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“Teresa Dieç me fecit” Una pittrice (laica?) per un monastero di clarisse a Toro nella Castiglia del primo Trecento

nile (fig. 12), pensiamo a santa Marta nell’atto di ammansire il mostro, questo episodio troverebbe una localizzazione più logi- ca accanto al Noli me tangere in quanto Marta era ritenuta sorel- la di Maria Maddalena, anche se in verità Marta ammansì il drago con l’acqua, non lo attaccò con una lancia come san Gior- gio. Non nascondo in effetti che sarei tentato di prediligere l’i- potesi di una resa in chiave femminile, da parte di una pittri- ce, dell’iconografia di san Giorgio all’interno dello spazio di un monastero femminile destinato esclusivamente alla frequenta- zione delle clarisse, con un intento di sottolineatura del ruolo della donna nella storia sacra non diverso da quello documen- cative in castigliano in orizzontale (fig. 4). Ogni quadro è un

episodio agiografico con la sua relativa spiegazione. Tra gli epi- sodi conservati, Caterina davanti all’imperatore, la disputa tra la santa e l’imperatore, l’ordine di flagellare santa Caterina e incarcerarla, l’incarceramento e la flagellazione, la santa nella cella, la visita dell’imperatrice e di Porfirio alla santa, Porfirio e l’imperatrice davanti all’imperatore, la morte di Porfirio e dei suoi soldati, la morte dell’imperatrice, la disputa di santa Cate- rina con i saggi (fig. 5), l’Imperatore che fa bruciare i savi, e infine il martirio della ruota, la decapitazione e la sepoltura della santa (fig. 6).

La sequenza compositiva rivela un certo disordine crono- logico rispetto al racconto agiografico, ma ciò non pone gros- si problemi di interpretazione, perché le scene sono comunque accompagnate dalle iscrizioni esplicative. Altro elemento degno di interesse è che nella parte superiore del pannello appaiono ben evidenti gli stemmi delle case di Castiglia e León17.

Il secondo pannello contiene scene della vita di san Giovanni Battista (fig. 7). Conservato su una superficie muraria di 5,66 x 3,64 m, presenta ancora l’ampia bordura di decorazioni vege- tali, con l’insistente ripetizione di stemmi araldici e dieci scene disposte su due registri con le relative iscrizioni. Gli episodi illu- strano la rivelazione a Zaccaria, la visita di Maria a santa Eli- sabetta, la nascita di Giovanni, Giovanni nel deserto, la predi- cazione, Giovanni di fronte a Erode, l’incarceramento, il ban- chetto, la decollazione, Salomé con la testa del Battista, e la sepol- tura del Battista a chiudere la sequenza.

Il terzo è un pannello quadrangolare di 1,94 x 2,45 m di altez- za, diviso in quattro parti nelle quali ci sono santi (uno, super- stite ma non identificato, forse un vescovo) e sante con i loro attributi: le tre figure femminili sono Margherita o più proba- bilmente Marta, Agata e Lucia (fig. 8).

Il quarto è un frammento di 4,87 x 3,14 m di altezza, con cinque scene della vita di Cristo (fig. 9), dal quale però manca la zona superiore dove forse si trovavano la Natività (a giudi- care da quello che appare come un letto) e la presentazione al tempio. Nella parte inferiore si vedono bene invece l’adorazione dei Magi (fig. 10), dal bell’impianto cortese, il battesimo di Gesù, che associa questo ciclo con quello di Giovanni Battista, e il Noli me tangere (fig. 11). Quest’ultimo riquadro è particolarmente interessante perché è accompagnato sulla destra da un episo- dio che sembra non avere nulla a che fare con la scena princi- pale e che non si avvale di un’iscrizione esplicativa. Si vede infat- ti un personaggio dai lunghi capelli nell’atto di uscire a caval- lo da una città per attaccare un drago. Ci troviamo davanti a uno dei problemi iconografici più interessanti del ciclo, perché se si tratta di san Giorgio e il drago, come la presenza della pic- cola principessa alle spalle del cavaliere e la coppia regale sulle mura merlate farebbe pensare, allora ci troveremmo di fronte a una sorta di femminilizzazione della leggenda di san Giorgio, che qui appare effigiato come una fanciulla.

L’interpretazione di questa scena è particolarmente delica- ta. Se infatti, piuttosto che a un san Giorgio dal volto femmi-

6. Toro (Zamora, Castiglia), chiesa di San Sebastián de los Caballeros, pannello staccato proveniente da Toro, Storie di santa Caterina, particolare

4. Toro (Zamora, Castiglia), chiesa di San Sebastián de los Caballeros, pannello staccato proveniente da Toro, Storie di santa Caterina

5. Toro (Zamora, Castiglia), chiesa di San Sebastián de los Caballeros, pannello staccato proveniente da Toro, Storie di santa Caterina, particolare

l’aristocrazia13. Questo insieme di pitture fu portato alla luce sol-

tanto nel 1955, quando una monaca nel pulire l’ambiente fece cadere una parte dell’intonaco dai muri, svelando dipinti che per secoli erano rimasti celati14. Nel 1962 le pitture furono poi

staccate dal supporto murario originale per essere restaurate a Madrid da Antonio Llopart Castells, e trasferite su pannelli, che nel 1977 tornarono finalmente a Toro, dove oggi possono esse- re studiati nell’antica chiesa di San Sebástian de los Caballeros trasformata in museo di arte religiosa e di pittura murale15.

L’insieme degli elementi pittorici ritrovati negli anni cin- quanta risulta ora diviso in sette pannelli, unici resti di una gran- de decorazione pittorica. Uno di questi pannelli ci ha conser- vato una firma in bella evidenza, “Teresa Dieç me fecit”16, sulla

quale tornerò a lungo tra poco. Ma prima di entrare nel meri- to della firma e della figura della pittrice, vorrei illustrare bre- vemente quel che resta dopo i restauri novecenteschi.

Il primo pannello superstite, di 6,16 x 3,96 m, presenta un ciclo completo del martirio di santa Caterina di Alessandria (un tempo situato sul muro settentrionale del coro), nel quale attual- mente si vedono 16 scene strutturate in tre registri orizzonta- li, separati da linee decorative in verticale e da iscrizioni espli- est di Zamora, nella meseta della Vecchia Castiglia, a breve

distanza dalla frontiera portoghese, nell’antico regno di León, e proviamo a capire chi è la donna che ha firmato con orgoglio le pitture murali dell’importante monastero di clarisse (la cui prima comunità proveniva dal convento di Santa Chiara di Sala- manca), che qui fu costruito nella seconda metà del Duecento (fig. 2). Si tratta di una fondazione tradizionalmente messa in relazione con la figura di Berenguela, la figlia di Alfonso X il Savio e di Violante di Catalogna-Aragona. Il monastero fu poi ricostruito all’inizio del Trecento, dopo i gravi danneggiamen- ti causati a seguito di una rivolta locale. Non è questo il luogo per ripercorrere la storia del complesso monastico, ma vorrei solo ricordare che nel 1316, dopo un’assenza di qualche anno, le clarisse riuscirono finalmente a fare ritorno al monastero11.

Il complesso pittorico al quale facevo riferimento corrisponde proprio a questa fase di ricostruzione primo-trecentesca del- l’edificio. Le pitture dovevano rivestire interamente i muri del coro della chiesa (fig. 3), situato sul lato opposto a quello del- l’altare maggiore come di frequente si vede nei monasteri di cla- risse castigliani, a Salamanca, Tordesillas e Palencia12, ma anche

in altri siti iberici, non di rado eletti a luoghi di sepoltura del-

2. Toro (Zamora, Castiglia), monastero delle clarisse, stato attuale

3. Toro (Zamora, Castiglia), monastero delle clarisse, pianta

Alla pagina precedente 1. Rubió (Barcellona, Catalogna), chiesa di Santa Maria, retablo, particolare con l’Adorazione dei Magi

tato nel già citato retablo di Rubió (fig. 1). Non si può nean- che escludere che la pittrice, volendo mettere in scena l’episo- dio di Marta che ammansisce il drago, abbia usato la più dif- fusa tradizionale iconografia di san Giorgio con il drago in quan- to non disponeva di un modello iconografico che potesse cor- rispondere alle vicende di Marta. Più temerario forse sarebbe proporre di vedere in questa immagine una effigie della com- mittente donna dell’opera, in modo analogo a quello della com- mittente di Rubio rappresentata nelle vesti di uno dei re magi. Il quinto pannello, 3,42 m di base per 2,17 m di altezza, con- tiene soltanto le gambe di un gigantesco san Cristoforo e l’i- scrizione con la firma della pittrice (fig. 13). Tale pittura si tro- vava sul muro meridionale del coro. Il san Cristoforo era appun- to di grande formato, superiore a tutti gli altri personaggi, ed era effigiato nell’atto di attraversare, con l’ausilio di un basto- ne, un ruscello nel quale si riconoscono i pesci e le anguille. Pos- siamo immaginare che sulla spalla portasse la figura di Cristo, così come appare in tante immagini medievali, come nell’ora- torio abruzzese di San Pellegrino a Bominaco (fig. 14) o a Roc- chetta al Volturno18. La presenza di Cristoforo in questo con-

testo è ugualmente degna di riflessione, in quanto si tratta, anche in questo caso, visto il contesto spaziale e funzionale, di una pit- tura destinata a una fruizione piuttosto ridotta, limitata alle sole clarisse, e non si può dunque escludere che si trattasse del risul- tato visivo di una particolare devozione familiare dell’artista che ha firmato proprio accanto a questo personaggio, e sulla quale torneremo di qui a un momento.

Il sesto e il settimo pannello, di dimensioni comprese tra gli uno e i due metri, costituiscono due frammenti di un Giudizio finale, e presentano l’uno un gruppo di vergini e un san Fran- cesco di Assisi con le stimmate; l’altro, su più registri, perso- naggi in preghiera nella parte superiore, inginocchiati nel cen- tro (uno con il nimbo), e sotto piccoli frammenti che mostra- no le teste dei resuscitati che escono dalle tombe.

La sequenza e il contenuto dei vari cicli iconografici dei quali si componeva la decorazione del coro delle monache di Toro merita di per sé una specifica attenzione sul piano iconografi- co. Faccio solo osservare, per il momento, che la concomitan- za dei diversi cicli iconografici salta all’occhio a chiunque si sia occupato di monasteri di clarisse, sia nella penisola iberica, sia in altri luoghi dell’Europa. Indagini su questo tema sono state condotte, ad esempio, in relazione ai cicli iconografici di Santa Maria Donnaregina a Napoli, dove pure è presente sia un ciclo pittorico di santa Caterina, sia un ciclo della vita di Cristo, sia un Giudizio finale19. Questa coincidenza di temi in luoghi così

lontani induce a pensare che il nucleo centrale della riflessio- ne monastica delle clarisse portasse naturalmente sul modello di vita offerto dalla storia di Cristo e sull’osservazione degli effet- ti del Giudizio finale come fine dei tempi e vita futura. Ma al di là di questi soggetti, le clarisse sembrano insistere di frequente sui modelli femminili di santità, non di rado martiriale, tra i quali scelgono soprattutto Caterina d’Alessandria come caso esem- plare di sacrificio finalizzato all’affermazione della fede. A Toro,

13. Toro (Zamora, Castiglia), chiesa di San Sebastián de los Caballeros, pannello staccato proveniente da Toro, San Cristoforo e iscrizione con la firma e lo stemma dell’artista

11. Toro (Zamora, Castiglia), chiesa di San Sebastián de los Caballeros, pannello staccato proveniente da Toro, Noli me tangere (a sinistra); San Giorgio e il drago (a destra)

12. Toro (Zamora, Castiglia), chiesa di San Sebastián de los Caballeros, pannello staccato proveniente da Toro, San Giorgio e il drago, particolare 10. Toro (Zamora, Castiglia), chiesa di

San Sebastián de los Caballeros, pannello staccato proveniente da Toro, Adorazione dei Magi

7. Toro (Zamora, Castiglia), chiesa di San Sebastián de los Caballeros, pannello staccato proveniente da Toro, Storie di san Giovanni Battista

8. Toro (Zamora, Castiglia), chiesa di San Sebastián de los Caballeros, pannello staccato proveniente da Toro, Sante Marta (o Margherita), Agata e Lucia

9. Toro (Zamora, Castiglia), chiesa di San Sebastián de los Caballeros, pannello staccato proveniente da Toro, episodi della Vita di Cristo

degli artisti: “Goffridus me fecit” su un capitello di Chauvigny (fig. 16), “Gelardus fecit istas portas” a Bourges, “Rotbertus me fecit” a Notre-Dame-du-Port a Clermont-Ferrand, “Acceptus fecit hoc opus” sull’ambone di San Savino a Canosa, o ancora, in maniera più esplicita, l’arcivescovo “Jonatas iussit hoc opus fieri per manus Pantaleonis presbiteri” a Otranto25.

Come ha fatto osservare Maria Monica Donato nel suo arti- colo pubblicato negli atti del convegno di Parma sul tempo degli antichi26, e come mi ha confermato anche di persona nelle con-

versazioni che abbiamo avuto sulla firma qui in esame, la for- mula “me fecit” non lascia dubbi sul suo significato se la guar- diamo, senza pregiudizi, attraverso la storia delle firme tra il romanico e il gotico. Peraltro anche nelle zone geografiche più vicine alle nostre pitture gli esempi sono molteplici: dal “Michae- lis me fecit” del portale meridionale della chiesa di Revilla nella provincia di Palencia, accompagnato dal ritratto dello sculto- re (fig.17); al “Leodegarius me fecit” di Santa Maria di Sangüe- sa (fig. 18); fino al frontale d’altare del Museo Nazionale d’ar- te della Catalogna, nel quale alla base delle scene presiedute dalla figura di San Martino vescovo si impone una firma molto chia- ra che recita “Ioannes pintor fecit”27(fig. 19).

Potrei continuare questa lista per pagine e pagine per dimo- strare come Teresa Dieç sia effettivamente l’autrice materiale delle pitture, ma vorrei soffermarmi anche su un altro elemen- to informativo che contribuisce ad accrescere il livello di pro- blematicità. Mi riferisco alla presenza di uno stemma posto con ostentazione subito al di sotto della firma (fig. 15), isolato e messo in rilievo con sorprendente esibizione, un elemento che, qualche volta, in ambito locale, ha fatto dire che Teresa Dieç fosse la committente delle pitture. Non c’è alcun dubbio, infat- ti, che i due elementi, lo stemma e la firma, siano strettamente connessi l’uno all’altro, in uno spazio a loro espressamente riser- vato28.

Il blasone può essere letto in un duplice modo, a seconda di come interpretiamo la presenza del rosso, se come una bor- dura o come un campo. In questo secondo caso lo stemma sareb- be un blasone al campo rosso caricato di uno scudo d’argento

alla banda nera; nel primo caso invece lo scudo d’argento alla banda nera sarebbe bordato di rosso29. Questo dibattito, anche

se non incide direttamente sulle nostre preoccupazioni stori- co-artistiche, non è da sottovalutare perché può tradurre una gerarchia, e la bordura andrebbe letta come pezza onorevole per ramo cadetto30.

La presenza di questo scudo ha risvegliato la mia curiosità inducendomi a studiare le genealogie medievali della Castiglia e del León, e a consultare i principali autorevoli specialisti dei lignaggi castigliani e nello specifico zamorani, direttori e mem- bri illustri delle diverse accademie ispaniche di araldica e di genealogia. Tutti coloro che hanno visto questo stemma – Erne- sto Fernández-Xesta y Vázquez, che a sua volta ha consultato nel merito Jaime de Salazar y Acha, Faustino Menéndez Pidal de Navascués, e anche Javier Gómez de Olea y Bustinza, spe- cialista dei lignaggi propri della zona di Toro – e colgo l’occa- sione di ringraziarli per le fitte discussioni epistolari sul tema, hanno concluso in primo luogo che lo stemma non può essere identificato con nessuna delle grandi dinastie nobiliari conosciute della Castiglia. Nel corso di questi scambi siamo però arrivati

16. Chauvigny, chiesa di San Pietro, capitello con la firma dell’artista Goffridus

17. Revilla (Palencia), chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano, archivolto del portale con la firma dell’artista Michaelis

18. Sangüesa, chiesa di Santa Maria la Real, statua-colonna della facciata con la firma dell’artista Leodegarius

19. Barcellona, Museu National d’Art de Catalunya, frontale d’altare con la firma dell’artista Ioannes

però, come accennavo, ci troviamo anche di fronte alla parti- colare problematica dell’episodio rappresentato vicino al Noli me tangere, del quale sfortunatamente non possediamo la con- tinuazione della storia. Un Giorgio al femminile, che di per sé sarebbe un elemento di grande originalità, o una Marta trave- stita nell’azione di Giorgio? Qui forse abbiamo uno di quegli elementi che potremmo ritenere propri di una iconografia fem- minile o delle monache in quanto donne.

Rimane inoltre la questione di Cristoforo, messo in valore nella vita religiosa e intima della comunità femminile di Toro per il grande formato dell’immagine e per la scelta fatta dalla pittrice di firmare proprio accanto a questa figura. Ma in que- sto caso, come per la vita di Cristo o il Giudizio finale, non si tratta di un tema esclusivo delle clarisse, ma di un tema molto

diffuso nelle chiese di pellegrinaggio, o in altri ambienti reli- giosi, in quanto Cristoforo proteggeva nei viaggi, nella duplice funzione di viaggio di pellegrinaggio o di viaggio alla ricerca della salvezza20. Non possiamo escludere che, in questo caso, il Cri-

stoforo fosse legato a una peculiare devozione del convento, della committenza o della stessa pittrice.

Il dato sul quale intendo soffermarmi in questa seconda parte del mio intervento riguarda proprio la questione della firma che appare accanto alle gambe del san Cristoforo: “Teresa Dieç me fecit” dice chiaramente l’iscrizione (fig. 15), databile alla mede- sima altezza cronologica degli altri pannelli figurativi.

Prima di entrare nel merito di questa firma, vorrei precisa- re che le pitture di Toro non sono inedite localmente, ma si può dire che, se si esclude il lavoro di Joaquín Yarza sul ciclo di santa Caterina21, sono praticamente sconosciute nel loro complesso

alla bibliografia internazionale. Negli studi di genere22, soprat-

tutto di area anglosassone, il nome di Teresa Dieç lo si trova citato qua e là, ma la questione sollevata dalla firma è del tutto assente dalla nostra bibliografia specializzata. Non nego, a que- sto proposito, che la rarità delle firme di artiste donne in con- testi di arte monumentale medievale renderebbe comodo iden- tificare questa Teresa con la committente della decorazione murale. Personalmente, però, mi oppongo radicalmente a que- sta interpretazione di comodo. Innanzitutto i committenti non firmano così: i committenti non fanno, ma fanno fare. E que- sto si traduce nelle firme non con il “me fecit”, ma con il “fieri fecit” o “fieri iussit”.

La firma di Toro appare invece chiaramente come la firma di un’artista, che con orgoglio lascia la propria traccia all’interno di una serie importante di immagini religiose, immagini di qua- lità tra l’altro, sul piano stilistico, e ciclo pittorico ambizioso sul piano iconografico. Questa presenza della firma così fieramente esibita in un ciclo religioso si situa nella linea di una tradizio- ne molto diffusa nell’arte monumentale medievale23, che qui rias-

sumerò attraverso alcuni esempi più o meno celebri. Ad Autun, nel centro del timpano, in una posizione dominante rispetto alle iscrizioni che commentano il contenuto dello stesso timpano, sotto ai piedi del Cristo in maestà, appare la firma ben nota agli storici dell’arte, scultore o maestro d’opera che fosse, “Gisle- bertus hoc fecit”. In questo caso non “me fecit”, ma “hoc fecit”, con una variante linguistica ampiamente analizzata nei più recen- ti e aggiornati repertori di firme medievali di artisti.

Le formule “me fecit” o “hoc fecit” o anche “fecit opus” pre- cedute da un nome proprio, si riferiscono sempre a colui che realizza l’opera, artista, o capobottega, o imprenditore nel senso più attuale dell’imprenditoria artistica. Sulle porte di legno della cattedrale romanica di Le Puy la distinzione tra artista e com- mittente è addirittura espressamente menzionata: “Gauzfredus me fecit, Petrus edificavit”. Così il vescovo costruttore, Petrus, accompagna il responsabile dell’opera, Gauzfredus, autore sia delle porte che di una parte più importante del monumento24.

Gli esempi sono naturalmente numerosissimi. Capitelli, por- tali, timpani, oggetti liturgici, pongono in bella evidenza la firma

14. Bominaco (L’Aquila), oratorio di San Pellegrino, San Cristoforo

15. Toro (Zamora, Castiglia), chiesa di San Sebastián de los Caballeros, pannello staccato proveniente da Toro, particolare con la firma e lo stemma dell’artista

Vorrei anche aprire rapidamente un’ulteriore questione, che va al di là del nome della nostra pittrice. Sarebbe facile ipotiz- zare che nel caso di programmi iconografici sviluppati nei cori di conventi di clausura, le monache avessero fatto appello a donne piuttosto che a uomini per la decorazione di questi spazi,