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Le navi da guerra e i cannoni: il ruolo dello Stato

Dopo l’Unità d’Italia, il nuovo Regno guidato dalla Destra storica cercò rapidamente di incrementare e rafforzare il potenziale offensivo dell’Esercito e della Marina, risultati dalla fusione delle varie forze armate dei precedenti Stati regionali, in particolare nel periodo tra il 1860 e il 1865. Dal punto di vista degli armamenti, gli impegni finanziari maggiori erano quelli destinati alle costruzioni navali, soggette a un processo di sviluppo tecnologico ben più veloce e intenso di quello riguardante le armi terrestri. In particolare, l’affermarsi sul mercato delle corazzate, con le loro pesanti protezioni di acciaio, e dei cannoni rigati cambiò radicalmente lo svolgersi della guerra navale. Tuttavia l’industria statale e privata nazionale non erano attrezzate, per la produzione di questi armamenti d’avanguardia che la Marina fu così costretta ad acquistare principalmente all’estero70. In particolare, la Marina acquistò naviglio militare soprattutto da cantieri francesi, anche per rinforzare l’alleanza con la Francia, la quale fu fondamentale per consentire l’Unità e l’indipendenza del Paese71.

Tuttavia le esigenze della finanza pubblica, gravata dalle notevoli spese per lo sviluppo infrastrutturale della nazione e dal debito pregresso degli stati regionali, portarono a una riduzione del bilancio della Marina e quindi anche delle spese straordinarie per le costruzioni navali, già a partire dal 186472. Dopo la battaglia di Lissa, che gettò discredito

sulla qualità del potenziale offensivo della flotta, queste spese furono ridotte a livelli senza precedenti, anche perché dopo la conquista del Veneto, declinò la possibilità di un nuovo scontro navale sull’Adriatico, tra Italia e Austria-Ungheria. Il governo di Roma puntò al

70 Secondo Martorelli, fino al 1866, tutto il naviglio con scafo di ferro fu acquistato all’estero. Per Maldini la

relativa spesa prevista fu di 33400000 lire cfr. G. Martorelli, L'Industria delle Costruzioni Navali in Italia

(1861-1911), in “Rivista Marittima”, 50, (1911), pp. 253-283; G. Maldini, I Bilanci della Marina d’Italia, vol.

1, Roma, Tipografia Forzani, 1886, passim.

71 Ivi, p. 75.

72 Secondo i dati riportati da Epicarno Corbino, su una spesa statale di circa 1 miliardo di lire tra il 1860 e il

1870, la spesa per la realizzazione di strade ferrate, ammontò a ben 453 milioni di lire cfr. E. Corbino, Gli

annali dell’Economia Italiana, 1861-1870, Istituto Ipsoa, 1981, pp. 174-175; cfr. F. Degli Espositi, Le armi proprie. Spesa pubblica, politica militare e sviluppo industriale nell’Italia liberale, Milano, Uncipoli,2006, p.

rafforzamento infrastrutturale e finanziario dello Stato73. Solo dagli anni ‘70, le spese per le costruzioni navali tornarono a crescere. Tuttavia la Marina si affidò ai suoi arsenali per la costruzione delle nuove navi da guerra, aggiornandone gli impianti, continuando comunque a fare ampio ricorso alle forniture dall’estero, e rivolgendosi all’industria privata italiana, per la realizzazione del naviglio di piccola e media stazza, come nel caso dei massimi costruttori navali dell’epoca, Ansaldo e Orlando.

Fino ai primi anni ‘90, le spese preventive per le costruzioni navali erano più elevate di quelle consuntive, perché spesso i tempi di formalizzazione dei contratti si protraevano oltre il previsto, con una relativa variazione dei prezzi, in modo tale da non permettere una stima più precisa dei costi di produzione74. La causa di tali ritardi era attribuibile a una disorganizzazione dell’amministrazione che gestiva le commesse. Difficoltà che valevano anche per le artiglierie navali.

I capitoli di bilancio erano costituiti da spese ordinarie, ossia spese ricorrenti funzionali all’esistenza stessa della struttura militare come la manutenzione del naviglio, l’acquisto di viveri, vestiario, stipendi, materie prime, ecc. Le spese straordinarie riguardavano quegli ammortamenti non ricorrenti, come l’incremento e il potenziamento della flotta, quindi le costruzioni navali, o anche la realizzazione e l’ampliamento degli arsenali. Dalla seconda metà degli anni ‘90, le spese effettive tesero a essere maggiori di quelle del bilancio di previsione, molto probabilmente per l’intensificazione del processo d’innovazione tecnologica, specie nel campo delle corazze navali. In particolare, le innovazioni tecnologiche che si affermavano nel mercato, spesso comportavano una richiesta di aggiornamenti tecnici da parte del Ministero della marina ai suoi fornitori, sui contratti in esecuzione, tali da comportare degli extra cost sulla spesa di previsione.

In sostanza tra il 1861 e il 1865, fu completata la trasformazione della flotta militare. La Regia marina sostituì progressivamente le unità navali con scafi di legno e a vela, con quelle dotate di scafi in metallo e motori a vapore. Tale modernizzazione comportò anche un aumento delle spese ordinarie, per la manutenzione e la riparazione del naviglio. In particolare, nel 1861, l’Armata contava 79 unità che divennero 84 nel 1866. Tuttavia fu dal punto di vista qualitativo che si ottennero i risultati più significativi. Tra il 1861 e il 1866, la potenza installata dei motori a vapore passò da 12160 HP a 23046 HP; i cannoni passarono

73 Ivi, p. 104.

da 745 a 1125 e il dislocamento complessivo del naviglio fu incrementato da 77031 tonnellate a 133526 tonnellate. In sostanza, se al 1861, la flotta era composta prevalentemente da navi a vapore con scafo di legno e velieri, armati con cannoni a canna liscia; nel 1866, il suo nucleo si basava su 11 corazzate con scafi di acciaio, munite di grandi artiglierie a canna rigata, protette da pesanti corazze che la rendevano una delle marine più forti del mondo75.

In questo modo iniziò un processo di modernizzazione delle costruzioni navali che si sarebbe concluso solo durante l’età giolittiana, quando anche il naviglio commerciale finì per adottare prevalentemente navi in metallo e a motore. Nel 1862 iniziò anche la costruzione dell’Arsenale di La Spezia, completato nel 1869, che divenne subito il più importante cantiere di costruzioni navali della Regia marina, sostituendo l’Arsenale di Genova che così poté avere maggior spazio per lo sviluppo del suo porto commerciale.

Tre rimanevano ancora gli elementi di debolezza che caratterizzavano la Regia marina. In primis, i tempi di costruzione degli arsenali erano ancora troppo lunghi, rispetto a quelli dei maggiori fornitori esteri. Per una nave da battaglia potevano occorrere sei anni contro i due-due anni e mezzo dei cantieri stranieri più importanti. Un’altra lacuna era la mancanza di standardizzazione in termini di dimensioni, caratteristiche tecniche di progettazione e protezione, ciò dipendeva dal fatto che la Marina si rivolgeva a più costruttori, ognuno con le sue peculiarità produttive. Un altro limite era la lentezza nell’aggiornamento continuo dei propri armamenti. In sostanza le sue corazzate furono costruite allestendole con batterie di cannoni laterali, mentre il mercato proponeva navi da battaglia con torrette centrali mobili. Di conseguenza, il naviglio della Marina italiana fu soggetto a una rapida obsolescenza.

Dopo il 1870, in occasione della presa di Roma, la Francia non riconobbe l’annessione dello Stato Pontifico da parte dell’Italia, poiché alleata del Papato, e ciò fece presagire un possibile scontro navale sul Mediterraneo occidentale delle due potenze marittime. Per tale motivo, il bilancio della Marina e gli investimenti per le costruzioni navali, spostate dagli anni ‘70 nella parte delle spese ordinarie, ripresero a crescere all’inizio degli anni ’70 (vedi tabella numero 2). Nel nuovo contesto politico era fondamentale rafforzare le protezioni dei porti di Livorno e Genova dalle cannonate delle navi francesi. Questi porti erano diventati strategici non solo dal punto di vista militare, per un possibile

attacco navale francese, ma anche da un punto di vista commerciale con l’apertura del canale di Suez, nel 1869, che aveva dato nuovo impulso alle rotte commerciali tra l’Europa e le Indie. In questo senso, l’Italia acquisì una nuova rilevanza strategica per la sua posizione centrale nel Mediterraneo che ne richiese l’aggiornamento di una flotta ormai obsoleta, considerata essenziale per la difesa del suo traffico commerciale, da cui dipendeva anche l’approvvigionamento vitale delle materie prime.

Negli anni ‘70, a differenza degli anni ‘60, la Marina puntò ad acquistare un minor numero di unità navali, ma di un maggior dislocamento e potenza, in modo tale da sfruttare il fattore tecnologico nel contesto della competizione navale con la Francia. Negli anni ’60, su 41174 tonnellate complessive di corazzate, solo 3446 furono realizzate in Italia, nell’Arsenale di Genova, e il resto acquistate all’estero. Nel decennio successivo, su 58836 tonnellate relative a incrociatori e nuove corazzate, 43502 (il 76,5 per cento) furono realizzate negli arsenali di Stato e il restante 23,3 per cento, relativo alla “Lepanto”, nel cantiere privato Orlando. Di conseguenza, solo circa lo 0,2 per cento di questo materiale fu acquistato all’estero76.

La possibilità di costruire navi da battaglia nei propri arsenali permetteva alla Marina di aver un maggior margine di manovra nell’adeguamento dei progetti, ai propri bisogni tattici e strategici, in relazione alle novità offerte dal mercato. In questo senso, negli anni ’60, il Ministero accentrò la produzione negli stabilimenti più grandi e cedette la gestione di quelli più piccoli, ai privati, come nel caso del cantiere di Livorno77. Anche se negli anni ‘70, rispetto al passato, le corazzate erano costruite in Italia, però, con tempi e costi di produzione superiori a quelli rilevabili all’estero, tuttavia i materiali più complessi da produrre, come cannoni e corazze, la Regia marina li acquistava ancora sul mercato internazionale, come dimostra il grafico numero 1.

In questo senso, la linea inaugurata dal ministro della Marina Saint Bon e il suo principale responsabile tecnico per le costruzioni navali, l’ammiraglio Benedetto Brin, favorì l’aumento della spesa navale per gli armamenti78. Brin progettò le principali navi da battaglia italiane fino agli anni Novanta, come le avveniristiche Duilio e Dandolo che utilizzavano

76 G. Marchisio, Battleships and Dividends, cit., p. 79.

77 Sulla vendita del cantiere di Livorno si veda V. Marchi, M. Cariello, Cantiere F.lli Orlando 130 anni di storia

dello stabilimento delle sue costruzioni navali, Livorno, Belforte, 1997; per quello di Genova, G. Doria, Le Premesse (1815-1882), in Investimenti e Sviluppo Economico a Genova alla Vigilia della Prima Guerra Mondiale, vol. 1, Milano, 1969, 73-74.

78 Brin fu al vertice del dicastero, tra il 1876 e il 1877, e poi di nuovo nel 1878 e ancora, tra il 1884 e il 1891. Il

solo motori a vapore per la propulsione, facendo a meno dell’ausilio di alberi e vele, come era stato fino a quel momento. Il loro era il maggior dislocamento della storia navale, ossia pari a 11000 tonnellate di stazza ciascuna. Le due corazzate erano dotate anche dei più potenti cannoni costruiti al mondo, dal calibro di 450 mm, forniti dall’Armstrong, che arrivarono a pesare fino a 100 tonnellate. In questo modo la flotta italiana divenne una delle più temibili al mondo, assumendo una posizione di primaria importanza nel Mediterraneo.

Con l’arrivo al governo della Sinistra storica, Brin successe a Saint Bon alla guida del dicastero, continuando a perseguire una politica navale basata su grandi navi da battaglia, tra cui quelle di nuova generazione, “Italia” e “Lepanto”, disegnate dallo stesso Brin, sprovviste di corazze laterali, ma realizzate con una struttura interna cellulare, capace di attutire i colpi di cannone, riducendo così i rischi di affondamento dell’imbarcazione79. Il minor peso gli consentiva di raggiungere velocità mai raggiunte fino a quel momento, pari a 18 nodi, conseguendo un vantaggio tattico non indifferente sulle navi nemiche per via della maggiore rapidità di manovra. Il grande limite di queste navi era però il costo eccessivo che, di fatto, riduceva notevolmente i margini di spesa del bilancio.

La crescita delle spese per le costruzioni navali si mantenne stabile fino al 1878, riducendosi poi sensibilmente negli anni successivi, per poi ricrescere nuovamente dal 1881 (vedi tabella 3), a causa delle tensioni internazionali con la Francia, in seguito alla sua occupazione della Tunisia e alla reciproca guerra commerciale. Per tanto, la crescita della spesa navale rimase stabile fino al 1889, per poi ridursi nel 1890 (vedi tabella numero 6, per le costruzioni navali, e quella 5 per il complesso delle spese ordinarie e straordinarie). La causa fu dovuta alla crisi bancaria e del settore edilizio, tra il 1888 e gli inizi degli anni ‘90. Negli anni ’80, durante il periodo di espansione del bilancio della Regia marina (vedi tabella numero 5), la forza navale ne uscì radicalmente trasformata, con un naviglio più numeroso e di maggior stazza; con l’aumento degli effettivi dell’Armata e l’ingrandimento e potenziamento degli arsenali80.

Dall’esercizio 1892-1893, sia le spese ordinarie sia straordinarie (vedi tabella numero 8) sia le spese per le costruzioni navali (vedi tabella numero 9) tornarono ad aumentare. Tuttavia, l’andamento fu irregolare. La spesa straordinaria in generale, e i capitoli per le costruzioni navali in particolare, seguirono un andamento oscillante per quasi tutti gli anni

79 Tra il 1891 e il 1892, Saint Bon tornò al vertice del Ministero, per poi essere sostituito nuovamente da Brin,

alla fine del 1892.

‘90, senza mai raggiungere i livelli degli anni ‘80, toccati solo a partire dal 1899-1900, nel primo caso, e dal 1898-99, nel secondo. La spesa ordinaria, invece, fu variabile nella prima metà del decennio, ma nella seconda metà registrò una crescita sensibile, ben al di sopra dei livelli degli anni ’80, e ciò fu il sintomo che la flotta militare non fu ridimensionata, nonostante le ristrettezze finanziarie.

La spesa per le costruzioni navali tornerà a crescere dalla fine dell’Ottocento, fino all’esercizio 1900-01, quando Francia e Italia arrivano a un accordo di spartizione delle proprie aree d’influenza nel Maghreb. Negli anni seguenti, e fino al periodo 1905-1906, tale spesa mantenne un andamento variabile e si attestò su livelli moderati, poiché le tensioni internazionali non erano così acute da produrre una corsa al riarmo navale, tant'è che Francia e Gran Bretagna riconobbero la preminenza degli interessi italiani in Etiopia nel 190681. Dal 1906-1907, la spesa per le costruzioni navali cominciò a crescere in modo consistente, sia in relazione alla corsa al riarmo navale in Adriatico, in funzione anti-austriaca, accentuatasi dopo l’occupazione dell’Impero Asburgico della Bosnia-Erzegovina, sia riguardo alla guerra di Libia del 1911-12 (vedi tabella numero 11).

In effetti, nel 1909, fu completata la prima dreadnought italiana, la Dante Alighieri, mentre alla fine del 1910, la Marina ne ordinò altre tre, eseguite tra il 1910 e 1914: la Conte di Cavour, costruita nel cantiere militare di Castellammare, la Leonardo Da Vinci, realizzata da Odero e la Giulio Cesare, prodotta dall’Ansaldo. Esse erano corazzate di ben 23000 tonnellate, con un dislocamento del 75 per cento superiore a quella delle navi da battaglia italiane, precedenti all’era delle dreadnought. L’Austria rispose varando ben quattro dreadnought, tra il 1910 e il 1912, successivamente l’Italia rilanciò la sfida impostando altre due di questi mostri dei mari, Andrea Doria e Caio Duilio, rispettivamente nei cantieri di La Spezia e a Castellammare. Nel 1914, entrambi gli antagonisti progettarono di costruire delle dreadnought con un dislocamento di più di 30000 tonnellate, ma lo scoppio della guerra interruppe il progetto82.

Le enormi risorse finanziarie impiegate dalla Regia marina, per le costruzioni navali, in occasione della guerra di Libia, furono il segno di quanto fosse importante l’arma navale per il successo di operazioni legate al controllo costiero, attraverso il trasbordo di truppe. A riguardo, l’Italia riuscì ad assestare il colpo finale all’impero ottomano, per convincerlo a

81 Ivi, p. 238. 82 Ibidem.

desistere dalla sua opposizione, solo quando occupò varie isole del Dodecaneso. Tuttavia, fino agli anni ‘20 del Novecento, l’Italia riuscì a controllare solo l’area costiera della sua “quarta sponda”. La spregiudicatezza dell’azione militare italiana durante la guerra di Libia, che era arrivata perfino a violare la sicurezza dello stretto dei Dardanelli, garantita da trattati internazionali, aveva suscitato il risentimento di Francia e Gran Bretagna, spingendo l’Italia ad avvicinarsi di nuovo alle forze della Triplice, senza per questo arrestare il proprio riarmo navale in Adriatico.

In questo senso, la spesa del Ministero della marina, legata alle forniture militari, seguirà una progressiva crescita fino al periodo 1913-14, l’anno della neutralità. Dall’inizio del secolo alla vigilia della Grande Guerra, essa passò da 104,56 milioni a ben 238, raggiungendo il picco nel periodo 1912-13, con 299,42 milioni (vedi tabella numero 14). In particolare, la quota delle costruzioni navali assegnate all’industria privata iniziò a essere superiore a quella degli arsenali, in modo stabile e sensibile, dall’esercizio 1909-1910 (vedi grafico numero 1). Tale evoluzione era connessa all’affermazione delle dreadnought nell’ambito della guerra navale che implicavano enormi capitali di rischio e una tecnologia sempre più complessa.

In questo senso, l’espansione degli arsenali di Stato negli anni ‘80 dell’Ottocento che aveva contribuito a rendere la flotta italiana una delle prime al mondo, si arrestò nel decennio successivo, per via delle ristrettezze finanziarie in cui versava il paese e a causa dell’evoluzione del mercato, caratterizzato da elevati costi di ricerca e sviluppo, per armamenti sempre più moderni. In effetti, in quel periodo, lo sviluppo tecnologico degli armamenti navali era molto più veloce di quello delle armi terrestri e ciò implicava una più rapida obsolescenza del loro valore bellico.

Il declino dell’industria di Stato fu favorito da una politica industriale del Ministero della Marina, viziata dall’azione d’interessi particolari: non solo specificatamente dalle pressioni dell’industria privata, ma più in generale da quelle delle comunità locali che ospitavano i vari stabilimenti. Le comunità locali imposero alla Regia marina di fatto un’equa distribuzione delle commesse, impedendo così la specializzazione produttiva e la modernizzazione degli arsenali e dei cantieri più importanti e strategici. Di conseguenza, non potendo vendere gli stabilimenti superflui, la Marina dovette tagliare le spese riducendo la forza lavoro, dalla metà degli anni ‘90, fino ad arrivare a provvedimenti legislativi come quello del novembre del 1899 che puntavano a ridimensionare drasticamente gli addetti

dell’industria di Stato, attraverso il blocco del turnover83. In effetti, la forza lavoro passò da 17186 unità del 1900 a 12208 del 191384.

Riguardo ai dati disponibili sulle artiglierie navali, dalla seconda metà degli anni ’70 e fino agli ultimi anni ’80, si registrò una crescita stabile (vedi tabelle numero 4 e 7). Dopo un periodo di flessione a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, la spesa per le artiglierie navali tornò a crescere nel periodo 1890/91-1992/93 (vedi tabella numero 10.) Tra il 1894 e il 1895 si registrò un’altra diminuzione della spesa, ma essa tornò a risalire negli anni successivi, toccando il massimo del decennio, nel periodo 1896-97. Per il resto degli anni ’90, essa si attestò tra i 5 e i 6 milioni di lire, dopo che Italia e Francia conclusero la loro guerra commerciale, nel 1898. Le spese effettive delle artiglierie, come quelle delle costruzioni navali fino alla prima metà degli anni ‘90, erano nettamente inferiori a quelle previste.

In generale i relativi residui dei capitoli di bilancio per le costruzioni e gli armamenti navali non erano restituiti al Tesoro, ma rimanevano comunque a disposizione del Ministero della marina. Tale scelta era dovuta al fatto che le assegnazioni finanziarie del Governo e del Parlamento dipendevano dalla congiuntura politica e rischiavano di essere irregolari; per tanto accumulare una dotazione di capitale, in previsione dei periodi di magra, aiutava i Ministero della marina ad avere una maggiore autonomia di manovra sul piano delle costruzioni navali che spesso si dilungavano più del previsto, richiedendo somme aggiuntive85.

Dopo un aumento all’inizio del nuovo secolo, la spesa per le artiglierie navali tese ad avere un andamento oscillante fino al 1912, toccando un apice nel periodo 1907-1908, con ben circa 13 milioni di lire (vedi tabella numero 11). Rispetto al resto delle costruzioni navali, come scafi e motori, la spesa per artiglierie e armamenti registrò una ripartizione quasi equa tra cantieri navali privati e pubblici, fra il 1905 (l’inizio del riarmo navale d’età giolittiana) e il 1912 (vedi tabelle numero 12 e 13). Per questo periodo, nel caso delle artiglierie e armamenti, la differenza tra gli ordini diretti agli arsenali e quelli destinati al settore privato fu solo di circa 2180909 lire a favore del secondo, ossia pari all’1,82 per cento del totale di 120046725 lire. Per gli scafi e motori la maggior spesa per gli stabilimenti privati fu rispettivamente di 10366543 lire, ossia pari al 3,2 per cento del totale di 320723027 lire. Per

83 F. Degli Espositi, Le armi proprie., p. 337.

84 P. Ferrari, Verso la guerra., cit., p. 76.

le spese complessive delle costruzioni navali, questa maggior spesa destinata ai privati fu di 12547448 lire, ossia equivalente al 2,8 per cento del totale di 440769752 lire.

Da questi dati è possibile affermare che nell’ambito dell’esponenziale aumento di

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