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Analizzare in ogni suo aspetto il concetto-funzione, così come si presenta di volta in volta nella riflessione cassireriana, si è rivelato preliminarmente necessario a un’indagine adeguata sulla nozione di simbolo. Il progetto di una filosofia delle forme simboliche è infatti intimamente legato alle ricerche giovanili di SF, come lo stesso Cassirer dichiara esplicitamente nella prefazione alla Philosophie:
Lo scritto, di cui presento qui il primo volume, si rifà per il suo primo disegno alle indagini raccolte nel mio libro Substanzbegriff und Funktionsbegriff (Berlino 1910). Nello sforzo di rendere fecondi per la trattazione dei problemi pertinenti alle scienze dello spirito i risultati di tali indagini, le quali riguardano essenzialmente la struttura del pensiero matematico e scientifico, mi si era fatto sempre più chiaro come la teoria generale della conoscenza non fosse sufficiente, nella sua corrente accezione e limitazione, per una fondazione metodica di quelle scienze. Se si voleva arrivare a tale fondazione, il piano di questa teoria della conoscenza appariva abbisognevole di essere ampliato nei suoi princìpi. Anziché indagare semplicemente i presupposti generali della conoscenza scientifica del mondo, occorreva passare a stabilire e a delimitare, l’una rispetto all’altra, le varie forme fondamentali dell’intelligenza [comprensione: «Verstehen»] del mondo e cogliere ciascuna di esse più nettamente possibile nel suo peculiare intento e nella sua peculiare forma spirituale.49
Il legame, come si vede chiaramente, si fonda non tanto sulla versione forte della teoria funzionalistica del concetto, che abbiamo mostrato
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E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, trad. it. di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1965, vol. I, pag. XI.
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sostanzialmente analoga ad alcuni risultati di Frege e Russell in filosofia del linguaggio, quanto piuttosto sulla versione debole – quella, cioè, che ha più direttamente a che fare con la prospettiva trascendentale di matrice kantiana, ovvero con la ricerca delle condizioni metateoriche di possibilità dei singoli saperi particolari. Ora, il passaggio da SF alla PsF si fonda su un mutamento terminologico che sta a significare nient’altro che un ampliamento di prospettiva: a) i concetti si basano su funzioni intellettuali, viene ora sostituito da a’) i concetti si basano su funzioni simboliche. Diviene allora evidente che la nozione «biologica» di funzione conteneva già in sé quella di simbolo. Resta da stabilire quali precise ragioni giustificano questa mossa, tentando di approdare per questa via a una definizione sufficientemente chiara della nozione di simbolo.
I
La ricerca di una definizione della nozione di simbolo nelle opere di Cassirer è un’impresa vana. Si troveranno senz’altro suggestioni metaforiche e autorevoli ricostruzioni storiche, con dovizia di esempi tratti dai più disparati campi del sapere, ma quasi mai il tentativo di una chiarificazione teorica definitiva. Sembra però venirci in soccorso un passaggio particolarmente delicato dello Essay on Man (1944) in cui la natura caratteristica del simbolo emerge per contrasto con la nozione di segno, secondo una nomenclatura che si richiama alla teoria semiotica di Charles Morris: «I segni hanno un carattere operativo mentre i simboli hanno un carattere (…) rappresentativo. Anche quando viene inteso e usato come un simbolo, il segno ha pur sempre una specie di realtà fisica o sostanziale, mentre il simbolo ha soltanto un valore funzionale».50 Questa definizione può in verità rivelarsi fuorviante, per ragioni che
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E. Cassirer, Saggio sull’uomo, trad. it. di M. Ghilardi, Mimesis, Milano 2011, p. 55. In nota Cassirer dichiara di intendere la distinzione tra carattere operativo e designativo alla maniera di Morris.
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verranno chiarite in seguito, e propongo pertanto di emendare il testo sostituendo l’ultima frase con «mentre il simbolo ha anche un valore funzionale», dove il riferimento è alla funzione simbolica che i segni possono esercitare o meno; altrimenti si dovrebbe attribuire a Cassirer l’intenzione di introdurre, senza motivazioni solide, un’accezione di simbolo troppo distante da quella invalsa nel linguaggio ordinario e negli studi di semiotica. Seguendo questo spunto, propongo ora uno schema teorico generale all’interno del quale ritengo possibile inquadrare una qualsiasi teoria delle forme simboliche di tipo cassireriano.
Comincio col definire la «funzione simbolica» ciò che resta del simbolo una volta che si sia fatto astrazione da tutte le sue caratteristiche fisiche; per il momento propongo di usare le parole simbolo e segno come sinonimi (si vedrà poi che, seguendo Peirce, il simbolo è un tipo particolare di segno). Assumo quindi la parola cosa come termine- coperta51, e osservo che i termini cosa e segno sono interscambiabili a seconda del contesto d’uso: infatti i segni sono cose del mondo, e ogni cosa può, in linea di principio, essere usata come segno. In prima battuta, disponiamo di segni elementari (verbali e non) che esercitano fin da subito una qualche funzione semantica, ma non dicono ancora niente del mondo – si limitano a designare, ma non descrivono: così una nota sul pentagramma sta per un suono della scala cromatica52. Ciò che conferisce ai segni elementari un autentico valore raffigurativo è soltanto la disposizione all’interno di una determinata struttura in cui i loro rapporti reciproci sono regolati da certe funzioni simboliche e non da altre: posso disporre un numero qualsiasi di singole note in modo tale da formare un frammento melodico, un’impalcatura armonica e, via di questo passo,
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Blanket term, nel senso introdotto da David Lewis.
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Si potrebbe obiettare che ci sono segni che non stanno per alcunché, e l’esempio più intuitivo è forse quello dello scarabocchio: se traccio dei ghirigori su un foglio al solo scopo di verificare la funzionalità di una penna, nulla mi impedisce di definirli segni (e anzi il senso comune sarebbe tranquillamente disposto a farlo), eppure è difficile, se non impossibile, sostenere che essi abbiano una qualche funzione semantica. Mi pare che l’unico modo per risolvere la faccenda sia quello di dichiarare improprio l’uso della parola segno in casi del genere.
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una composizione in forma-sonata. Si può pertanto concludere (almeno provvisoriamente) che una configurazione ordinata di segni è una visione/versione del mondo nella misura in cui si struttura come forma simbolica.
Sia ben chiaro che questa non è propriamente la teoria che ritroviamo nelle opere di Cassirer, e anzi sarebbe un grave errore storiografico presentare la questione in questi termini. Mi pongo piuttosto da un punto di vista schiettamente teorico, e avanzo la tesi che un siffatto schema è quanto si può ricavare coerentemente dalle posizioni di Cassirer sulla nozione di simbolo. Per provare questa tesi non sarà dunque necessario analizzare nel dettaglio le dottrine particolari sulle singole forme simboliche, spesso ormai superate, ma occorrerà piuttosto affrontare con sguardo critico le pagine introduttive della PsF e quei luoghi sparsi delle opere della maturità in cui affiorano assunzioni di carattere più generale. Esaurito questo compito storico-interpretativo, sarà possibile tornare allo schema appena proposto e tentare di svilupparne ulteriormente la trama concettuale.
II
Nell'undicesimo libro delle Confessiones Agostino mette a tema la nozione di tempo nel tentativo di districarne la fitta trama concettuale, ma dichiara fin da subito la difficoltà dell'impresa: so bene cos'è il tempo, e tuttavia se mi si chiede di spiegarlo mi sorprendo privo di parole. Sembra che la nozione di simbolo si trovi per noi nella stessa scomoda posizione; basta sfogliare un qualunque manuale di semiotica per accorgersi che, accanto ai consueti tentativi di definizione, ogni discorso sulla natura dei simboli si accompagna all'auspicio di una rigenerante chiarificazione concettuale. Ciononostante, da più parti si individua nella capacità di sviluppare linguaggi simbolici il carattere distintivo della specie Homo sapiens: dall'antropologia alla biologia evoluzionistica,
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dalla linguistica alla semiotica.
Nel 1944, in uno snodo centrale del compendio An Essay on Man, Cassirer propone di sbarazzarsi della vecchia concezione aristotelica dell'uomo: «Invece di definire l'uomo come un animal rationale si dovrebbe definirlo come un animal symbolicum. In tal modo si indicherà ciò che veramente lo caratterizza e lo differenzia rispetto a tutte le altre specie e si potrà capire la speciale via che l'uomo ha preso: la via verso la civiltà»53. Alcuni decenni più tardi, l'antropologo Ian Tattersal sosterrà una posizione analoga – pur senza mai citare Cassirer – nel libro Il
cammino dell'uomo (1998): dopo una ricca rassegna dei più importanti
ritrovamenti fossili relativi al genere Homo, l'indagine si focalizza sulla straordinaria «esplosione creativa» dei Cro-Magnon, una popolazione della nostra specie diffusasi in Europa durante il paleolitico superiore. Tattersal, che ha lavorato per molti anni a fianco del paleontologo Niles Eldredge – teorico, insieme a S. J. Gould, del modello evoluzionistico degli equilibri punteggiati –, individua nei rituali simbolici e nelle raffigurazioni rupestri di questi nostri remoti antenati l'emergere di quei tratti distintivi cui normalmente intendiamo riferirci quando parliamo dell'essere umani.
«La maggior parte dei semiotici concorda che la simbolicità è ciò che distingue la rappresentazione umana da quella di tutte le altre specie, permettendo alla specie umana di riflettere sul mondo indipendentemente dalla situazione di stimolo-risposta»54, scrive T. A. Sebeok nel manuale
Segni. Un'introduzione alla semiotica (2001). È assai recente lo studio di
alcuni ricercatori tedeschi e americani, pubblicato su Nature nel febbraio del 2016, che registra un curioso comportamento di alcuni scimpanzé dell'Africa occidentale, i quali sono soliti accumulare pietre nei pressi di grandi alberi senza evidenti scopi immediati55. Questa pratica può essere interpretata in molti modi diversi, e niente garantisce che sarà mai
53 E. Cassirer, Saggio sull’uomo, trad. it. cit., p. 48. 54
T. A. Sebeok, Segni. Un’introduzione alla semiotica, trad. it. a cura di S. Petrilli, Carocci, Roma 2003, p. 58.
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possibile darne una spiegazione definitiva, eppure è significativo che alcuni degli studiosi impegnati nell'osservazione di queste scimmie antropomorfe abbiano avanzato l'ipotesi che possa trattarsi di una prova dell'esistenza di rituali simbolici anche presso alcuni dei primati non umani. Ancora una volta, ricorre l'idea che l'uso e la manipolazione di simboli sia ciò che distingue la nostra specie da tutte le altre: la scoperta di forme di espressività simbolica negli scimpanzé sarebbe un risultato eclatante proprio perché metterebbe in crisi un postulato così diffuso e consolidato da potersi quasi definire il postulato per eccellenza dell'antropologia contemporanea.
III
Cosa sono dunque questi simboli, che sembrano rivestire un ruolo tanto rilevante nell'indagine scientifica sull'uomo? Appare subito opportuno rivolgere la domanda al campo di studi che ha per oggetto la natura e l'uso dei segni in generale, in quanto veicoli di comunicazione – la semiotica. Sebeok, nel manuale già citato, afferma chiaramente che «è indubbio che gli animali posseggano simboli»56; la «simbolicità» che distingue la specie umana da tutte le altre non consiste dunque semplicemente nel disporre di simboli stricto sensu, ma piuttosto nel farne uso in un certo modo caratteristico. Ora la nozione di simbolo è, «per generale ammissione»57, la più abusata: «una generalizzazione ingiustificabilmente eccessiva e una troppo vasta applicazione del concetto di forme simboliche caratterizzano gli scritti di molti epigoni di Ernst Cassirer o di studiosi direttamente influenzati dalla sua filosofia»58. C'è invece un'accezione tecnica, per quanto non ancora del tutto soddisfacente, in cui gli studiosi di semiotica parlano di simboli, e vale adesso la pena di presentarne almeno i tratti più generali.
56 T. A. Sebeok, Op. cit., p. 99. 57 Ivi, p. 97.
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La posizione classica in merito alla nozione di segno è senza dubbio quella di Peirce, il quale ne distingue tre specie: icona, indice e simbolo. A questa tipologia tradizionale, che conserva ancora oggi un carattere in qualche misura paradigmatico, se ne sono sovrapposte via via molte altre, sino all'enumerazione di parecchie decine di tipi di segno. In effetti, come si è ben presto osservato, non si tratta tanto di tipi di segno quanto piuttosto di aspetti del segno, che possono di volta in volta presentarsi in combinazioni e gradi differenti; pertanto si definisce un segno in base al suo aspetto predominante. Sebeok, adottando una tassonomia in buon equilibrio tra esaustività e parsimonia concettuale, elenca sei modi in cui un segno può essere caratterizzato: come sintomo, segnale, icona, indice, simbolo, nome. In generale, seguendo Saussure, si dice che il segno ha una natura bifacciale, in quanto formato da due metà inscindibili, significante e significato, dalla cui relazione specifica si deduce l'aspetto predominante del segno nel suo complesso. Così la relazione di similarità tra significante e significato è associata all'aspetto iconico e quella di contiguità all'aspetto indicale, mentre il tratto caratteristico del simbolo nell'accezione tecnica che stiamo considerando è l'arbitrarietà. Sono pertanto esempi di simbolo non soltanto le parole del linguaggio naturale, gli emblemi e gli stemmi, ma anche certi comportamenti diffusi nel mondo animale come quello dei babbuini che «comunicano la paura tendendo la coda verticale»59. Quel che conta, affinché un segno possa legittimamente essere catalogato come simbolo, è che il significante sia associato al significato in maniera puramente arbitraria o convenzionale. Dal momento che, come si è visto, il simbolo in quanto aspetto peculiare del segno non è appannaggio esclusivo del genere umano, resta da chiedersi in cosa consista precisamente quella «simbolicità» che, secondo il postulato antropologico prima enunciato, distinguerebbe l'Homo sapiens da tutte le altre specie di esseri viventi. Sebeok pone la questione in questi termini: ogni specie animale si costituisce il proprio mondo caratteristico, che però rimane fisso e immutabile; l'uomo, al
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contrario, ha la capacità di inventare più mondi utilizzando un numero finito di elementi in indefinite combinazioni possibili – è ciò che viene chiamato, con un'espressione forse eccessivamente ambigua, il «gioco del fantasticare»60. In virtù del suo approccio olistico allo studio dei segni, Sebeok individua nella semiosi addirittura «il fenomeno che distingue forme di vita da oggetti inanimati»61, e riprende da Jakob von Uexküll la nozione di Umwelt come tratto caratteristico del regno animale. È questo, per l'appunto, il mondo specie-specifico in cui ogni animale vive e comunica, e al quale rimane ancorato per l'intero arco della sua esistenza (come individuo o come specie). L'essere umano ha invece la capacità di usare i segni in generale, e più in particolare i simboli – ovvero segni in cui prevale il carattere di arbitrarietà o convenzionalità del riferimento –, per modellare la realtà in molti modi diversi: la «simbolicità» caratteristica dell'Homo sapiens consiste in certi modi di usare simboli per costruire mondi.
Ora, è evidente che chiunque accettasse come valido il «postulato antropologico» concorderebbe con Cassirer nel definire l'uomo animal
symbolicum. La difficoltà d'intesa rimane però ancorata proprio alla
definizione della nozione di simbolo in contrapposizione a quella di segno: «il neokantiano filosofo del Novecento Ernst Cassirer (...) sostiene che queste due nozioni [segno e simbolo] appartengono a due diversi universi di discorso (...). Approcci minimalisti come questo sono sin troppo imprecisi e superficiali per essere utili»62. In ultima analisi, se si considera il simbolo stricto sensu nell'accezione tecnica appena esaminata, la definizione proposta da Cassirer è semplicemente errata – non è vero che «il segno ha pur sempre una specie di realtà fisica o sostanziale, mentre il simbolo ha soltanto un valore funzionale»63, né tantomeno che «conviene distinguere accuratamente il segno dal
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Cfr. T. A. Sebeok, The Play of Musement, Indiana University Press, Bloomington 1981.
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T. A. Sebeok, Op. cit., p. 51.
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Ivi, p. 77.
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simbolo»64 come se l'uno fosse essenzialmente diverso dall'altro. Da questo punto di vista non c'è spazio alcuno per Cassirer nella storia della semiotica, con buona pace del suo gran parlare di segni e forme simboliche.
Si può tuttavia ancora considerare il problema da un'angolazione differente, prendendo atto in primo luogo della condizione senz'altro embrionale in cui versava lo studio dei segni durante tutta la prima metà del XX secolo, e della vaghezza con cui si discorreva, anche nei più importanti ambienti accademici, delle nozioni coinvolte. Sembra allora eccessiva, se non addirittura infondata, la pretesa di giudicare la definizione cassireriana di simbolo sulla base di concezioni standard che diverranno tali soltanto alcuni decenni più tardi. È invece più ragionevole, e certamente più fecondo, chiedersi cosa intendesse precisamente Cassirer con la parola «simbolo», dal momento che la sua nozione non può in alcun modo coincidere con quella specificamente tecnica invalsa negli studi attuali di semiotica. Nelle pagine che seguono tenterò di mostrare che, nella gran parte delle sue occorrenze all'interno degli scritti di Cassirer, è sensato sostituire alla parola «simbolo» l'espressione «funzione simbolica», intesa nell'accezione che abbiamo fissato con la tesi a' (i concetti si basano su funzioni simboliche). I differenti mondi che l'uomo plasma mediante l'uso di segni sono tali in quanto regolati da certe funzioni simboliche e non da altre; diviene allora evidente che l'intento di Cassirer non è affatto la formulazione di una teoria dei segni, ma piuttosto l'estensione e l'applicazione del metodo di Kant a tutte le dimensioni dell'universo umano. Sarà dunque vano ricercare un posto per Cassirer nella storia della semiotica; i problemi che pone e le soluzioni che abbozza, financo nella fase più matura della sua produzione, appartengono inequivocabilmente alla storia del neokantismo e ne costituiscono forse la vicenda più originale.
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IV
La definizione di uomo proposta da Cassirer nello Essay on Man non ha analoghi in PsF, ma si pone in evidente continuità con le ricerche che la precedono. Essa ha precisamente la stessa funzione del passaggio dalla tesi a alla tesi a' di cui si è discusso prima: l'estensione della riflessione trascendentale a tutti i modi di costituzione del mondo, dalla scienza all'arte, dal linguaggio alla religione. D'altro canto, l'esigenza di abbracciare con lo sguardo del pensiero l'intero universo spirituale dell'uomo era già emersa in SF – non soltanto i concetti della matematica e della fisica, ma in generale tutti gli strumenti di cui ci serviamo per comprendere la realtà riposano su funzioni generalissime, vale a dire su invarianti ultimi. Soltanto questa estensione della tesi a consente di esaurire l'intero campo di ciò che esiste, e di adempiere con ciò il compito posto dal criticismo kantiano:
che questa funzione non pervenga a compimento in nessuna delle sue manifestazioni, che essa invece dietro ogni soluzione raggiunta veda nascere un nuovo problema è fuor di dubbio. Qui realmente la realtà «individuale» conferma il suo fondamentale carattere di inesauribilità (...). Ogni nuova produzione rappresenta, ricollegandosi alle precedenti, un nuovo passo verso la determinazione dell'essere e dell'accadere. L'individuazione, come un punto infinitamente lontano, determina la direzione della conoscenza. Certo, quest'ultima e suprema meta unitaria rinvia oltre la cerchia dei concetti e dei metodi della scienza della natura. L'«individuo» della scienza della natura non include e non esaurisce né l'individuo della considerazione estetica, né le personalità morali che formano i soggetti della storia (...). Per parlare in termini logici: si tratta di diverse forme relazionali in cui il singolo viene accolto e in virtù delle quali viene foggiato; l'opposizione dell'«universale» e del «particolare» si risolve in un succedersi di condizioni complementari, che solo nel loro complesso e nella loro
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cooperazione possono afferrare il problema della realtà.65
Si tratta, come osserverà Nelson Goodman molti anni dopo 66 , dell'incontro fra la tesi kantiana della vacuità della nozione di «contenuto puro» e la tesi non-kantiana della pluralità di mondi. Il dato immediato è un mito caro agli empiristi; in verità ogni nostra conoscenza è mediata (da certe categorie, direbbe Kant, o da certe funzioni simboliche), e non vi è un unico modo di dare forma alla realtà o al mondo, ma tanti modi diversi quante sono le forme simboliche. In PsF si tratta semplicemente di indivuarle e tracciarne una tassonomia, dando vita così a quella che lo stesso Cassirer definisce una vera e propria «morfologia dello spirito». Questo percorso lungo tre volumi comincia con una prefazione