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Natura e figura della “maniera greca” nella storiografia italiana e nella realtà*

Valentino Pace

Università di Udine / Richard-Krautheimer-Professor,

Bibliotheca Hertziana/Max-Planck-Institut für Kunstgeschichte, Roma

1. Sant’Angelo in Formis: Adamo ed Eva (particolare della Cacciata dal paradiso) 2. Sant’Angelo in Formis: l’Adultera

1È stato organizzato un evento espositi-

vo mirato prima di ricollocare l’opera nella sala in cui è solitamente esposta pres- so il Museo di San Marco, con relativo catalogo che è anche il volume di studi sul restauro: Il Tabernacolo dei Linaioli del Beato Angelico restaurato. Restituzioni 2011 e A.R.P.A.I. per un capolavoro (Firenze, Museo di San Marco, 22 marzo- 12 giugno 2011), a cura di M. Ciatti e M. Scudieri, Firenze, 2011, al quale si riman- da per una più approfondita trattazione delle analisi tecniche e dell’intervento di restauro.

2I risultati degli studi e dei restauri delle

opere citate sono stati pubblicati in: Giotto. La Croce di Santa Maria Novella, a cura di M. Ciatti e M. Seidel, Firenze, 2001; Raffaello: la rivelazione del colore. Il restauro della Madonna del Cardellino della Galleria degli Uffizi, a cura di M.

Ciatti, C. Frosinini, A. Natali, P. Riitano, Firenze, 2008; L’“immagine antica”. La Madonna col Bambino di Santa Maria Maggiore, a cura di M. Ciatti e C. Frosi- nini, Firenze, 2002.

3M. Scudieri, Il Tabernacolo dei Linaio-

li nel percorso dell’Angelico, in Il Taber- nacolo dei Linaioli del Beato Angelico restaurato. Restituzioni 2011 e A.R.P.A.I. per un capolavoro, a cura di M. Ciatti e M. Scudieri, Firenze, 2011, pp. 15-26.

4A. Cecchi, L’Arte dei Linaioli e l’Ange-

lico, in Il Tabernacolo dei Linaioli del Beato Angelico restaurato, cit., pp. 55-62.

5Sulla costruzione del supporto ligneo del

dipinto si veda: C. Castelli, M. Parri, A. Santacesaria, Il Tabernacolo dei Linaioli, il supporto ligneo, in Il Tabernacolo dei Linaioli del Beato Angelico restaurato, cit., pp. 89-100.

6L. Kantner, Fra’ Angelico: Artistic Matu-

rity and Late Career (1433-55), in L. Kant- ner, P. Palladino, Fra Angelico, catalogo della mostra, New Haven-London 2005, pp. 139-146.

7Sul rapporto tra la pittura dell’Angeli-

co e la coeva produzione di ricchi tessu- ti serici si veda: L. Monnas, Merchants, Princes and Painters. Silk Fabrics in Italian and Northern Paintings 1300-1550, New Haven-London, 2008, in particolare sul Tabernacolo dei Linaioli le pp. 154-156, e M. Ciatti, Il progetto di conservazione: l’im- postazione di metodo ed alcune riflessioni sulla tecnica e sui problemi del restauro, in Il Tabernacolo dei Linaioli del Beato Ange- lico restaurato, cit., pp. 73-80, in partico- lare p. 77 e nota n. 9.

8Archivio di Stato di Firenze, Arte dei

Rigattieri, Linaioli e Sarti, n. 20, c. 98 v.

9Sulla tecnica artistica dell’opera si veda

lo studio di P. Bracco, O. Ciappi, A.M.

Hilling, L. Landi, La pittura del Taber- nacolo dei Linaioli di Beato Angelico: osservazioni tecniche ed intervento di restauro, in Il Tabernacolo dei Linaioli del Beato Angelico restaurato, cit., pp. 101- 142.

10Si veda G. Rossi Rognoni, Strumenti

musicali e Angeli musicanti nel Taberna- colo dei Linaioli: una proposta di inter- pretazione, in Il Tabernacolo dei Linaio- li del Beato Angelico restaurato, cit., pp. 39-44.

11Si veda: G. Incerpi, Il Tabernacolo dei

Linaioli agli Uffizi: problemi conservativi, proposte ed interventi di restauro nel XVIII e XIX secolo, in Il Tabernacolo dei Linaioli del Beato Angelico restaurato, cit., pp. 81-88.

e proprio atto critico di lettura dei valori espressivi del dipinto che sono stati così valorizzati adeguatamente. Anche un legge- ro cambiamento di tono, in una pittura così leggera e comples- sa può portare a un risultato significativo e, tra questi, sicura- mente da segnalarsi il recupero della monumentalità tridimen- sionale dei quattro Santi sulle ante, appiattiti dalle patinature a dall’inscurimento inevitabile dei fondi, leggermente velati in azzurrite su di una base grigio scura, detta “veneda”, che oggi invece prevale. Per comprendere quanto questa estrema sotti- gliezza degli strati pittorici, unita anche all’azione negativa di qual- che pulitura del passato, facciano apparire piatta la pittura rispet- to a come doveva essere in principio, è interessante segnalare il caso della mano del San Marco posto sull’anta esterna, la quale, invece, vista in fluorescenza UV, che eccita anche le minime trac- ce di materiale superficiale, ci rivela il modellato e la descrizio- ne delle vene e dei tendini dell’anatomia. Un danneggiamento causato da una incauta pulitura è stato sicuramente riscontrato nel volto della Vergine e nel manto azzurro che era stato, per rimediare a questo danno, interamente ripassato. La fragilità della materia pittorica originale ha reso la pulitura di questa parte incre- dibilmente difficile ed inevitabilmente lenta, al fine di poter recu- perare il miglior aspetto possibile di un panneggio così signifi- cativo. Assai rilevante è anche il cambiamento prodotto dalla puli- tura sui fondi dorati e così mirabilmente lavorati, sui quali era stata stesa, come sulle superfici pittoriche, una pesante patina- tura che ne appiattiva l’effetto decorativo.

Risanamento del supporto, consolidamento degli strati pit- torici e recupero di una corretta leggibilità dei suoi valori espres- sivi sono stati, come di consueto, l’obiettivo dell’intervento del nutrito gruppo di lavoro che l’Opificio ha formato intorno al

Tabernacolo dei Linaioli, la cui successiva conservazione è stata

assicurata da alcuni provvedimenti di prevenzione e sarà segui- ta nel tempo da un costante monitoraggio.

26. Particolare della mano di San Marco, anta esterna sinistra, in luce visibile dopo il restauro

27. Particolare della mano di San Marco, anta esterna sinistra, Fluorescenza UV durante la pulitura

dovuto fare, che da una tale pragmaticità ne sono conseguiti giudizi per partito preso, esteticamente immotivati10.

Ricordiamoci dunque, anche se ben noto, di quanto scrive il Vasari all’inizio della Vita di Cimabue: “di continuo eserci- tandosi l’aiutò in poco tempo talmente la natura, che passò di gran lunga, sì nel disegno come nel colorire, la maniera de’ mae- stri che gli insegnavano, i quali […] avevano fatto quelle opere […] non nella buona maniera greca antica, ma in quella goffa moderna di que’ tempi; e […] se bene imitò quei Greci, aggiun- se molta perfezzione all’arte, levandole gran parte della manie- ra loro goffa […]”11.

Quali sono tuttavia i caratteri che caratterizzano l’arte dei “Greci, vecchi e non antichi” e la “maniera loro goffa” (usan- do una distinzione fra i “vecchi” e gli “antichi” che già era emer- sa in Ghiberti, qui specificata dallo spartiacque dell’età costan- tiniana)? Nel Proemio delle Vite Vasari si era già così espresso: “[ne] fanno fede oggidì infiniti musaici, che per tutta Italia lavo- rati da essi Greci si veggono per ogni vecchia chiesa di qual si voglia città d’Italia; e massimamente nel duomo di Pisa, in San Marco di Vinegia, et ancora in altri luoghi; e così molte pittu- re, continovando, fecero di quella maniera con occhi spiritati e mani aperte, in punta di piedi […]”12proseguendo poi con esem-

pi da chiese fiorentine, delle quali solo quello di San Miniato è ancora oggi identificabile, mentre quello romano dal vecchio San Pietro può solo giovarsi delle ben note copie barberiniane13.

Non so se sia comprensibile che nel mosaico pisano (fig. 4) Vasari “non” abbia distinto la presenza di Cimabue nell’evan- gelista da quella delle restanti parti, ma resta comunque signi- ficativo che la sua attenzione venne (verosimilmente) attratta dalla figura del Cristo, dominata dal volto di piena aderenza al tipo di Pantocrator bizantino e dalla crisografia delle vesti, piut- tosto che dalla più “naturale” immagine dell’evangelista, così da asserirne in senso negativo la sua grecità14.

Per converso Vasari ritenne d’altronde di Cimabue le due tavole francescane a Santa Croce (fig. 5) e nel San Francesco di Pisa (fig. 6), apprezzando la prima, nella cappella Bardi, con queste parole: “fece in una tavoletta in campo d’oro un s. Fran- cesco, e lo ritrasse, il che fu cosa nuova in que’ tempi, di natu- rale, come seppe il meglio, et intorno a esso tutte l’istorie della vita sua in venti quadretti pieni di figure picciole in campo d’oro”15. La seconda giustificandone l’apprezzamento dei pisa-

ni “conoscendosi in esso [cioé nella figura del santo] un certo che più di bontà, e nell’aria della testa e nelle pieghe dei panni, che nella maniera greca non era stata usata in fin’allora”16. Con

un giudizio che, escludendo l’evidente azione dei modelli “greci” – al massimo espliciti nella formula compositiva, ma anche ben evidenti nei volti, segnati dal tipico “linearismo tardo-comne- no” – punta sorprendentemente invece nell’uno (il san Fran- cesco Bardi) sulla forza fisionomica del ritratto (“di naturale”), nell’altro, a ragione, anche sulla novità del panneggio17.

Non si può dar certo colpa allo storiografo di non aver viag- giato nel mondo bizantino e che non fosse stato a Costantino- poli, in Serbia o in Bulgaria, per apprezzare quanto nel mondo

4. Pisa, duomo: Deesis 5. Firenze, Santa Croce, cappella Bardi:

pala agiografica di san Francesco

per il suo giudizio senza appello, basato su un sentimento fio- rentino a dir poco “leghista”, sia per l’orgoglio della sua coscien- za civica (benché nativo di Arezzo), sia per disprezzo di quan- to fiorentino non fosse9.

Quel che peraltro deve destare attenzione è la confusione con cui Vasari affastella opere diversissime, giudicate bene se credute di referenza cimabuesca (per via della necessaria sequen- za teleologica Cimabue-Giotto), male invece se, senza la stam- pella attributiva a Cimabue, vengono ritenute di maniera greca. Ne deriva un atteggiamento di “contradditorietà” o, meglio, di “ambiguità” che Luciano Bellosi ha bene spiegato con la sua pragmaticità di comportamento nei confronti della tradizione fiorentina, senza peraltro aggiungere, come forse avrebbe pur che scelta iconografica o fisionomica, piuttosto che quei for-

malismi esecutivi o soluzioni spaziali, sui quali si è poi interro- gata qualche voce storiografica del XX secolo7. Da grande arti-

sta quale egli era, Ghiberti, malgrado la sua nominalistica con- danna dell’arte dei Greci, riuscì dunque a mantenersi libero nel giudizio di fronte alle opere d’arte che poté egli stesso ammi- rare. Altrettanto positivo, d’altronde, fu il suo giudizio sul sene- se Duccio “il quale fu nobilissimo, tenne la maniera greca”8. L’or-

goglio civico, tuttavia, non gli permise di andare oltre ed equi- parare esplicitamente il suo Giotto con artisti di Roma o di Siena. Chi esplode tutte le sue munizioni contro i Greci ed eleva Firenze al vertice delle arti è, ben si sa, Giorgio Vasari, ripetu- tamente citato in ogni capitolo storiografico sulla Maniera greca

3. Studenica, chiesa della Madre di Dio: la Crocefissione

sabili del “meccanismo di plasticità e di ritmi” della testa del San Francesco di Pisa (lo stesso creduto di Cimabue dal Vasa- ri), come pure dei suoi “pochi gesti del manichino classico” e di altro, Bisanzio, infine, ha esportato “invasori artigiani ‘gre- ci’ o addirittura ‘balcanici’ e ‘greco-asiatici’” i cui modi sareb- bero riflessi dalla tavola del San Francesco di Pescia e sulle pare- ti del Battistero di Parma24. Sul piano esclusivo del giudizio sulla

pittura toscana si sarebbe comunque anche potuti essere d’ac- cordo con lo studioso e “storicisticamente” comprenderne le venature di idealismo crociano, se il suo obiettivo fosse rima- sto saldamente ancorato ad essa, ma purtroppo, come un tor- rente in piena, Longhi rompe gli argini (come in certa politica odierna si agisce contro la magistratura) e si sfoga con un incom- prensibile astio contro il cattivo maestro, Bisanzio: contro “i brani neoellenistici di Sopociani, di Nerez e simili”, contro “i perfetti meccanismi di Bulgaria e di Macedonia” (non meglio definiti, ma verosimilmente conosciuti di seconda mano dalle

pubblicazioni di Millet e altri), contro “le Madonne costanti- nopolitane sott’aceto, […] il secondo e terzo rinascimento bizan- tino, ch’erano nient’altro che un rimorire”. Con la citazione di Sopoćani e Nerezi lo studioso dimostrava tuttavia di non avere avuto la minima idea di che cosa rappresentino questi supre- mi affreschi della civiltà figurativa (e, nel suo stile, avrebbe potu- to dire “spirituale”) di Bisanzio, dove “natura ed espressione” (termini che uso non a caso, prendendoli in prestito dal “lon- ghiano” Francesco Arcangeli che li usò per caratterizzare l’ar- te emiliana) si combinano al più alto dei livelli, per raggiunge- re un potente naturalismo d’immagine: ne bastino qui due esem- pi, il primo di Nerezi, rispettando l’ordine cronologico (del VII decennio del XII secolo) (fig. 10), il secondo di Sopoćani (figg. 11-13), il cui ciclo di affreschi, voluto dal re di Serbia Uroš, figlio di Anna Dandolo e marito di Elena d’Angiò, eseguito da pit- tori metropolitani “in trasferta” negli anni sessanta del XIII seco- lo, segna l’esito qualitativamente più alto della pittura monu-

10. Nerezi, San Pantaleimon: la Discesa dalla croce

11. Sopoćani, chiesa del monastero: l’evangelista Giovanni

12. Sopoćani, chiesa del monastero: profeta

dell’ortodossia il ritratto “naturale” fosse stato privilegiato per la memoria delle generazioni successive – ad esemplificarlo ricor- do lo spettacoloso, doppio ritratto di san Sava e del padre, il monaco Simeone (già Stefan Nemanja), a Mileševa in Serbia (fig. 9), oppure Kalojan e Desislava, ovvero il donatore degli affre- schi di Bojana, in Bulgaria, e sua moglie, rispettivamente degli anni trenta e cinquanta del XIII secolo –18ma non può dun-

que non sorprendere che egli abbia giudicato questo ritratto di san Francesco “naturale” e che per le scenette vicine si sia limi- tato al giudizio assertivo di “figure picciole”, accettandone dun- que, o sembrando di accettarne, stilizzazioni e manierismi che non ci si aspetterebbe scissi dal giudizio (negativo) sulla Manie- ra dei pittori greci; evidente, a tal proposito, quanto i sapienti musulmani che ascoltano san Francesco nella tavola Bardi (fig. 8) siano “parenti” pittoricamente dei partecipanti alla cattura di Cristo negli affreschi duecenteschi bulgari di Melnik19(fig.

7). Ciò vale tanto di più perché, scrivendo poco dopo della Madonna Rucellai, da lui ritenuta di Cimabue, Vasari non manca di notare che in essa “alcuni angeli che le sono intorno, mostra- no, ancor che egli avesse la maniera greca, che s’andò accostando in parte al lineamento e modo della moderna”20.

Se ne traggono, a mio avviso, due conclusioni: 1) Vasari non conosceva opere che potessero davvero definirsi “greche”, ma come tali dovette ritenere sic et simpliciter quelle precedenti alla svolta impressa alla pittura dall’asse fiorentino Cimabue-Giot- to21; 2) il “partito preso” cui accennavo prima gli fece accetta-

re alcune opere delle quali di sicuro sarebbero state “condan- nate” se non avessero avuto il tradizionale crisma dell’attribu- zione cimabuesca.

La “natura” che Vasari tira in ballo nel suo proemio è un con- cetto astratto, non verificato sulle opere, ovvero verificato solo contraddittoriamente e parzialmente. Una tale contraddizione o ambiguità non sarebbe poi tanto sorprendente, considerata nella prospettiva di lungo periodo delle Vite, se non fosse che essa è stata riproposta quattro secoli dopo, con ovvie varianti, da Roberto Longhi nel suo celebre Giudizio sul Duecento, vero e proprio “libello”, scritto in una prima redazione nel 1939, inte- grato con un “corollario” nel 1947 e dato alle stampe nel 194822.

Bisanzio entra nella discussione longhiana, trattando dei valo- ri della pittura duecentesca italiana, nel ruolo di “cattivo mae- stro”, alla stregua, se mi si permette di dirlo, delle accuse rivol- te in un recente passato a intelletuali-critici del sistema per le azioni del Terrorismo rosso. Bisanzio, si legge nel contributo datato 1939, è infatti colpevole del “trasferimento strumenta- le, e non fantastico, di una tecnica in un’altra” che Longhi non perdona alla Santa Caterina di Pisa o al San Giovanni Battista di Siena, senza avvedersi della superba qualità di colorista di questo straordinario pittore, già messa in risalto da Toesca, con “accostamenti di cromie lampeggianti rosso rubino, lapislazzuli, lilla, verde-malva e ocra”, di nuovo ben sottolineati dal suo stu- dioso più recente, Miklόs Boskovits, che ne ha giustamente riva- lutato qualità e contesto23. Per Longhi Bisanzio, i suoi “mona-

steri”, subito ironicamente corretti in “ministeri”, sono respon-

6. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo (dalla chiesa di San Francesco): pala agiografica di san Francesco

7. Sofia, Museo Archeologico Nazionale, da San Nicola, a Melnik: Ebrei (particolare della Cattura di Cristo)

8. Firenze, Santa Croce, particolare della pala agiografica: Egiziani (particolare della Predica davanti al Sultano)

9. Mileševa, chiesa del monastero: San Sava e Stefan Nemanja

Se, d’altronde, Longhi avesse davvero conosciuto Bisanzio cercando di trarre dalle foto in bianco e nero quanto aveva con ben diversa acribia dedotto nello studio della pittura dei seco- li successivi avrebbe forse capito quanto fosse stata nel giusto la posizione di Toesca che ripetutamente ne aveva sottolinea- to il ruolo formativo30.Così però non fu e il 1948 (ovvero il 1949,

anno di pubblicazione) divenne, in particolare per l’Italia, l’an-

nus horribilis dell’arte bizantina, cui risale quella sottovaluta-

zione del suo mondo figurativo, dovuto proprio al grande pre- stigio dello studioso piemontese, che si ripercosse anche sui suoi migliori allievi che si occuparono di Medioevo31.

La storiografia sulla pittura “bizantina” non ha comunque tenuto conto di questa “scheggia impazzita” e i suoi studiosi hanno continuato nelle loro ricerche a dare il giusto peso alle qualità lì negate per una ingiustificata superficialità, sottolineandone le peculiarità di articolazione spaziale, di forza espressiva, di ade- renza a messaggi di fede espressa con straordinaria “umanità”32.

Bisanzio ha tradotto in immagine le forme retoriche dell’o- miletica dando anche “naturalezza” a concetti teologici: nel San Salvatore in Chora il suo mosaicista riuscendo a formulare in modo straordinariamente umano, nell’icona musiva cui ho fatt- to già riferimento, il senso di prefigurazione della morte del Figlio da parte della Madre (fig. 17)33; a Nerezi il suo pittore

avendo espresso altrettanto sapientemente il tragico dolore nel momento del Compianto (fig. 16)34. Con questa perfetta coin-

cidenza di liturgia e immagine, di retorica e immagine, di imma- gine e spazio, Bisanzio ha dunque saputo creare un mondo nel quale natura e figura hanno avuto pari dignità.

16. Nerezi, San Pantaleimon: il Compianto sul Cristo morto

17. Istanbul, museo della Kahrie Djami (già San Salvatore in Chora): Odigitria

mentale medioduecentesca “fra Europa e Bisanzio”, sul quale ancora oggi restano insuperate, per comprenderne i valori, le pagine ad esso dedicate da Vojislav Djurić nella sua monogra- fia25. Può qui aggiungersi, a sigla visiva della sua importanza di

modello un confronto da me altrove già proposto proprio fra un apostolo del ciclo in questione e un profeta sulla predella della Madonna cimabuesca di Santa Trinita (fig. 14), dove è esemplare il medesimo senso della “eroicità” d’immagine che così fortemente caratterizza gli affreschi serbi26.

Lasciate in disparte per anni le pagine scritte nel 1939, Lon- ghi, come detto, si decise in seguito a pubblicarle, integrate da un “Corollario”, e sigillate da una dedica a Pietro Toesca27.Lon-

ghi scrive che gli sembra che la sua pubblicazione possa “torna- re utile ai più giovani […] per l’ordine generale di idee che la informa”. Il lettore potrebbe credere a un mutamento di approc- cio e a una più equilibrata considerazione del materiale, almeno di quello non conosciuto per diretta visione, perché egli stesso riconosce il “tono troppo acceso e perentorio” del suo scritto. Invece nulla di tutto questo, anzi si scatena, e sono adesso il “trit- tico di Harbaville ed affini” a sollecitare la sua ironia, e con esso la “copia del Cosmas Indicopleustes”, come pure “i mosaici dei tempi dell’imperatore Leone VI o di Basilio II, quelli di Dafni, di Hosios Lucas e tanti altri”, ridicolizzati al rango di “similar- te” la cui sottigliezza di esecuzione viene sì apprezzata, ma iro- nicamente pareggiata a quella delle icone cretesi. Citati alla rin- fusa lo studioso ne mostra l’ignoranza che, se tale non fosse stata, mai gli avrebbe permesso un tale giudizio rispetto a quelle opere, fra le quali basti qui citare la suprema nobiltà dell’angelo del- l’Annunciazione di Daphni (fig. 15). La stoccata finale viene riser- vata alla Kahrie Djami: “Sia ben chiaro che a me non interessa prendere parte nel problema se i mosaici della Karie Giami siano già riflessi del rinnovamento giottesco, oppur no; ove lo fossero, non starebbero che a dimostrare la caparbia pedanteria ortodossa