• Non ci sono risultati.

Nozione di impresa, presunzione assoluta di commercialità e peculiarità della qualificazione dell’attività svolta dagli enti non

societari

Nei precedenti capitoli si è cercato di rappresentare la centralità che il concetto di impresa e di imprenditore ricoprono ai fini tributari; nel secondo capitolo, in particolar modo, si è esaminato quale sia il rilievo di tale nozione nel determinare la sussistenza del presupposto applicativo del tributo e nell’individuazione del corretto regime fiscale applicabile ad un soggetto.

Tali problematiche si pongono, è di tutta evidenza, non solo per i soggetti persone fisiche, ma anche per i soggetti diversi dalle persone fisiche, ovverosia per le società e gli enti. Vi è invero una parte di questi ultimi per i quali l’importanza della qualificazione dell’attività svolta come d’impresa o meno è fortemente ridimensionato: è il caso delle società commerciali, per le quali vige una presunzione assoluta di commercialità dell’attività esercitata (rectius, assoluta

124

per le imposte sui redditi, e “quasi” assoluta per l’Iva, stante il fatto che l’articolo 4 del D.P.R. n. 633 del 1972 prevede alcune non trascurabili eccezioni) (238) (239).

Per gli enti diversi dalle società (commerciali), invece, la qualificazione dell’attività svolta è particolarmente importante poiché, al pari di quanto illustrato nel capitolo che precede, dalla qualificazione di un ente come commerciale o non commerciale discende non solo il regime fiscale applicabile allo stesso, ma anche una serie di conseguenze quali ad esempio l’obbligatorietà della tenuta di scritture contabili e gli adempimenti ai fini dell’Iva, la cui inosservanza comporta l’applicazione di significative sanzioni. Peraltro, l’importanza di tale qualificazione è andata crescendo nel tempo, a causa da un lato del sempre più frequente uso di forme associazionali, fondazionali o comunque non societarie per svolgere un novero sempre più variegato di attività, e dall’altro lato in ragione del regime di favore disposto per determinate attività, generalmente svolte da enti non societari, in numerosi ambiti (240).

(238) L’articolo 4 del D.P.R. 633 del 1972 prevede infatti, al secondo periodo del quinto comma, che « Non sono considerate, inoltre, attività commerciali, anche in deroga al secondo comma [ovverosia, anche in deroga alla presunzione assoluta di esercizio d’impresa posta in essere dalle società e dagli enti commerciali]:

a) il possesso e la gestione di unità immobiliari classificate o classificabili nella categoria catastale A e le loro pertinenze, ad esclusione delle unità classificate o classificabili nella categoria catastale A10, di unità da diporto, di aeromobili da turismo o di qualsiasi altro mezzo di trasporto ad uso privato, di complessi sportivi o ricreativi, compresi quelli destinati all'ormeggio, al ricovero e al servizio di unità da diporto, da parte di società o enti, qualora la partecipazione ad essi consenta, gratuitamente o verso un corrispettivo inferiore al valore normale, il godimento, personale, o familiare dei beni e degli impianti stessi, ovvero quando tale godimento sia conseguito indirettamente dai soci o partecipanti, alle suddette condizioni, anche attraverso la partecipazione ad associazioni, enti o altre organizzazioni;

b) il possesso, non strumentale né accessorio ad altre attività esercitate, di partecipazioni o quote sociali, di obbligazioni o titoli similari, costituenti immobilizzazioni, al fine di percepire dividendi, interessi o altri frutti, senza strutture dirette ad esercitare attività finanziaria, ovvero attività di indirizzo, di coordinamento o altri interventi nella gestione delle società partecipate».

(239) Ciò non toglie, tuttavia, che il problema si ponga anche in ambito societario con specifico riferimento ad alcuni istituti: il tema delle “società senza impresa” è infatti cruciale innanzitutto nella participation exemption di cui all’art. 87 del Tuir (sul tema delle società senza impresa nella participation exemption si vedano in particolare R. LUPI, Le partecipazioni nella riforma fiscale tra immobilizzazioni, disponibilità, requisito di possesso minimo e società senza impresa: le contraddizioni di un sistema spezzato in due, in Dialoghi di diritto tributario, 2005, 420 ss., e F. PEDROTTI, Cessioni di aziende e di partecipazioni sociali nel reddito d’impresa ai fini dell’Ires, Milano, 2010, 118 ss.,) nonché le disposizioni c.d. anti paradisi fiscali e CFC di cui agli artt. 110, c. 10, 167 e 168 del Tuir (sul punto L. MIELE, V. RUSSO, Deducibilità dei componenti negativi da operazioni con soggetti domiciliati in paesi a fiscalità privilegiata. L’esimente dell’attività commerciale effettiva, in Rass. Trib., 2009, 1135 ss.)

(240) A.M. PROTO, Ancora in tema di enti non societari, in Rass. Trib., 1995, 1812, la quale osserva altresì che «il problema non si poneva negli stessi termini prima della riforma del 1973 quando, nella vigenza dell'imposta di ricchezza mobile, si distinguevano enti con e senza scopo di lucro in ragione della distribuzione ai soci (o partecipanti) degli utili conseguiti o del vincolo

125

Come si vedrà meglio nei successivi paragrafi, la qualificazione di un ente come commerciale o non commerciale dovrebbe seguire in via di principio i medesimi criteri descritti nel precedente capitolo, ovverosia accertare la sussistenza degli elementi costituenti attività d’impresa commerciale ai sensi dell’articolo 55 del Tuir, quale la sussistenza di un’attività economica, la professionalità-abitualità e così via (241). Tuttavia, ciò non è immediatamente riproponibile nella valutazione della commercialità degli enti non societari; in particolare, il solo disposto dell’articolo 55 Tuir non è sufficiente per consentire la qualificazione dell’ente come commerciale o meno, essenzialmente per due ordini di ragioni che verranno di seguito esaminate.

In primo luogo, è necessario considerare come la valutazione in merito alla commercialità di un ente presenta una ulteriore specificità rispetto quella dell’attività di una persona fisica, che si manifesta principalmente ai fini delle imposte sui redditi. Infatti, l’indagine circa la commercialità o meno di un ente coinvolge, di regola, anche il profilo soggettivo dell’ente stesso: mentre il fatto che una persona fisica eserciti un’attività d’impresa commerciale non qualifica dal punto di vista soggettivo tale persona, ma determina solamente la qualificazione del redditi che tale persona (eventualmente) ritrae dalla propria attività (242), la di destinazione di tali utili ai propri fini istituzionali. La distinzione rilevante, allora, era quella basata sulla esistenza o meno del vincolo di destinazione. Potevano considerarsi non lucrativi o non profit solo gli enti che disponevano un espresso divieto di distribuzione degli utili ai soci (o partecipanti) e di ripartizione del fondo comune in sede di scioglimento dell'ente. La disciplina positiva ha quindi spostato l'accento dal cosiddetto lucro soggettivo al cosiddetto lucro oggettivo, e la sussistenza di quest'ultimo va verificata con riferimento al momento della produzione degli utili (che precede quello della eventuale distribuzione degli stessi). Di conseguenza si è passati dal problema della tassabilità o meno degli utili conseguiti, ma vincolati nella destinazione, definiti talvolta anche avanzi di gestione, al problema della identificazione dell'attività commerciale da tassare».

(241) In particolare, secondo F. PADOVANI (Problemi in tema di trattamento tributario degli enti non commerciali tra storia e prospettive di riforma, in Riv. Dir. Trib., 2002, 7-8, 765) la rilevanza dell’articolo 55 del Tuir (articolo 51 ante riforma) sarebbe suffragata sia dal fatto che in vigenza del D.P.R. n. 598 del 1973 il rinvio alla nozione di reddito d’impresa era normativamente previsto, sia dalla circostanza che nell’attuale sistema dell’Ires il richiamo all’articolo 55 del Tuir deve considerarsi insito nel sistema e comunque ricavabile dall’intenzione del legislatore di assumere ad elemento distintivo degli enti non societari la commercialità o meno dell’attività principale (e ciò in ragione, peraltro,del terzo comma dello stesso articolo 55, il quale non può che interpretarsi nel senso che ogni qual volta il legislatore menziona l’attività commerciale intende riferirsi alle tipologie di attività ex art. 55).

(242) Una persona fisica, è chiaro, non potrà mai essere classificata in quanto tale come “commerciale” o “non commerciale” al pari di una società o di un ente: non vi possono certo essere persone fisiche in ogni caso commerciali, come invece si ha per le società. Difatti, come già menzionato retro, il Tuir non identifica l’imprenditore ma solo i redditi d’impresa.

126

valutazione circa un ente non commerciale comporta attribuire allo stesso una qualificazione di tipo soggettivo, ovvero non solo qualificare i redditi realizzati dall’ente stesso, bensì attribuire ad esso una qualifica (“commerciale” o “non commerciale”) che influenza tutte le attività da questo svolte, cioè non solo eventuali attività di produzione, di intermediazione e altro ma anche finalità educative, assistenziali, e così via. In altri termini, la valutazione circa la commercialità di un’attività svolta da una persona fisica resta confinata a tale tipo di attività, mentre la valutazione in merito alla commercialità di un’attività svolta da un ente investe (o può investire) la stessa qualificazione tributaria dell’ente stesso e con essa – per effetto di una vis attractiva del tutto analoga alla presunzione assoluta di imprenditorialità in capo alle società commerciali – la totalità delle attività da questo svolte, prescindendo - come avviene per le società commerciali - dal fatto che esse siano ex se commerciali o non commerciali (243).

Corollario a quanto appena esposto è quindi l’esigenza, per gli enti non societari, non solo di qualificare come commerciale un’attività svolta, ma anche di qualificare come commerciale o non commerciale l’ente stesso, il quale per sua natura da un lato deve (o dovrebbe) attenersi ad un programma di attività contenuto nell’atto costitutivo, che ne definisce l’oggetto e lo scopo, e dall’altro è suscettibile di esercitare più attività. Da ciò non può che derivare la necessità di determinare quali elementi prendere a riferimento ai fini della valutazione della commercialità dell’ente (ed in specie, quale elemento prevalga in caso di contrasto tra la “forma” dell’atto costitutivo e la “sostanza” dell’attività effettivamente esercitata) nonché, nel caso in cui un ente eserciti più di un’attività, in base a quali circostanze valutare la prevalenza dell’attività commerciale rispetto a quella non commerciale e viceversa.

In secondo luogo, un importante elemento che differenzia la qualificazione degli enti non societari rispetto a quella di soggetti quali le persone fisiche è la presenza per i primi (ed in specie, per tutti o per alcune tipologie di essi) di norme speciali in merito alla qualificazione dell’attività svolta, sia ai fini dell’Ires, sia ai

(243) Per tale motivo A.M. PROTO (Ancora in tema di enti non societari, cit., 1813) osserva che «i requisiti richiesti per la classificazione degli enti non societari non vanno confusi con quelli richiesti per la qualificazione dell'attività esercitata. La natura dell’attività principale condiziona però la classificazione dell'ente, sicché è indispensabile procedere prima alla definizione della natura delle attività e poi alla classificazione degli enti.»

127

fini dell’Iva. Se si considerano innanzitutto le imposte sui redditi, vi sono alcune disposizioni ulteriori rispetto a quanto disposto dall’articolo 55 del Tuir, che individuano ulteriori attività che, qualora esercitate da enti non societari, sono considerate ai fini fiscali commerciali o non commerciali: è il caso, ad esempio, dell’articolo 143 del Tuir, il quale prevede, al secondo periodo del primo comma, che per gli enti non commerciali «non si considerano attività commerciali le

prestazioni di servizi non rientranti nell’articolo 2195 del codice civile rese in conformità alle finalità istituzionali dell’ente senza specifica organizzazione e verso pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi di diretta imputazione»,

nonché del successivo articolo 148, il quale prevede particolari regole circa la commercialità o meno di talune attività poste in essere dagli enti di tipo associativo. Anche ai fini dell’Iva vi sono particolari disposizioni nell’articolo 4 del D.P.R. n. 633 del 1972 in merito alle attività svolte dagli enti non commerciali, ed in specie quando talune operazioni si considerano o meno effettuate nell’esercizio di imprese per gli enti non commerciali (comma 4) nonché disposizioni in merito a specifiche attività o a specifici soggetti (commi 5, 6 e 7 dell’articolo 4).

Delineati sopra i principali campi di indagine relativi alla valutazione della commercialità per gli enti non societari, nel prosieguo, una volta esaminata la rilevanza che la qualificazione soggettiva degli enti non societari ricopre

Outline

Documenti correlati