della Rover, un’importante fabbrica di automobili di Birmingham, la quale, con il nome di British Leyland, era stata al centro della cronaca, e di

The Rotters’ Club, per vicende analoghe durante gli anni Settanta. Se nel prequel di The Closed Circle il disagio dei lavoratori di fronte a queste misure manageriali viene

simbolizzato mediante lo sguardo singolo di Bill Anderton, un sindacalista dell’azienda, in questo romanzo Coe adotta un punto di vista collettivo. L’autore, infatti, decide di descrivere l’imponente manifestazione organizzata dagli operai e dai loro simpatizzanti per invitare il governo a tutelare coloro che, di fronte allo smantellamento delle linee di produzione, finirebbero per perdere il proprio posto di lavoro. Coe, di fatto, scrive:

The human river was busy and fast-moving, even though this was just a tributary to the main current. There were banners everywhere you looked ('Don't Let Rover Die', 'Save Our Jobs', 'Blair Doesn't Care'), and all of the city's life seemed to be here: pensioners were walking with teenagers, Bangladeshis alongside whites and Pakistanis. It was a good atmosphere, Benjamin thought, even if everybody did look decidedly cold.432

Il corteo rappresentato dall’autore inglese possiede un elemento verosimilmente in comune con qualsiasi mobilitazione collettiva avvenuta in ogni epoca e ad ogni latitudine. Come spiega Alain Badiou, infatti, in occasioni di questo tipo, «attraverso l’azione si mettono in relazione diversi strati sociali che in genere sono separati, creando così sul posto un tipo soggettivo nuovo».433 Esattamente come avviene durante la manifestazione

descritta in The Rotters’ Club avente come protagonista la sindacalista indiana Jeyaben Desai, anche in questo caso, di fronte alle ricadute che la chiusura di una delle sue fabbriche più importanti comporterebbe per la città, pensionati e giovani, bengalesi e pachistani mettono momentaneamente in secondo piano le fratture di carattere identitario che striano il corpo sociale e fanno emergere una struttura categoriale più profonda rispetto a quella dell’età anagrafica o dell’etnia, ovvero quella della classe sociale. Se da una parte la chiusura della Rover rappresenterebbe per i cittadini di Birmingham una grave perdita a livello sociale ed economico, dall’altra la mobilitazione innescata dalla crisi opera come soglia di politicizzazione per alcune categorie che spesso sono relegate ai margini del discorso politico come quelle dei giovani, degli anziani o dei migranti. Come scrive sempre Badiou, si potrebbe affermare che, prima della mobilitazione, «queste persone sono presenti nel mondo, ma assenti dal suo senso e dalle decisioni sul suo 432 J. COE, The Closed Circle, cit., p. 105.

avvenire». Durante il corteo, invece, «un inesistente del mondo comincia a esistere in questo stesso mondo con un’intensità massima» e, in virtù di questo fatto, continua il filosofo francese, può operare «un cambiamento del mondo».434

Se la soggettivazione politica è il risultato minimo al quale può pervenire chiunque partecipi a una qualsiasi mobilitazione sociale, la manifestazione raccontata da Coe, tuttavia, possiede alcune peculiarità che la distinguono da tutte le altre occasioni di protesta della storia, ovvero i suoi tratti più specifici come il giorno e il luogo dell’evento, la vertenza che ne ha determinato l’organizzazione, la composizione sociale della folla presente in piazza e così via. Questi elementi sono ben presenti nel brano citato da The

Closed Circle e sono rintracciabili nelle scritte riportate dagli striscioni che punteggiano il

corteo e identificano gli obiettivi - «Don't Let Rover Die', 'Save Our Jobs'» - e i bersagli polemici - 'Blair Doesn't Care' – della manifestazione. Cosa succederebbe, tuttavia, se elidessimo da questo passaggio i riferimenti alla Rover e a Tony Blair? Le pratiche messe in atto dai contestatori non sembrerebbero simili a quelle che hanno caratterizzato innumerevoli altre manifestazioni di protesta del passato? È lo stesso Coe a far risaltare la contraddizione apparente tra l’unicità del corteo di Birmingham e la continuità con le forme e con le rivendicazioni che esso intrattiene con altri momenti di sollevazione popolare della recente storia inglese; l’autore, infatti, scrive:

Whether the Prime Minister is listening or not is another matter. But the people of Birmingham left the government in no doubt about their feelings yesterday, as the city saw not only its own biggest demonstration since the 1970s, but one of Britain's most significant expression of mass protest since Mrs Thatcher's confrontations with the striking miners.435

Affiancare la protesta descritta in The Closed Circle alle mobilitazioni degli anni Settanta e agli scioperi dei minatori degli anni Ottanta istituisce una continuità fra questi tre diversi momenti storici e origina un nesso che salda tra loro gruppi differenti di individui. Questo legame, di natura trans-storica e collettiva, tuttavia, deve essere analizzato a fondo, poiché 434 A. BADIOU, Il risveglio della storia, cit., p. 59.

la somiglianza che sussiste tra le forme della protesta è solo l’aspetto più superficiale di un’analogia che, in seguito, si cercherà di dimostrare essere ben più profonda. Limitarsi a considerare la similitudine che intercorre tra le pratiche delle diverse mobilitazioni, infatti, potrebbe indurre a criticare la ripetitività delle manifestazioni, la loro inefficacia e, di fronte ai loro insuccessi, a suggerirne l’abolizione. Questo, per esempio, è il punto di vista di Benjamin Trotter, uno dei protagonisti del romanzo, il cui stato d’animo durante la partecipazione al corteo viene descritto da Coe in questo modo:

The speakers' rhetoric had started to sound like meaningless shouting [...] – although it still seemed to be remembered by the crowd, whose waves of cheering and heckling now felt to him entirely predictable, entirely robotic, a response only to the tone and rhythm of the voices from the stage, not to anything that was being said. He had started out this morning feeling engaged, politicized, and was now consciously slipping into a kind of melancholy inertia: the very opposite of what the rally was hoping to achieve. It wouldn't do.436

Una riflessione di questo tipo considera la rilevanza di una sollevazione politica unicamente in previsione del suo esito e non prende in considerazione, invece, la significatività che un evento simile può ricoprire per coloro per i quali questa manifestazione rappresenta una delle poche possibilità di partecipare attivamente alla vita politica della società. Azzardando un paragone, la posizione di Benjamin Trotter è speculare a quella del terrorista politico delineata nei capitoli precedenti: quest’ultimo, insoddisfatto dei risultati ottenuti dal proprio partito o dalla propria organizzazione, decide di operare in prima persona, optando per una radicalizzazione dello scontro che mira a perseguire, nel più breve tempo possibile, un capovolgimento dei rapporti di potere nella società. In maniera complementare, Benjamin, scoraggiato dalla manifestazione a cui partecipa, sceglie di abbandonare ogni velleità di cambiamento e di rifugiarsi, quindi, nella sua rassicurante «melancholy inertia». Come può emergere da queste considerazioni, ciò che accomuna queste due figure è la loro natura solitaria e isolata: il terrorista, per esempio, per quanto possa considerarsi l’avanguardia di un movimento più ampio, è in 436 Ivi, p. 114.

realtà separato dal resto della collettività, la quale può sì condividerne la visione del mondo, ma non i modi per tradurla in realtà; Benjamin, allo stesso modo, appartato nel suo ripiegamento esistenziale e defilato rispetto al soggetto collettivo che protesta per ottenere un riconoscimento, percepirà come impossibile qualsiasi rivendicazione e finirà, quindi, per assecondare uno status quo ritenuto immodificabile.

Utilizzando una celebre immagine gramsciana, il terrorista e Benjamin si troverebbero rispettivamente ai due estremi di uno spettro che si estende dall’«ottimismo della volontà» al «pessimismo dell’intelligenza».437 Secondo il filosofo italiano, tuttavia,

l’unico approccio che può permettere al militante di operare in maniera efficace è quello che «sintetizza questi due sentimenti e li supera», è uno stato d’animo che, malgrado la consapevolezza razionale della difficoltà insita nell’aspirazione a voler trasformare la realtà, considera il cambiamento possibile, soprattutto se a ricercarlo è un numero di persone elevato e in grado di incanalare il proprio desiderio e le proprie forze in un soggetto politico di massa. L’«ottimismo della volontà» descritto da Gramsci, infatti, deriva dalla «convinzione profonda che l’uomo ha in se stesso la sorgente delle proprie forze morali, che tutto dipende da lui [...], dalla ferrea coerenza dei fini che si propone e dei mezzi che esplica per attuarli».438 Il “pessimismo dell’intelligenza”, invece, può essere

ricondotto alla convinzione che la volontà, per quanto fondamentale, è una condizione necessaria ma non sufficiente per raggiungere il cambiamento. Come affermava già Karl Marx, infatti, «gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione»:439 nello specifico, il filosofo tedesco

evidenzia come ogni individuo sia costretto durante la sua esistenza a fare i conti sia con la posizione che egli occupa all’interno di rapporti di produzione che gli preesistono sia con l’insieme di conoscenze, di pratiche e di saperi che nel corso della storia sono stati prodotti per fronteggiare l’oppressione sociale.

437 Cfr. La lettera del 19 dicembre 1929 che Antonio Gramsci scrive al fratello Carlo in A. GRAMSCI, Lettere dal

carcere, a cura di S. Caprioglio ed E. Fubini, Torino, Einaudi, 1965, pp. 309-311: 310.

438 Ibidem.

È proprio per quest’ultimo motivo che, continua Marx, nelle «epoche di crisi rivoluzionaria» gli uomini «evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio»:440 anche solo per evitare di ripeterne gli errori, confrontarsi con esperienze

simili avvenute nel corso della storia appare come un passo inevitabile all’interno di qualsiasi processo di maturazione di una coscienza collettiva e conflittuale. La «resurrezione dei morti», a questo punto, non serve tanto a riprodurre sterilmente e in maniera acritica quanto è avvenuto in passato, quanto «a magnificare le nuove lotte» e a «esaltare nella fantasia i compiti» che queste si pongono, «non a sfuggire alla loro realizzazione».441 In altre parole, le lotte del passato sarebbero una fonte di ispirazione non

tanto per quanto riguarda la ripresa delle azioni e dei gesti pratici, quanto perché esse permettono di recuperare e riattizzare nel presente quella «favilla della speranza»442 che

queste erano riuscite ad accendere in passato, trovando un equilibrio, seppure contingente, tra il «pessimismo dell’intelligenza» e l’«ottimismo della volontà». Come afferma Badiou, d’altronde, la peculiarità della «rivolta» è quella di propagarsi «per imitazione»:443 essa,

ovvero, attecchisce e si ripresenta in quei luoghi e in quelle circostanze storiche che sono sottoposte a pressioni simili a quelle che avevano scatenato la sollevazione popolare che la nuova mobilitazione utilizza come termine di paragone. A questo punto, quindi, sarà necessario individuare e tentare di circoscrivere che cosa sia esattamente la «favilla della speranza» e bisognerà stabilire qual è la specificità del suo ritornare e i modi del suo ripresentarsi nel corso della storia.

Per rintracciare una sua possibile genealogia l’opzione migliore è quella di prendere brevemente in esame la rivoluzione per antonomasia, quella che, per György Lukács, ha «fatto della storia un’esperienza vissuta dalle masse»,444 e per consuetudine, segna l’inizio

dell’età contemporanea in cui viviamo, ovvero la Rivoluzione francese del 1789. Di questa, tuttavia, non si vuole effettuare tanto una ricognizione di carattere storiografico, quanto verificare l’effetto che gli eventi inaugurati dalla presa della Bastiglia hanno provocato 440 Ibidem.

441 Ivi, p. 48.

442 W. BENJAMIN, Tesi di filosofia della storia, cit., p. 78.

443 A. BADIOU, Il risveglio della storia, cit., pp. 30-31.

sugli spettatori internazionali della rivoluzione. Come spiega Immanuel Kant la «rivoluzione d’un popolo»445 determinò all’epoca «nell’animo di tutti gli osservatori […]

una partecipazione augurale che confina quasi con l’entusiasmo»:446 secondo il filosofo

tedesco, l’empatia verso gli insorti provata da coloro che assistono da lontano alle loro gesta «non può avere causa diversa dalla disposizione morale del genere umano»447 ed è

generata da un’idea di giustizia che ha come fondamento il «diritto [… di] un popolo […] di darsi quella costituzione politica che a lui sembra buona»,448 senza impedimento da

parte di invasori stranieri o di oppressori che agiscono all’interno della stessa nazione. L’«entusiasmo» provocato nello spettatore dai moti parigini è suscitato dall’attrito tra l’apparente impossibilità da parte delle classi popolari di interrompere il dominio dell’aristocrazia che le opprime e l’effettivo rovesciamento, dopo la Rivoluzione, dei rapporti di potere all’interno della società di ancien régime. L’osservatore, quindi, ha di fronte ai propri occhi un esempio concreto di come un’insurrezione di massa, quando è alimentata dagli ideali democratici di giustizia sociale, nonostante la disparità delle forze in campo, possa avere un esito positivo: l’«entusiasmo», a questo punto, tenderebbe a generare nello spettatore la convinzione che, anche nel luogo in cui vive, sia possibile ottenere un cambiamento sociale analogo. Riprendendo il testo di Kant, infatti, Jean- François Lyotard sostiene che l’evento rivoluzionario fornisce la «“presentazione come se” dell’Idea di società civile […] e quindi dell’Idea di moralità, laddove essa tuttavia non può essere presentata, nell’esperienza».449

Alla luce di queste considerazioni comincia ad emergere il ruolo decisivo che la letteratura che si pone il compito di rappresentare il conflitto sociale intrattiene con le rivoluzioni della storia: laddove l’individuo che possiede una determinata «Idea di moralità» viene raggiunto da una narrazione che gli mostra come, in altri tempi e in altri luoghi, degli uomini come lui sono riusciti a inverare un’“Idea di società civile” fondata sulle stesse convinzioni, il lettore, mosso dall’«entusiasmo» generato dal racconto, sarà 445 I. KANT, Il conflitto delle facoltà, Genova, Istituto Universitario di Magistero, 1953, p. 108.

446 Ivi, p. 109. 447 Ibidem. 448 Ibidem.

portato a ritenere che, anche nella società in cui vive, la giustizia che «non può essere presentata, nell’esperienza» può, invece, divenire realtà. Benché Fredric Jameson abbia scritto un saggio ricco di spunti sul ruolo che la figurazione narrativa del futuro resa possibile dalla letteratura fantascientifica eserciterebbe sulla volontà di cambiamento del presente,450 è chiaro che l’«entusiasmo», così come lo intendono Kant e Lyotard, debba

essere suscitato dalla narrazione di eventi che sono anteriori, o al massimo contemporanei, alla genesi di questo sentimento: limitatamente alla Rivoluzione francese, per esempio, non sarebbe arduo individuare come sua probabile fonte d’ispirazione gli ideali democratici inverati dalla quasi coeva Rivoluzione americana.451

Benché una filiazione di questo tipo appaia evidente, è necessario adottare nei suoi confronti una dovuta cautela e, per fare ciò, bisognerà stabilire la natura profonda del legame che unisce tra loro le due rivoluzioni. Nonostante ci si riferisca a queste con lo stesso termine, infatti, le condizioni storiche, materiali e sociali che le determinarono sono diverse tra loro: annullando questa differenza di fondo, si rischierebbe di appiattire l’analisi sulla categorizzazione concettuale dei due fenomeni, perdendo di vista la specificità delle due sollevazioni popolari. Come direbbe Michel Foucault, quindi, bisogna «reperire la singolarità degli eventi al di fuori di ogni finalità monotona […]; cogliere il loro ritorno, non per tracciare la curva lenta di un’evoluzione, ma per ritrovare le diverse scene dove hanno giocato ruoli diversi».452 La Rivoluzione francese non imita le pratiche

conflittuali messe in campo da quella americana; la composizione sociale delle classi che che insorgono a Parigi e a Boston non è la stessa, così come non sono identici gli esiti a cui pervengono i rivoluzionari dei due continenti.

Riprendendo le parole di Lyotard citate nelle pagine precedenti, la somiglianza tra la due rivoluzioni non può essere ricercata, quindi, nell’«Idea di società civile» a cui queste aspirano: essa, infatti, possiederà caratteristiche proprie e irripetibili che sono determinate, e pensate, in base alle condizioni materiali, ai luoghi e al tempo, nelle quali questa idea 450 Cfr. F. JAMESON, Archeologies of the Future. The Desire Called Utopia and Other Science Fictions, London – New

York, Verso, 2005.

451 Cfr. E.J. MANNUCCI, La rivoluzione francese, Roma, Carrocci, 2002, pp. 22-23.

452 M. FOUCAULT, Nietzsche, la genealogia, la storia in ID., Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984,

matura e viene alla luce. Lo spirito che accomuna le due rivoluzioni, piuttosto, andrà individuato nell’«Idea di moralità» che anima entrambe e nella legittimità del sentimento di rivalsa dell’individuo oppresso dalla società in cui vive: come spiega Walter Benjamin, infatti, «sia l’odio che la volontà di sacrificio» che contraddistinguono le classi sociali sfruttate «si alimentano all’immagine degli avi asserviti»453 e da questa traggono

l’«entusiasmo» necessario per determinare una frattura all’interno dello status quo e sottrarsi al medesimo assoggettamento.

Nella prospettiva appena delineata, considerando l’etimologia del termine “Rivoluzione” ricostruita da Hannah Arendt, l’elemento fondante dello spirito rivoluzionario non sarebbero tanto «the few known forms of government [which] revolve among the mortals in eternal recurrence»,454 quanto il continuo riapparire nel corso della

storia di un sentimento di rivolta nei confronti dell’esistente e ispirato a sofferenze analoghe a quelle patite da altri uomini nel passato. In uno scenario di questo tipo l’analisi della rivoluzione potrebbe giovarsi sia dell’approccio genealogico, il quale permette di analizzare, nella sua peculiarità, qualsiasi rivoluzione storica, sia di un’impostazione teorica che vede in queste ultime delle «somiglianze di famiglia»,455 un denominatore

comune che non spiega l’evento in sé, ma il suo ‘eterno ritorno’ nel corso della storia. Il riferimento all’’eterno ritorno’ non è casuale: il suo funzionamento, secondo l’interpretazione del concetto nietzschano fornita da Gilles Deleuze, sembrerebbe ricalcare quello che regola il rivenire dello spirito rivoluzionario alimentato dall’«entusiasmo». Secondo il filosofo francese, infatti, «l’identità» del fenomeno «sta a designare, nell’eterno ritorno, non la natura di ciò che ritorna, ma, al contrario, il fatto di ritornare e, di questo, il suo differire»:456 queste parole confermerebbero come l’identità tra le diverse realizzazioni

storiche della rivoluzione non debba essere ricercata nei loro tratti esteriori comuni, ma nel loro ripetersi nel tempo, secondo schemi d’azione forgiati dalle contingenze differenti che determinano la loro emersione, ma alimentati dalla comune idea morale di giustizia 453 W. BENJAMIN, Tesi di filosofia della storia, cit., p. 82.

454 A. ARENDT, On Revolution, cit., p. 35.

455 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1983, p. 47.

sociale.

Se, come afferma Chiara Bottici, «i miti politici affrontano il problema della teodicea»,457 diventa chiaro, a questo punto, quale sia la convergenza, già teorizzata nel

capitolo metodologico di questo lavoro, tra il mito e le narrazioni che hanno come tema quello della rivolta: il loro obiettivo comune, infatti, sarebbe quello di investigare il problema di una teodicea secolarizzata. In questa prospettiva, le rappresentazioni letterarie della rivolta avrebbero lo scopo di simbolizzare, non tanto per risolverla, quanto per porla come problema, la questione della presenza del male all’interno della società e, allo stesso modo, mirerebbero a porre al lettore la domanda su come sia possibile porre fine all’oppressione che storicamente alcuni uomini esercitano sui propri simili. Secondo la studiosa italiana del mito, sarebbe proprio «l'impossibilità di fornire una risposta definitiva a questo dilemma che alimenta il bisogno di significatività e quindi la continua ri-narrazione del mito»:458 questo per indicare che finché esisterà lo sfruttamento di un