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America Incontri

Dopo avere seguito lo slancio che segna il movimento di Tamerlano, vorrei ora considerare l’approdo a uno spazio tanto concreto quanto rivo- luzionario per l’identità europea, quello americano, a cui Pietro Martire d’Anghiera e Amerigo Vespucci diedero l’appellativo di Mundus Novus1,

per l’abbacinante alterità “geografi ca, botanica, zoologica, antropologica” con cui l’Europa si trovò a confrontarsi2.

Sintetizzare il risultato dell’incontro, nell’immaginario collettivo, tra il Vecchio Continente e questo spazio sconosciuto, posto al di là delle Co- lonne d’Ercole – in quel Mar Tenebroso che scompaginava il confortante orizzonte, limitato e chiuso, del Mediterraneo – è quasi impossibile, per la molteplicità di signifi cati che, secondo vettori e forze spesso contrastanti, si sovrappongono: l’America rappresenta la donna, la vergine, l’alterità selvaggia e attraente che impaurisce e, pertanto, va addomesticata e scrit- ta; in questo senso, suggerisce la riscrittura dei miti greco-romani e dei loro eroi, entro forme e signifi cati rinnovati che segnano l’inventio (proprio come scoperta e, insieme, invenzione) del territorio conquistato, fondendo la memoria del passato con la meraviglia dell’inedito; ed è inoltre Inferno e Paradiso insieme, perché la paura e la colpa che la tradizione collega al suo approdo (pensiamo al viaggio dell’Ulisse dantesco) sono riscattate dalle speranze e dagli interessi religiosi ed economici che vi ripongono i conqui- statori europei, specie lusitano-ispanici e inglesi; svelata nella sua esisten- 1 A. A. Cassi, Introduzione a Ultramar. L’invenzione europea del Nuovo Mondo,

Bari-Roma, Laterza, 2007, pp. 3-27, p. 7; cfr. P. Cimò, Il Nuovo Mondo. La sco-

perta dell’America nel racconto dei grandi navigatori italiani del Cinquecento,

Milano, Mondadori, 1991. 2 Ivi, p. 8.

za reale e ora desiderata per le abbondanti risorse economiche, l’America suggerisce così nuove utopie3 che si sovrappongono alle antiche fantasie

poetiche e fi losofi che che la immaginavano tra le isole felici, ma al tempo stesso produce una mitologia antiutopica come reazione agli ideali sottesi allo sfruttamento dei territori e dei suoi abitanti.

Uno degli aspetti di maggiore spicco nell’immaginario europeo dell’America, tra Cinquecento e Seicento in particolare, è costituito dai protagonisti della conquista, personaggi storici come Colombo, Cortéz e Balboa, Vespucci e molti altri che, per ovvie ragioni di sintesi, non potrò prendere in considerazione, nonché letterari come lo stesso Prospero di Shakespeare, pioniere e conquistatore sui generis, in quanto anch’egli tra- mite tra i due mondi; è inoltre fondamentale il loro incontro con quell’infi - nita gamma di potenzialità che il territorio scoperto schiude agli occhi degli europei, tra disinteressata ricerca di conoscenza e inevitabile tendenza a trasformare ogni presenza antropica e naturale in valore commerciale per i paesi conquistatori.

La conquista del continente deve tradursi in atti esteriori, in meraviglie da mostrare ai sovrani, e prevede, per inglesi e spagnoli4, la necessità di

“ricavare il maggior profi tto dalle miniere d’oro, argento, rame” per pagare gli interessi dei grandi banchieri (come i Fugger per Carlo V) da cui si ricevevano le somme di denaro per pagare quelle stesse imprese5. Di qui

la distribuzione del territorio in encomiendas, la tendenza a sfruttare al massimo le risorse degli indigeni nei repartimientos e a placare ogni ribel- lione anche con l’uso strumentale della religione. Il 20 marzo 1524 ven- nero emanate le Ordenanzas de buen gobierno, in cui Cortéz dispose che gli encomenderos possedessero armi in quantità suffi ciente per mantenere l’ordine e che fosse proibito ai nativi il culto degli idoli, nonché affi dati i loro fi gli ai frati per ricevere un’istruzione cristiana6.

3 Si veda il resoconto del viaggio di Ralegh in Guiana, in F. Marenco, Sir Walter

Ralegh: viaggio in Guiana alla ricerca dell’Eldorado, febbraio-settembre 1595,

in Nuovo Mondo. Gli inglesi, pp. 477-543. “Fu senza dubbio dagli scali caraibici e brasiliani”, commenta l’autore, “che il tarlo dell’Eldorado penetrò nella fantasia dell’Inghilterra cinquecentesca, trovandovi immediato nutrimento” (p. 470). Cfr. Id., La caccia ai tesori americani. 1570-1603, Ivi, pp. 247-328.

4 Cfr. F. Marenco, Introduzione a Nuovo Mondo. Gli inglesi. 1496-1640, p. XXII. Cfr. S. Greenblatt, Meraviglia e possesso. Lo stupore di fronte al Nuovo Mondo, Bologna, il Mulino, 1994.

5 A. A. Cassi, Le Nuove Terre in Ultramar. L’invenzione europea del Nuovo Mondo,

pp. 62-91, p. 72. 6 Ivi, p. 73.

Il desiderio dei conquistatori europei è quello di affermare la loro ege- monia in America attraverso opere e segni signifi cativi, vere e proprie “co- smografi e spettacolari”7. Il cronista Oviedo descrive la presa di posses-

so (“reale e corporale”, ma in realtà sintetizzata in un gesto simbolico) di Vasco Núñez de Balboa, nel golfo di San Miguel, dopo avere ‘scoperto’ l’Oceano Pacifi co, il 29 settembre 1513:

avvenne nel golfo che Vasco Núñez de Balboa nominò di san Miguel […] Balboa marciò col suo piccolo esercito fi no dove l’acqua del mare cresceva e calava in gran quantità. […] Con la marea bassa non si poteva fare la ceri- monia; Balboa voleva entrare in acqua, ma la marea si abbassava e la voglia cresceva […]

Crebbe infi ne il mare alla vista di tutti, molto e con grande impeto; [allora] Vasco Núñez, in nome del Serenissimo e molto cattolico re don Fermando […] con la spada sguainata e uno scudo nella mano entrò nell’acqua salata del mare, fi no alle ginocchia, e cominciò a camminare dicendo: «Vivano i più insigni e poderosi re don Fernando e donna Giovanna, reali di Castiglia e del León e di Aragona […] nel cui nome e per la Corona reale di Castiglia prendo e afferro il

possesso reale e corporale, in questo momento, di questi mari8.

Nel dramma di Lope El nuevo mundo descubierto por Cristóbal Colón, la forza traumatica ed emozionante di questo incontro segna il ritratto di Co- lombo, destinato però a confrontarsi con la tendenza della società europea a trasformare in valore economico l’intero ‘capitale’ naturale (e, soprattut- to, umano) incontrato in questo territorio. Come molti drammi calderoniani (il già citato Aurora en Copacabana, e La nave del mercader, Guárdate del agua mansa, Cuál es major perfeción, Fortunas de Andrómeda y Perseo, La semilla y la cizaña9), El nuevo mundo mette in luce il rapporto simbo-

lico di pressoché totale identifi cazione tra l’America e la ricchezza, che 7 A. A. Cassi, I nuovi mari, in Ultramar. L’invenzione europea del Nuovo Mondo,

pp. 28-52, pp. 28-29. Cfr. cap. I, Geografi e e allegorie.

8 Ivi, pp. 28-29. Cfr. Gonzalo Fernández de Oviedo y Valdes, Historia general y

natural de las Indias, islas y Tierra Firme del Mar Océano (1535), Madrid, Real

Academia de Historia, 1851-1855, 4 voll..

9 Cfr. Díez Borque J. M., Calderón de la Barca y Las Indias Occidentales, in P. Jiménez, F. González Cañal, B. Rafael, E.Marcello (eds.), Calderón: Sistema

dramático y técnicas escénicas. Actas de las XXIII Jornadas de Teatro Clásico,

Universidad de Castilla-La Mancha, Ediciones de la Universidad de Castilla-La Mancha, 2001, pp. 125-154. L’autore fa notare come in questi drammi l’idea di America presenti “componenti di contrasto, e anche di contraddizione, nel cam- mino che va dall’esaltazione religiosa e patriottica alla considerazione delle Indie Occidentali come luoghi di ricchezza senza limiti”, dai quali si possono ottenere benefi ci individuali e collettivi. “Entrambi i concetti si integrano nell’immagina-

in forma implicita ma ricorrente stride con le ragioni dell’evangelizzazio- ne. A differenza di Ulisse10, infatti, Colombo è un personaggio storico. La

sua scoperta cancella con un colpo di spugna la colpa di hybris dell’eroe omerico, punito con l’improvviso sollevarsi di quel “turbo” nato dalle pen- dici della montagna bruna che blocca lo slancio dei remi (trasformati, per metafora, in “ali al folle volo”) e richiude per sempre il mare sopra i viag- giatori, “com’altrui piacque” (Inferno, XXVI, 125-142). Da Ulisse, egli deriva il desiderio di seguire “virtute e conoscenza”, ma il suo slancio si fonde con la necessità di conquistare ricchezza da offrire alla Spagna e ai sovrani che avevano fi nanziato l’impresa. Gli stessi rapporti tra queste due polarità – all’apparenza netti, in quanto l’una sembra nobile, la sete di conoscenza, e l’altra bieca, quella di denaro – non sono sempre del tutto chiari, perciò il teatro si spinge a mettere in scena tale ambivalenza. Lope accentua la portata dell’immaginazione e della fantasia che, tra sogni e fol- lia, “locura”, caratterizzano il progetto di Colombo e lo rendono ridicolo prima davanti ai sovrani portoghesi e inglesi, poi agli occhi degli stessi compagni di viaggio, che lo paragonano a Giona e a Prometeo; inoltre, il drammaturgo si serve dell’allegoria per creare spunti metateatrali che sot- tolineino l’ambiguità del punto di vista uffi ciale, mettendo in crisi proprio le due fi nalità apparenti, la ricchezza e l’evangelizzazione. Come osserva Guicciardini nella Storia d’Italia, “Né solo ha questa navigazione confuso molte cose affermate dagli scrittori delle cose terrene, ma dato, oltre a ciò, qualche ansietà agli interpreti della Sacra Scrittura…” (VI, 13).

A una funzione destabilizzante rispetto all’orizzonte d’attesa del pub- blico, e nel rovesciamento delle più scontate simbologie, è rivolta anche la rappresentazione dell’alterità incontrata nella seconda parte del dramma, in cui si incrociano indifferentemente gli sguardi di conquistatori e con- quistati. Non bisogna infatti dimenticare che altri protagonisti dell’impresa americana sono proprio gli stessi indigeni, che la letteratura mette in mo- vimento sottraendoli sia a una rappresentazione eccessivamente paternali- stica, che ne farebbe vittime e personaggi passivi, sia alla rappresentazione tendenziosa dei conquistatori, che ne sottolineavano l’aspetto bestiale e peccaminoso proprio per poterne fruire senza sensi di colpa11.

rio collettivo che, a suo modo, il teatro accoglie e incoraggia come risonanza di idee e aspirazioni” (pp. 151-152).

10 Per tutti le suggestioni e gli approfondimenti intertestuali legati al personaggio, da Omero al Novecento, si veda P. Boitani, L’ombra di Ulisse. Figure di un mito, Bologna, il Mulino, 1992.

11 “A Londra, gli editori sfornavano trattati, libelli e fogli di notizie che rappresenta- vano gli Indiani come docili agnellini o bestie immonde, a seconda se si dovessero

Scriveva Acosta, teologo gesuita, in De procuranda indorum salute:

[…] a tutti costoro, che a mala pena sono uomini, o sono uomini a metà, è opportuno insegnare a essere uomini e istruirli come bambini. E se attraendoli con carezze si lasceranno istruire, tanto meglio; ma se resistono, non per que- sto bisogna abbandonarli […] ma è necessario costringerli con la forza ed il potere opportuni, ed obbligarli ad abbandonare la selva ed a riunirsi in villaggi e, anche in certo modo contro la loro volontà, far loro forza perché entrino nel regno dei cieli12.

Questo diffuso punto di vista è sotteso sia all’opera di simbolica evan- gelizzazione nel testo di Lope, sia al rapporto tra Prospero e i nativi, Ariel e Calibano in The Tempest di Shakespeare. Come anticipavo, Prospero può apparirci come una rielaborazione letteraria dei personaggi storici che han- no realizzato la conquista dell’America e che hanno segnato il loro rappor- to con gli indigeni da una parte, e con l’immaginario occidentale dall’altra. Il personaggio, però, non soltanto sottomette i nativi ai propri scopi, ma li libera, servendosi dei poteri naturali e magici dell’isola per proporre la so- luzione di confl itti politici e di problemi di convivenza civile. Il suo potere è amplifi cato dallo spazio magico del teatro e da tutte le potenzialità da esso offerte, compresa quella di dare voce a Calibano e alla sua ribellione. È per questo motivo, a mio avviso, che il personaggio può essere letto come un particolare conquistatore, come Colombo e Balboa, dai quali però si distingue proprio per il suo sforzo, all’interno dell’utopia teatrale, di creare nel nuovo territorio scoperto non lo spazio di contrasti e fratture tra il mondo europeo e quello indigeno, ma della loro possibile conciliazione. Tale tentativo, tuttavia, non resta cristallizzato nell’idillio, ma viene disin- cantato dal dissolversi della magia che lo aveva reso possibile – a sua volta creata dalle forze naturali del luogo – e dalla fi ne dell’illusione teatrale.

L’utopia e il fl irt

L’America di Cinquecento e Seicento rappresenta lo spazio dove si concentrano, nell’immaginario collettivo, le più intense trasformazioni dell’utopia. I miti antichi la identifi cavano nelle isole felici e persino nella

raccogliere fondi per sostenere i coloni, o giustifi carne l’operato e la ferocia” (F. Marenco, Virginia. 1584-1610, p. 339).

12 José de Acosta, De procuranda indorum salute, in Corpus Hispanorum de Pace,

rielaborazione politico-favolistica dell’Atlantide13 – una lettura citata da

Montaigne nel saggio Les Cannibales (1580), ma da lui stesso smentita, seppure ripresa più di un secolo più tardi da Gian Rinaldo Carli nelle Let- tere americane14. Ora, invece, questo sterminato territorio è collocato non

più soltanto nell’immaginazione di poeti e fi losofi , ma in uno spazio reale straordinariamente allettante per i conquistatori e per i loro Stati. Dall’Uto- pia di Thomas More alla New Atlantis di Francis Bacon, l’America passa ai miti dell’Eldorado e della ‘febbre dell’oro’15 ma, al tempo stesso, attraversa

la critica di Montaigne e di Las Casas o il messaggio di drammi come quel- li di Lope e di Shakespeare, che in forma diretta oppure allusiva auspicano un rapporto amoroso e fecondo tra conquistatori e conquistati nel momento in cui denunciano le mistifi cazioni che sostiene la conquista.

In The Tempest il discorso di Gonzalo (II, i, 145 sgg.) – una sorta di ridu- zione e di devalorizzazione del messaggio di More – viene a sua volta ridi- mensionato all’interno di quella che rappresenta la vera utopia, che fi nisce per coincidere con lo spazio teatrale, luogo magico che ridiscute identità e alterità, ragione e memoria, potere politico e amore, idillio e corruzione, nella speranza della più felice e armoniosa conciliazione. Non casuale, in questo senso, è la sua ambientazione nelle isole Bermude, dove le presenze naturali a metà tra l’irreale e il mostruoso, le sabbie d’oro e i coralli cantati da Ariel, ma anche la violenta e spontanea ferinità di Calibano – cane/can- nibale – rischiano (come le meraviglie mostrate dal tiranno Dulcanquellín in El nuevo mundo) di trasformarsi in merce o di mostruosità da baraccone, ma sono liberate e riscattate dal teatro stesso, dove trovano il più perfetto compimento nel corretto uso della memoria come coscienza di sé e nella funzione della meraviglia, propedeutica alla conoscenza dell’altro.

La fusione tra europei e americani non avviene, però, né nel testo di Lope, né pienamente in quello di Shakespeare, ma rimane accarezzata, sempre tesa tra desiderio e limiti sociali. Gli infi niti allettamenti e le mera- viglie naturali che la scoperta dell’America presenta agli occhi dei conqui- statori troveranno piuttosto il loro simbolo più signifi cativo nell’immagine

13 Cfr. M. Ciardi, Atlantide. Una controversia scientifi ca da Colombo a Darwin, Milano, Carocci, 2002. Mi permetto anche di rimandare a: C. Lombardi, «La sa-

cra isola sotto il sole». Il mito di Atlantide in Platone, Casti, Foscolo, Leopardi,

Civitavecchia, Edizioni Prospettiva, 2006.

14 M. E. de Montaigne, Saggi, Milano, Adelphi, 1982, 2 voll., I, pp. 268-284 [ed. orig. Des Cannibales, in Essais, XXXI, 1580-1588-1595].

15 Cfr. W. Ralegh, The Discoverie of the Large, Rich and Bewtifull Empire of Guiana,

London, 1956, in Marenco, Nuovo Mondo. Gli inglesi, Introduzione (pp. XXIII sgg.), e pp. 469 sgg.

del fl irt di cui parla Moretti seguendo Simmel16, a proposito delle moderne

metropoli, in quell’ambiguo mostrarsi senza concedersi, che oscilla tra una metamorfosi che si sottrae al godimento dell’altro e una sterile frantuma- zione di immagini senza corpo, secondo la logica del capitalismo. In en- trambi i casi, è scongiurato sia il possesso distruttivo, sia la piena, amorosa corrispondenza. El nuevo mundo – come, indirettamente, El mágico prodi- gioso – descrive con molto acume questo processo di trasposizione, questa nuova, implicita, forma di moderna idolatria che va contrapponendosi a quella di cui erano accusati gli indigeni stessi. I corpi si trasformano in merce, e la ‘pubblicità’ (come la spettacolare presa di possesso di Balboa nel testo di Oviedo) ne illude il possesso (e la perdita del corpo reale, lo slittamento in extremis tra amore e pornografi a)17. Ancora una volta, però,

la letteratura – nell’utopia di The Tempest (nell’amore tra Miranda e Ferdi- nando, ad esempio, e nella tensione tra una spontanea partecipazione alla natura e la magica, artistica guida di Prospero) come nel discorso implicito di El nuevo mundo – rovescia questa tendenza nel momento in cui la rivela come ormai radicata nella società che descrive. Il segno allegorico diventa la lettera scarlatta che imprime sul personaggio di Hester Prynne il suo marchio di adultera, ma anche lo stesso distintivo strappato con soddisfa- zione dal petto18.

In questo senso, l’America si fa infi ne leggere (e scrivere) come una fi gura del discorso amoroso: divide coloro che si rapportano con lei tra conoscenza e amore, violenza, sopraffazione e possesso, pregiudizio e pau- ra. Per comprendere immagini come la donna che si concede discinta a Vespucci nell’incisione già citata, oppure il territorio e gli abitanti svelati alle descrizioni di Lope e di Shakespeare, andando un po’ lontano, credo che potrebbe essere utile ripensare un personaggio come la Daisy Miller di Henry James, il fearful, frightful fl irt che attira e spaventa Winterbourne e lo lascia a contemplarla sulla soglia with a sort of horror19, nella serata incosciente e provocatoria al Colosseo, simbolo dell’America tra le rovine romane, di un incontro destinato a degenerare nella morte (dato che Daisy contrae, proprio quella sera, una febbre mortale):

16 F. Moretti, «Ulisse» e il Novecento, in Opere mondo. Saggio sulla forma epica

dal Faust a Cent’anni di solitudine, Torino, Einaudi, 1994-2003, pp. 115-214, p. 125 sgg.

17 Si veda, in rapporto al The Winter’s Tale: S. Orgel, The Pornographic Ideal, in

Imagining Shakespeare, Basingstoke, Palgrave, 2003, pp. 112-143.

18 N. Hawthorne, La lettera scarlatta, Einaudi, Torino, 1951-1995, cap. XVIII, p.

206, e XIX, [ed. orig. The Scarlet Letter, 1850].

The place had never seemed to him more impressive. One half of the gi- gantic circus was in deep shade; the other was sleeping in the luminous dusk. […] The historic atmosphere was there, certainly; but the historic atmosphere, scientifi cally considered, was no better than a villainous miasma. Winterbourne walked to the middle of the arena, to take a more general glance, intending thereafter to make a hasty retreat. The great cross in the centre was covered with shadow; it was only as he drew near it that he made it out distinctly. Then he saw that two persons were stationed upon the low steps which formed its base. One of these was a woman, seated; her companion was standing in front of her.

Presently the sound of the woman’s voice came to him distinctly in the warm night air. ‘Well, he looks at us as one of the old lions or tigers may have looked at the Christian martyrs!’ These were the words he heard, in the familiar accent of Miss Daisy Miller20.

Anche dopo quasi quattro secoli dalla conquista dell’America, questo scorcio è ricchissimo di ambiguità e di tabu infranti o ancora soltanto te- muti, al punto che le paure si trasformano in segni di fortissimo impatto e contrasto simbolico: il gigantesco teatro romano si divide tra luce e ombra; l’atmosfera storica è compromessa da malsani vapori; i martiri cristiani e le fi ere rovesciano le attese che avevano indotto il lettore a vedere nella giovane americana una fonte di pericolo. Sulla soglia da cui guarda Winter- bourne, da una parte vediamo lo ‘spregiudicato’ comportamento america- no (davvero tale, oppure soltanto nel timoroso pregiudizio dell’amico che era stato incapace di amarla?), dall’altra l’aspetto spaventoso delle rovine romane in cui sprofonda Daisy, e che causeranno la sua morte. Come di- menticare che Winterbourne l’aveva messa in guardia? “When you deal with natives you must go by the custom of the place. Flirting is a purely American custom; it doesn’t exist here”21.

El nuevo mundo

Tra immaginazione, realtà e follia: la mappa di Cristoforo Colombo Ho già accennato, almeno in parte, a taluni motivi che compongono l’intreccio del dramma di Lope de Vega El nuevo mundo descubierto por Cristóbal Colón. Riassumendo, nel primo atto si sviluppa il progetto che guida Colombo alla volta delle Indie: sono esposti i tentativi di ottenere

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