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olio su tela, cm 220 x 141,5, inv.: Cl I n 1392 Venezia, Museo Correr

Bernardino Castelli era figlio di Francesco e Maria Elisabetta Forcellini, nacque il 15 giugno 1750 ad Arsié (fraz. di Feltre) nel Trevigiano. Secondo il Federici “fin de’ primi verdi anni” si sentì inclinato alla pittura “disegnando a penna e carboncino fiori, animali ed insetti”. Dopo una prima istruzione pittorica a Feltre con Giovanni d’Antonio, esordì dipingendo ornati nella villa del nobile Franzoja a Quero. Venne poi condotto dal canonico Franzoja a Treviso e presentato al vescovo P. F. Giustiniani, che lo prese sotto la sua protezione, facendogli continuare gli studi. Il Castelli si affermò fin da allora come ritrattista. L’opera che gli diede notorietà è stato appunto il ritratto del Vescovo Giustiniani che dovette poi ripetere per tutti i parroci della diocesi. Dipinse anche pale d’altare: un S. Lorenzo Giustiniani per la chiesa del seminario, un Transito di S. Giuseppe per la parrocchiale di Ravai, e un S. Spiridione vescovo per quella di Coste, ambedue nella provincia di Treviso. Nel 1772, invitato dal convento domenicano di S. Nicolò, sempre a Treviso, avrebbe eseguito nello spazio di sei mesi molti ritratti di uomini illustri di questo Ordine; ne restaurò diversi altri ordinandoli insieme in una galleria, collocata nella sala del capitolo (distrutta da eventi bellici).

Nel 1775, raccomandato dal vescovo Paolo Francesco Giustiniani si trasferì a Padova continuando a dedicarsi ai ritratti. Federici e Moschini citano quelli che fece per Francesca Capodilista e Alberto Zabarella, di loro stessi, dei familiari e di loro amici. Cresciuta la sua fama, il Castelli si stabilì a Venezia dove divenne, nel 1782, membro dell’Accademia di pittura. Ritrasse i dogi Paolo Renieri e Ludovico Manin (a mezzo busto; Venezia, Civico Museo Correr), il papa Pio VI (esiste un’incisione del ritratto) durante il suo passaggio a Venezia e Pio VII allorché fu eletto (dipinto conosciuto

Nel 1792 si recò a Bologna, dove fu associato all’Accademia Clementina, e si trattenne anche a Ferrara lasciando ovunque ritratti. Continuò poi anche a dedicarsi alla pittura sacra onde veniva chiamato “pittore delle belle Madonnine”.

Feltre, Museo Civico

Il Castelli divenne un ritrattista alla moda in quanto “sapeva cogliere le fisionomie” cioè raggiungere la somiglianza (Moschini, 1810); e “serbò il veneto sapore e non perdeva mai di mira la verità” e questo ci permette di associarlo alle nuove tendenze antibarocche e illuministe.

All’inizio, Bernardino Castelli sembra continuare la maniera del Longhi ma in seguito subisce l’influsso della tradizione realista e tonale della ritrattistica inglese.

Fra le sue ultime opere, Moschini cita una Susanna con i vecchioni, dipinto in gara con I. Guarana e G. B. Mengardi per G. G. Manfrin, un ritratto di Elisabetta Morosini Gattenberg, raffigurata dinanzi al busto del suo avo, il Peloponnesiaco, nonché per Girolamo Silvio Martinengo di Brescia un S. Gerolamo Miani che accoglie gli orfanelli, terminato dopo la morte del Castelli dal pittore Liberale Cozza. Protetto dalla famiglia Giustiniani, non rispose all’invito del Canova di recarsi a Roma.

Morì a Venezia il 24 febbraio 1810 e venne sepolto, a spese dei Giustiniani, nella chiesa di S. Giovanni Crisostomo.

Tavolino veneto

Il nostro effigiato Girolamo Manfrin nacque a Zara nel 1742 e comparve a Venezia alla fine degli anni Sessanta, ma a tutt'oggi le sue origini sono poco chiare.

La storia familiare tracciata da V. Spreti contempla l'elevazione a conte di un Manfredo nel 1433, ma non trova supporti documentari, e la famiglia non compare tra quelle cittadine di Venezia.

Con il commercio del tabacco, e con la sua esosità, si era arricchito oltre misura divenendone l'arbitro assoluto dei prezzi e acquistando per sé il titolo di marchese. Aveva costruito una fabbrica di tabacco a Nona (l'attuale Nin, in Croazia) dove aveva vari possedimenti, tra i quali tremila campi coltivati (pari a circa 1.100 ettari).

La politica dei prezzi praticata fece fiorire il contrabbando e la coltivazione abusiva, contro cui il Manfrin armò una sbirraglia, sia per mare che per terra, ricordata per la violenza e i soprusi.

La sua attività fu oggetto di pungenti satire ed invettive, soprattutto nel 1797.

Non era sicuramente una persona modesta che passava inosservata, se le ruote delle sue carrozze avevano i cerchioni ricoperti d'argento. Il Senato dovette richiamarlo perché certi sfarzi che esibiva potevano essere consentiti solo agli ambasciatori della Repubblica e solamente «...per maggiore gloria dello Stato».

Con i primi tangibili successi dell'impresa, all'inizio degli anni Ottanta del XVIII secolo, il Manfrin cercò di costruirsi anche un'adeguata immagine culturale. Fece costruire da G. Selva una villa a Sant'Artemio, presso Treviso, allestendovi nel 1783 uno spazio verde che contemplava elementi del giardino all'inglese, mentre a Venezia acquistò nel 1788 il palazzo Venier già Priuli, sul rio di Cannaregio. Inserendosi in un schiera di committenti borghesi, entro il 1791 adeguò l'edificio, di A. Tirali, al nuovo gusto classicista, chiamando il pittore G. Mengardi e l'ornatista D. Rossi. Già nel 1790 il M. era considerato uno dei pochi a Venezia disposti a investire nelle belle arti, e nel giro di pochi anni il palazzo si trasformò in una sorta di museo.

Più di 800 pezzi, disposti in vetrine, riguardavano la storia naturale; nel 1796 la biblioteca raccoglieva circa 800 libri di arte, architettura, archeologia e scienze naturali. La formazione della collezione di dipinti, delegata a Mengardi e P. Edwards, espresse ambizioni didascaliche più che gusto personale, ma comprese anche un dipinto come la Tempesta di Giorgione. Sul finire del secolo la raccolta contava più

di 450 opere, di scuola prevalentemente veneta e antecedenti al XVI secolo, nonché sculture di ambito veneziano.

Girolamo Manfrin morì a Venezia nel 1802, lasciando erede un figlio, Pietro. Fu sepolto a S. Marziale, in una tomba senza lapide.

Palazzo Manfrin era in origine un palazzo della famiglia Priuli, costruito nel Cinquecento. Nel Settecento venne rifabbricato su disegno del Tirali e per testamento passò alla famiglia Venier. Nel

1787 venne acquistato da Girolamo Manfrin che lo trasformò in una delle più importanti gallerie d'arte private

Fonti e Bibliografia:

D. M. Federici, Memorie trevigiane..., Venezia 1803, 11, pp. 185 ss.; G. A. Moschini, Della letteratura veneziana nel secolo XVIII, Venezia 1806 - 1808, I, p. 191; Id. , Memorie sulla vita del pittore Bernardino Castelli, Venezia 1810; L. Crico, Lettere sulle Belle Arti trevigiane, Venezia 1833, pp. 89, 297; G. A. Moschini, Dell’incisione in Venezia (c. 1840), Venezia 1926, pp. 105 - 107, 127; Catalogo delle cose d’Arte...d’Italia, Treviso, a cura di L. Coletti, Roma 1935, p. 130; A. Serena, Nel centenario di Angelo Dalonistro, in Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, XCVIII (1939), 2, pp. 361 - 363; G. Lorenzetti, La pittura italiana del Settecento, Novara 1942, p. XXXVIII; T. Pignatti, Il Museo Correr di Venezia. Dipinti del XVII e XVIII secolo, Venezia 1960, pp. 59 - 65